Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 23 nr. 205
dicembre 1993 - gennaio 1994


Rivista Anarchica Online

Tra libertà e bestemmie
di Annalisa Bertolo e Marco Serio

A colloquio con Dino Taddei, obiettore totale da poco scarcerato

«Cosa ho imparato. Tutto sommato questa storia mi incuriosiva anche per mettere alla prova quello in cui credo, ben sapendo di non poter vestire l'abito della vittima e non avendo diritto alla commiserazione e così mi sono trovato a fare i conti con le mie innumerevoli paure di non farcela, di essere solo, di scoprire che ho creduto in cazzate, di cambiare in peggio, di crollare psicologicamente.
Al contrario, credo di essere più consapevole, di avere lavorato a fondo su me stesso, sul nostro futuro (già il futuro...), di avere appreso un sacco di cose dagli altri, di non essermi chiuso, di avere una determinazione inaspettata, che l'aridità è una farsa borghese, che ho voglia di scoprire/scoprirmi all'infinito e che nessuno (tanto meno io) basta a se stesso.
La fase pionieristica è finita, nessun compagno varcherà più questa soglia (quella del carcere militare) e per tutti sarà più facile seguire la propria coscienza, ma attenzione: la guerra alla guerra è solo iniziata.
Si chiude un sipario e se ne apre un altro, con nuove lacrime e nuove vittorie, nuovi perdenti e nuovi perduti, ma nessuno potrà mai spezzare l'anelito di libertà; certo lo sconforto più volte ci mette all'angolo, ma nessuno ha il diritto di lasciarsi andare, abbandonare volontariamente la mischia; dove la volontà non arriva, arriva la fantasia, per creare un mondo né più bello né più brutto, bensì più libero».
Così scriveva dal carcere Dino Taddei, obiettore totale venticinquenne di Milano, da poco ritornato in libertà, dopo aver scontato una condanna di tre mesi nel carcere di Peschiera del Garda prima e di Sulmona poi. Abbiamo fatto due chiacchiere con lui.

Perché hai scelto l'obiezione totale?
Non sono pacifista ma pacifico; ho scelto l'obiezione totale perché lo stato non può prendere un anno della mia vita costringendomi al servizio militare, né a quello civile sostitutivo che produce sfruttamento (si svolge un lavoro sottopagato che altri potrebbero svolgere).

Ritieni che la tua scelta abbