Rivista Anarchica Online
Città e municipalismo libertario
di Dario Padovan
(...) L'economia di mercato modifica rapidamente il rapporto tra gli uomini,
trasformandolo in rapporto tra
oggetti, tra venditori e compratori di forza-lavoro. Essa ha un segreto da cui ha tratto la forza per modificare
la totalità della vita sociale: la forza dell'anonimato. E' in virtù di questa che
l'economia ha trasformato la vita
sociale basata su relazioni solidali e mutualistiche, in una vita regolata dal rapporto di scambio, da un do
ut des
fondato sul conteggio economico e sul profitto che tale transazione, un tempo fondata sulla
solidarietà e sul
dono, può garantire. Oggi l'anonimato e la spersonalizzazione del mercato hanno completamente privato
il
processo di scambio della sua dimensione morale. Anche per ciò che
riguarda le cosiddette imprese alternative, come le aziende di agricoltura biologica, i
laboratori artigianali e le cooperative alimentari, in alcuni casi l'ispirazione etica si è molto indebolita
e rischia
di sparire. Nella misura in cui tali aziende diventano stabili, acquistano caratteri più imprenditoriali che
morali.
Si tratta di un riscio evidente, di cui tutte le realtà alternative sono consapevoli, e che emerge non solo
dalla
necessità di confrontarsi con il mercato ufficiale, confronto d'altra parte necessano per ora in questa
realtà
sociale - ma anche perché spesso le cose prodotte non portano con sè un
messaggio etico che prefiguri e
presupponga una economia alternativa in una società profondamente rivoluzionata. Il superamento
dell'anonimato, un nuovo valore d'uso del lavoro, non più realizzato in merci inquinanti ma in
beni di utilità sociale, il superamento della concorrenza tra produttori e venditori, da sostituire con la
reciprocità
e l'interdipendenza dei soggetti che partecipano ad un organico processo di riproduzione della società,
sono
questi i messaggi etici che le attività alternative dovrebbero portare con sé. Le tecniche di
produzione e la bontà finale di un oggetto non contengono immediatamente questi valori, che
invece si realizzano nei rapporti tra singolarità e tra queste e la collettività. Solo la ricostruzione
di una comunità
coesa, solo il controllo delle attività economiche e dei rapporti di scamhio tra entità produttive
e tra individui
da parte della società, o comunque da parte di quei movimenti che già oggi si pongono come
obiettivo la
riformazione di un tessuto sociale comunitario, può impedire quelle deviazioni efficientiste,
produttivistiche,
mercantilistiche, che sono un pericolo per tutte le realtà di cooperazione alternative. Il problema
non è allora se partecipare o meno al mercato ufficiale: fintanto che non si formeranno ampie
comunità territoriali e regionali, ampie zone riempite da una controsocietà reale, questi
messaggi etici -
provenienti da un'economia alternativa che sa trasformarsi anche in cultura - lanciati sul mercato, non possono
essere che positivi. L'importante è non considerare l'economia come una sfera autonoma e indipendente
dalla
vita sociale e dalle potenzialità cooperative del lavoro sociale, non considerarla la scienza che supera
l'opposizione tra bisogni illimitati e risorse scarse - essa m realtà ricrea continuamente questa falsa
opposizione
- ma un'ambito di riproduzione che valorizzi l'individuo e la collettività a cui partecipa. L'economia
alternativa
che viene acquisita dai movimenti deve diventare spazio sociale che libera potenzialità produttive e
creative,
non sorretta da inesorabili leggi di mercato, che dia un nuovo senso al lavoro, che liberi tempo da dedicare alla
costruzione di istituzionalità alternative e a lotte radicali nei territori. Abbiamo dunque bisogno di nuove
sensibilità ecologiche e libertarie, di un progetto di ecologia sociale che sappia riconsiderare territorio
ed
economia, comunità ed istituzionalità alternative, trasformando settori della società
civile in forti movimenti
di opposizione e di radicale cambiamento. Questa è una scommessa per il futuro.
Città e municipalismo libertario La crisi ecologica sta rapidamente
mettendo in evidenza la vetustà, l'obsolescenza, l'inadeguatezza, la
pericolosità al limite dell'estinzione del biosistema, dell'attuale sistema sociale di sviluppo e delle
istituzioni
politiche, economiche e sociali che lo sostengono. La degradazione, dissoluzione, la devoluzione rapida di interi
ecosistemi naturali e sociali, ci ha messo prepotentemente di fronte agli esiti di uno sviluppo continuo e di una
crescita illimitata, spinti da élites economiche e statali che non solo ancora non hanno minimamente
preso in
considerazione il concetto della oggettiva limitatezza dell'ambiente bio-fisico nel quale si è sviluppata
la società
con il suo armamentario produttivo, ma che ancor più si beffano della brutalità di
un'organizzazione sociale,
sempre più autoritaria e resa cieca da una progressiva privazione e rottura delle relazioni con la natura
da cui
si è generata. Se siamo convinti che l'uomo è un animale sociale e politico, che la natura
umana è un processo di
consociazione dalle radici biologiche, un processo in cui la cooperazione, il mutuo appoggio e la
solidarietà
sono attributi tanto naturali quanto culturali, che in sostanza l'uomo è strutturato biologicamente per
vivere con
i suoi simili in un ambiente sociale che evolve e che si modifica, producendo continuamente idee e culture,
istituzioni e forme associative, come possiamo accettare l'attuale situazione sociale? È possibile
accettare una vita sociale fondata sull'individualismo, la competizione sfrenata, la disuguaglianza,
sul lavoro ripetitivo e anonimo, sulla riduzione costante delle singolarità a monadi isolate in contesti
sociali
sempre più sintetici, vacui, abnormi, soverchianti? La vita sociale, collettiva e individuale, imposta
dal capitalismo si sta saturando di schizofrenie, alienazioni,
insicurezze, reprimende; tale vita sociale ci sta privando di importanti e molteplici relazioni sociali incrociate,
negando con esse anche qualunque forma di aggregazione solidale e comunitaria, che vengono così
usate,
smembrate, canalizzate lungo forme di depotenziamento ontologico, intellettuale, culturale che le rendono
schiave dei valori dominanti; oppure vengono ghettizzate, abbruttite, trasformate in variabili inutili se non
antagoniste alla ricostruzione di una socialità radicale di opposizione. Affrontare oggi la questione
della vita sociale, di come si è andata sradicando dal suo terreno oggettivo, la
natura, presupposto materiale ed esistenziale sul quale gli uomini hanno da sempre fondato un'etica dei soggetti
e dei comportamenti, spesse volte ugualitaria, e tesa a costruire un senso pieno del sé individuale e
collettivo,
significa anche riconoscere che in questo ultimo decennio i movimenti di opposizione hanno abbandonato quel
fondamentale centro di riproduzione della vita sociale che è stata la comunità. Già,
lo sviluppo industriale ed economico, sul quale per alcuni secoli i movimenti operai e socialisti avevano
puntato le loro carte per realizzare la rivoluzione e la liberazione sociale ed universale, ha non solo prodotto la
separazione sempre più forzosa tra società e natura, ma sta dissolvendo in poco più di
un secolo quella struttura
comunitaria che è stata, nella storia, l'ossatura stessa della società e soprattutto degli strati
popolari di essa;
struttura che è la mediazione fondamentale e il continuum evolutivo tra natura e società, e che
forse è la forma
più equilibrata di autorganizzazione sociale per l'uomo in quanto, e sono parole di Fichte, natura fattasi
autocosciente. La scomparsa della comunità operaia e proletaria, e con essa la scomparsa di una
potente e radicata cultura
dell'opposizione e dell'antagonismo, è una perdita incommensurabile di cui hanno responsabilità
gli stessi
movimenti operai, che spostarono il fulcro della loro azione, dalla società - e in sostanza dal polo etico
- alla
fabbrica, luogo di produzione ed irrigimentazione gerarchica della forza-lavoro - in sostanza al polo economico.
Ci troviamo oggi nella necessità di rifocalizzare il nostro discorso sulla comunità, sul
mondo vitale, non perché
non esistono più operai e fabbriche, ma perché i più forti movimenti si sviluppano
sempre e solo in presenza
di una forte, coesa ed organica struttura comunitaria, visibile soprattutto nel territorio urbano luogo del conflitto.
Ancor più, se è vero che la fabbrica e le relazioni che produce sono state estese a tutta la
società, e che la società
è sempre più una fabbrica sociale, cioè un luogo esteso e complesso di produzione
generalizzata di merci e di
innovazione, e di riproduzione complessiva del sistema capitalistico, è necessario non solo operare una
inversione dialettica del soggetto, da produttore di merci a produttore di nuova universalità, ma rifiutare
qualunque surdeterminazione ideologica e ontologica che ci trasformi, lungo tutto l'arco della nostra vita, in
produttori di merci più o meno materiali, membri di una società-fabbrica come ha progettato
il capitale nel suo
folle disegno di assoggettamento dell'umano. Dovremo al contrario sentirci soggetti attivi capaci di rifiutare
collettivamente questa attribuzione «oggettiva» e quasi messianica, riconoscendoci invece come soggetti che
non possono essere modellati nel loro essere solo dalle forme di partecipazione al processo economico e
produttivo. Il profondo mutamento della realtà sociale, che ha portato ad un ridimensionamento
ed a uno squassamento
della tradizionale struttura di classe prodotta dalla rivoluzione industriale, e che ha provveduto ad estendere lo
sfruttamento e soprattutto il dominio a tutti i livelli societari, ci avvicina, paradossalmente, molto più
di altre
epoche storiche, all'emergenza di un interesse generale che non può più riconoscersi in
particolari interessi di
classe. Non ragionare più in termini vetustamente classisti non significa abbandonare
l'alternativismo, l'opposizione,
l'antagonismo, ma riqualificare e riscoprire, ricostruendo così un maturo punto di vista politico ed
intellettuale,
ambiti, dinamiche e luoghi del conflitto sociale, che negli anni settanta sono stati solo sfiorati o affrontati da
un'angolatura ideologica sostanzialmente fabbrichista. Crediamo sia necessario ammettere che non esiste
più una centralità operaia, che la classe operaia non
rappresenta più istanze generali anche perché la sua comunità è stata
profondamente corrosa dalla
ristrutturazione, e che la vecchia struttura di classe organizzata attorno all'operaio-massa si è ormai
disintegrata. Le nuove contraddizioni che stanno emergendo con la crisi ecologica, il nucleare, il razzismo,
il proibizionismo,
il dominio patriarcale e sessista, l'autoritarismo ed il militarismo, le nuove scienze e tecniche, la crisi della
città,
hanno ormai un ridotto contenuto di classe, anche se è comunque evidente che le classi non sono state
abolite,
ma essenzialmente frammentate e private di una loro originaria identità. D'altra parte, se ormai tutta la
società,
a partire dalla rivoluzione tecnologica, è sussunta nel progetto complesso di riproduzione tout court
della società
del capitale, è possibile sostenere, con candido fervore massimalista, che siamo proprio per questo tutti
proletari
e tutti appartenenti ad una classe? Meglio ragionare, allora, rispetto ad un soggetto che dovrà
sobbarcarsi i nuovi processi di liberazione, in termini
più reali e meno ideologici, riferendoci soprattutto al territorio ed allo spazio in cui questi soggetti
agiscono,
e agli immaginari e alle utopie, che non sono ideologie, che essi producono nel contatto con la realtà
della vita
sociale. Se la fabbrica sta morendo come luogo principe del conflitto sociale, ma di questo non possiamo
dolercene,
anche perché la fabbrica in realtà non è mai stata il luogo della rivoluzione, e tanto
meno il regno della libertà -
anzi è sempre stata il regno della necessità e della sopravvivenza -, è però
incontestabile che sta morendo anche
la città, e questa può essere una perdita oltremodo immensamente più grave. La
città, e la rivoluzione urbana che la generò, ebbe un ruolo nella storia ben diverso da quello
della fabbrica.
Essa si può concepire come ambito di creazione di una humanitas universale, contesto
di socializzazione e
sviluppo creativo, razionale ed etico delle tensioni dell'uomo a vivere e a consociarsi con i suoi simili; luogo
dove finalmente furono rimossi i limiti biologici posti allo sviluppo sociale dai vincoli di sangue e dal
campanilismo del mondo tribale, anche se quest'ultimo viveva sulla base di valori molto più
condivisibili di
quelli della società attuale. La città fu il grembo da cui si sviluppò la
partecipazione assembleare alla vita politica cittadina che fonda la
civitas, cioè il corpo politico collettivo. Nella città nacque quella forma politica
creativa e collettiva di
partecipazione e amministrazione civica, che si contrappose fin dagli inizi allo stato e che si estese al di
là dei
rapporti sociali tribali che si riproducevano essenzialmente nella sfera economica individuale e domestica.
Nelle città, nel loro spazio urbano e sociale, avvennero quelle rivoluzioni che non solo
rovesciarono arcaici
sistemi sociali, ma che agitarono prepotentemente idee, culture, istituzioni alternative fortemente intrise di
utopie ed idealità, che tanto fecero paura ai borghesi, come la Rivoluzione francese, la
Comune di Parigi, la
Rivoluzione spagnola del '36, quella Americana del 1768, ma anche dove presero avvio quei movimenti
studenteschi ed operai del '68 e del '77, per restare più vicini al nostro tempo. E' nel territorio della
città, nel quartiere, nel villaggio, che il proletario e l'operaio si sentono più vivi,
spogliandosi delle loro abitudini industriali e produttive, e valorizzando la spontanea attività di
comunizzare,
cioè quella attività pubblica che crea ed inventa continuamente controculture e
controistituzioni della comunità
stessa, contrapposte alla centralità statale, ed estese oltre la più banale, e per certi versi brutale,
socialità del
ghetto urbano. La rivoluzione urbana ha ossessionato lo Stato centralizzato per gran parte della storia in quanto
irreprimibile potere altro, in quanto tensione irrisolvibile, e per certi versi ancora esistente, tra
stato e
municipalità. E' essenzialmente nella comunità urbana, nella città, nel quartiere,
nel villaggio a ridosso della città, che la vita
privata sfuma nella vita pubblica e nella partecipazione collettiva all'organizzazione del territorio, in forma
indipendente ed autonoma; difficilmente lo stesso poteva avvenire nella fabbrica, per quanto questa fosse aperta
alle influenze del sociale e viceversa, o nel villaggio tribale campanilisticamente chiuso in se stesso. Tale
storicizzazione della città, come ambiente sociale creativo di formazione di istituzionalità
alternative ed
antagoniste, ci serve oggi per ridefinire una nostra azione nel cuore della città stessa, su due piani
complementari: quello della resistenza alla distruzione della città e delle comunità, quartieri,
villaggi che ne
fanno parte; quello della ricostruzione di uno spazio pubblico comunalistico che rivalorizzi la
civitas al posto
dell'urbanistico e dell'economico. Se il Municipalismo Libertario può essere il nostro
progetto futuro di una città e di un territorio non corrosi
dall'autorità e dall'inquinamento, l'utopia di una società ecologica, esso deve fare i conti con
questa storia della
Città, e soprattutto con i problemi che vengono posti da un modo di fare politica che, come al tempo
della polis
ateniese, deve essere concepito come azione pubblica collettiva ed assembleare. Non possiamo
pensare la città unicamente come uno spazio topico ed urbano, ma dobbiamo considerarlo come
uno spazio civico di partecipazione, cooperazione, socialità ed attività politica contrapposta allo
stato e
all'egoismo individuale e domestico. Se l'urbanizzazione e la ristrutturazione urbana avrà cancellato la
vita della
città a tal punto che la città non abbia più il potenziale e la possibilità di
riconoscere una sua identità, una sua
cultura e i suoi spazi consociativi, le basi per qualunque idea di cambiamento muteranno in pura astrazione.
Un progetto di ecologia sociale Se la città perderà queste
potenzialità, perderemo quello spazio pubblico e sociale che, unico, può garantire la
formulazione e definizione di un progetto liberatorio che si saldi con l'ambiente rurale, e che forse solo un
soggetto sociale unito e unificatosi nello spazio civico della città può portare avanti. E
parliamo qui di un soggetto sociale non omogeneo, differenziato, formato da strati sociali oggi in «declino»,
come gli operai della fabbrica; da strati sociali «emergenti» come i tecnici e la forza lavoro altamente
qualificata; dagli oppressi di sempre come le donne, le minoranze etniche e gli immigrati; dagli
strati sociali
poco integrati nel processo produttivo come gli studenti, i giovani in senso lato, e i marginali della
società - quel
famoso quarto stato di cui parla Sergio Bologna -; dai gruppi alternativi con stili di vita e cultura radicalmente
contro, identificabili tra gli ecologisti, gli antimilitaristi, gli antinucleari, i produttori ed i consumatori
alternativi; dall'intellighentia radicale, se ancora esiste, che ha giocato un ruolo strategico in tutte le situazioni
rivoluzionarie. È nello spazio comunitario della città e sulla base di un progetto di
ecologia sociale che alleanze, unificazioni,
dialettiche e confronti si possono realizzare tra questi soggetti, in un'ampia prospettiva non solo di resistenza
alla distruzione della vita civica territoriale ed urbana, ma di radicale mutazione delle strutture della vita attiva.
L'aspetto partecipativo, mutualistico, cooperativistico .e comunitario deve caratterizzare la ricostruzione di
questa sfera pubblica dove poter riqualificare la politica come attività che proviene dal basso e dalle
strutture
decentrate della società, e non da strutture burocratico-statali o da professionisti della politica. Il grande
lavoro
di intessitura, di ricostruzione di un tessuto cellulare civico è la garanzia per l'apertura e lo sviluppo di
battaglie
vincenti e di istituzioni realmente alternative. Questa riflessione sulla città e sulle funzioni che ha
assunto in millenni di sviluppo sociale non ruota certo
attorno alla contrapposizione città-campagna, che ha segnato lo sviluppo urbano e territoriale degli
ultimi due
secoli. Anzi, siamo perfettamente consapevoli che una municipalità urbanamente e socialmente
equilibrata deve
ricostruire delle relazioni orizzontali ed osmotiche con l'ambiente rurale e con i paesi ed i villaggi che spesse
volte hanno un rapporto di estrema dipendenza dalla metropoli. Sostengono alcuni ecologisti libertari, e
non solo, che l'antica vita urbana poteva essere compresa a fondo solo
attraverso un'analisi delle relazioni economiche prevalenti nel contesto agricolo adiacente, poiché la vita
cittadina rifletteva le relazioni sociali proprie della campagna. Anche Marx nei suoi scritti è
perfettamente convinto dell'importanza della campagna nel definire le
caratteristiche della città. Egli sostiene che la città antica è centro della vita rurale e
domicilio del lavoratore,
e che la storia dell'antichità classica è storia di città, ma di città fondate sulla
proprietà terriera e sull'agricoltura;
anche la storia asiatica si può considerare una specie di unità indifferenziata di città
e campagna; e il medioevo
parte dalla campagna quale sede della storia, il cui ulteriore sviluppo avviene poi nel contrasto tra città
e
campagna; solo nella storia moderna, con l'avvento del capitalismo, assistiamo ad una profonda inversione di
questa dialettica, ad una urbanizzazione della campagna, e non come presso gli antichi alla ruralizzazione della
città. Queste semplici riflessioni ci permettono di dire che qualunque città ha dei limiti
fisiologici di espansione oltre
i quali si rompe ogni possibile equilibrio fisico ed energetico tra ambiente urbano ed ambiente rurale,
trasformando così la città in metropoli e megalopoli, dove allora le forme di resistenza
all'annullamento sociale
del singolo e della comunità reale che forma la base sociale della città, assumono contorni
complessi e per certi
versi difficilmente governabili. La metropoli non è certamente il territorio migliore dove operare e dove
realizzare obiettivi ecologici, soprattutto in assenza di una struttura comunitaria solida e coesa. In definitiva
siamo convinti che qualunque progetto di rivitalizzazione urbana e di ricivificazione, qualunque
progetto di ecopolis, dovrà fare i conti con le strutture dell'ambiente rurale
ancora non soverchiato dalla
metropoli.
Crisi della città e crisi ecologica La crisi della città, e del
modo di vivere la città, è forse simultaneamente il sintomo più profondo e l'immagine
più accesa del connubio crisi ecologica e crisi sociale. La città ha la capacità di
amplificare le determinazioni
storiche della moderna crisi e gli esiti più nefandi del dominio e del potere delle corporazioni
economiche e
politiche. Le squallide periferie dormitorio, i centri congestionati dal traffico, l'inquinamento atmosferico
e l'inquinamento
sociale degli individui, ci dicono che la città è sempre meno luogo di socializzazione, di rapporti
umani ricchi
e differenziati, e sempre più luogo di esercizio del dominio da esportare in tutto il mondo, abitato e non,
degli
uomini. Un nuovo modello urbano si è sovrapposto alla vecchia città fondata su concreti valori
civici e politici. La polis ellenica, le città del Medio Evo, e ancora la Parigi della
rivoluzione e della Comune, la Boston della
rivoluzione americana, la Venezia dei traffici, ed altre ancora, sono state sostituite da modelli metropolitani che
hanno avuto come obiettivi del proprio imporsi, la distruzione dei legami comunitari che fondavano la
città, il
dominio sulla campagna e sulle sue relazioni sociali, e l'irreggimentazione in fabbrica e in squallidi quartieri
periferici della forza-lavoro che dall'ambiente rurale proveniva. Ora, di fronte ad un ulteriore stacco
evolutivo che vede la metropoli abbandonare anche le caratteristiche
industriali delle quali si era nutrita, anche ogni ultima residua forma di identità e comunitarietà
sociale rischia
di venire definitivamente rimossa. Se la comunità popolare e operaia ha resistito a lungo, nonostante
il fascismo
abbia sventrato i quartieri popolari e restaurato i palazzi e le cattedrali per cancellare una memoria e una cultura
antagonista, e nonostante sia stata rinchiusa in quartieri ghetto anonimi e soffocanti, riuscendo a ricostruire
anche profonde dinamiche conflittuali, oggi rischia, di fronte a questa profonda rivoluzione tecnica che
è in
corso, di essere spazzata via definitivamente. La fine della città può forse coincidere con
la fine delle possibilità di libertà. Dobbiamo avere invece il coraggio
intellettuale, politico e pratico di contrapporre alla metropoli omologante, autoritaria, centralizzatrice, e
all'economia di mercato - privata e statale - su cui si riproduce, strutture sociali multiformi, differenziate e
decentrate, strutture che furono alla base della società per millenni. La capacità di
disgregare le precedenti forme e strutture sociali è caratteristica notevole del capitalismo, ma in
questo procedere non c'è niente di progressivo, niente che liberi realmente le potenzialità
più originali della
società. Forse vale la pena abbandonare l'ottimismo vittoriano sulle capacità civilizzatrici del
capitalismo,
soffermandoci invece su come distrusse i villaggi, i quartieri, le confederazioni, le corporazioni di mestiere, le
municipalità, le gilde - così difese da Karl Polanyi - dei comuni liberi medievali, cioè
tutto quel ricco e
polimorfo tessuto sociale nel quale i soggetti che lo attraversavano e lo vivevano, non conoscevano
centralizzazione né amministrativa e statuale, né economica e produttiva. Sembrò
all'inizio che il capitalismo fosse in grado di sviluppare le potenzialità, l'autonomia, i bisogni del
singolo; in realtà dissolse quel vasto intreccio di relazioni comunitarie che erano il vero fondamento
dell'individuo e della sua capacità di crescita, cacciandolo nelle braccia della più impersonale
burocrazia - come
sostiene Weber - e gettandolo in un mondo che oggi vediamo sempre più atomizzato e asettico, che ha
ridotto
l'individuo a una particella in preda ad un incerto e convulso moto browniano. La distruzione della
comunità - che pure stava già perdendo i valori originari del clan e dei legami di sangue,
sostituendoli con valori civici, che comunque troveranno la loro più alta espressione di uguaglianza e
democrazia nella polis e nel Comune Medioevale - azzera quell'ambiente sociale
in cui si formano l'etica, la
partecipazione e le istituzioni sociali. Ma la comunità non dobbiamo identificarla solo con le
esperienze comunitarie degli ultimi decenni - che
comunque costituiscono un'interessante esperienza, anche se a volte vicina al campanilismo e all'isolamento
delle tribù primitive -; non dobbiamo pensare solo ad una comunità contratta al suo interno, ma
ad una
consociazione vasta che si realizza anche nella città e nella sua storia, che si radica nei quartieri e nelle
loro
tradizioni, che si espande nei villaggi limitrofi e nelle loro relazioni solidali. Non solo il villaggio
o la comune sono comunità. Essa è evidente nella struttura
della polis e nella sua
democrazia partecipativa, nel popolo di Parigi quando insorge nel 1879, strutturato per quartieri e gilde, che
trova la sua organica espressione nelle Assemblee di sezione e nei clubs; la comunità la ritroviamo tra
gli
immigrati, diventati operai, tanto di New York, che di Colonia o di Torino; nei ghetti neri delle città
statunitensi,
tra i giamaicani di Londra, tra gli africani di Parigi. Quasi sempre queste strutture comunitarie sono il prodotto
della spontanea evoluzione della antica struttura clanica e tribale che, modificandosi, perviene all'inurbazione,
creando a volte non solo ghetti, ma alte espressioni di vita civica e politica. Queste sono alcune delle
multiformi risposte che la società civile organizza contro l'accelerato processo di
sradicamento dell'umanità dalla natura - e di conseguenza dagli originari legami
comunitari sui quali la società
si era cementata - attivato dal capitalismo. La comunità, dunque, non è, e non può
essere ridotta, a ghetto, perché
è stata la struttura sociale fondamentale dell'umanità fino alla Rivoluzione Industriale e
all'avvento
dell'economia di mercato. Ripristinare la comunità significa allora negare materialmente l'esistenza
e la consistenza del capitalismo,
denunciarne la transitorietà, la casualità, la parvenza, la contingenza. Qualunque società
non può negare in
continuazione e all'infinito radici storiche, antropologiche, biologiche, di una specie che si è pensata
e
organizzata sempre su una profonda matrice naturale, che ha cementato e reso continue forme associative umane
che non possono essere completamente cancellate. Nessuna società può pensare di
rimuovere in permanenza ancestrali ricordi, legami umani e con la natura
protrattisi per millenni, culture, desideri, immaginari, utopie vecchie di secoli, soltanto con il suo apparato
tecnologico. Significa negare le radici biologiche stesse della società, e le forme culturali che hanno
mutato e
riadattato tali radici all'ambiente sociale che si modificava. Mutate, ma non negate ed
estirpate!! come
intenderebbe il vero, irriflesso, nascosto progetto capitalista. Uccidere l'humanitas, l'organico,
il ricordo, la memoria, sostituendoli con l'inorganico, il sintetico, il posticcio,
il tecnico, si parli di istituzioni politiche, di città, di culture. A questo ci sta portando lo sviluppo
capitalista. Non
c'è niente di scientifico in questa presenza capitalista, non è una società per l'uomo; essa
ha negato le proprie
origini nella natura e nell'umano, ha diviso la specie in classi, ha soggiogato l'uomo per sfruttare la natura.
Ma se pure le gerarchie ed il dominio sono apparsi già con le prime civiltà imperiali,
è pur vero che mai
raggiunsero l'intensità, la perfezione, la tecnica attuale. Solo ora sembra scientifico, necessario,
irrefutabile il
fatto che a un certo punto della Storia sorga e si strutturi una forma di dominio come lo Stato, e che questa
ingaggi per secoli uno spietato confronto con le comunità indipendenti degli uomini, per poi vincere
questa
battaglia solamente con l'alleanza con il mercato, il profitto, il denaro, l'economia. Qui inizia il nostro dramma
attuale. Riconoscere la transitorietà del capitalismo, delle sue istituzioni e dei suoi prodotti - non
come fatto oggettivo,
ma come condizione senza la quale è possibile che la vita sul pianeta finisca - ci pone il problema
dell'utopia,
dell'immaginario che forma nelle nostre menti l'idea di una società ecologica e libertaria. La
città è il punto
focale di tale utopia: perché la battaglia si vince anche e soprattutto qui, nella capacità di
riportare la città ad
una dimensione umana, aperta, di simbiosi con la campagna, di rispetto delle differenze, capace di favorire
partecipazione e libertà, certo sulla base anche di uguaglianze economiche e non solo astratte o civiche.
Ora, tutto questo discorso sulla città è evidentemente un discorso ideale. La città
di cui parliamo è quella antica
e classica, la polis, che forse è rimasta, con il libero comune medioevale,
l'esempio più esplicito di una tendenza
che si opponeva alla centralizzazione statale e al dominio dell'uomo sulla natura. Ma questi brevi richiami
storici mettono in moto riflessioni più ampie, si agganciano ad una dialettica storica
che si catapulta immediatamente nel nostro tempo, aprendo anche interessanti vie pratiche da sperimentare. Ma
quello che più ci preme è caratterizzare, per superarlo, questo dualismo tra fabbrica e
comunità, tra l'economico
e l'etico, tra il lavoro e l'azione.
Individuare i semi Dobbiamo decidere in quale ambito noi possiamo oggi
collocare il bios politikos aristotelico, cioè l'attività
pubblico-politica. Nell'accezione ellenica il bios politikos, che denotava un modo di vita autonomo
e
autenticamente umano, collettivo e partecipativo, basato sulla solidarietà e la cooperazione tra individui,
non
si forma nel lavoro e nell'attività economica - queste sono attività individuali e di pura
sopravvivenza
condizionate dalla necessità. Il lavoro, l'economia, il commercio, le attività produttive in genere
non
garantiscono quella libertà e quell'indipendenza necessarie alle esigenze umane di attività
politica; la concezione
greca della vita politica rendeva la polis, sostiene a ragion veduta Hanna Arendt, una forma
d'organizzazione
sociale peculiare e liberamente scelta, non una mera forma consociativa necessaria per tenere uniti gli uomini
im modo ordinato. Ma se nell'antichità i greci, per garantirsi questa libertà dal lavoro per
partecipare all'attività politica pubblica,
usavano gli schiavi nella produzione, nella nostra società moderna, la scarsità,
considerato il potenziale tecnico
e scientifico applicato alla produzione di beni, non è più fatto immanente e costitutivo della
società, ma
unicamente condizione sociale imposta da cui è possibile affrancarsi. Ciò non vuol dire
che la scienza e la tecnica attuali siano così immediatamente adattabili ad una società libera,
anzi! Vogliamo soltanto affermare che lo sviluppo tecnologico ha collateralmente e forse a sua insaputa, aperto
la possibilità di liberarci dalla necessità del lavoro come riproduzione biologica, e di affrancarci
da una scarsità
che è sempre stata latente nelle comunità primitive. La scienza e la tecnica, da sempre
strumenti di dominio nelle mani di caste militari ed economiche, hanno aperto
al proprio interno possibilità alternative di evoluzione sociale, spesso poco indagate, che dobbiamo
sviluppare,
scegliendo tecniche e concezioni alternative ed appropriate alla realtà sociale in cui si applicano,
seguendo le
indicazioni interessanti forniteci da Feyerabend. Possiamo alla fin fine individuare i semi della
società ecologica non solo in un processo di crescita delle
opposizioni sociali, ma anche nelle potenzialità creative, tecniche e produttive, espresse da parti della
società,
ma che sono spesso negate e rimosse, se non brutalmente represse dal dominio capitalista. Dobbiamo
scegliere in questo frangente storico: o mettere una pezza qua e una là al disastro ambientale, o
approfondire una riflessione ecologica che dalla natura passi alla società, superando quei dualismi
cartesiani
che hanno tenuto separati per secoli gli elementi di un unico processo evolutivo, che hanno aperto aporie
piuttosto che chiuderle in una visione organica. Parliamo dei dualismi tra natura e società, tra
mente e corpo, tra etica ed economia, tra specie e classi, tra Stato
e giustizia, tra libertà e necessità. Agire sul territorio, sulla città, assume a nostro
avviso una valenza più forte di qualunque imbellettamento
ambientalistico. E riflettere su tali questioni diventa un elemento importante per definire nel prossimo futuro
le forme sociali, politiche ed economiche che organizzeranno il cambiamento.
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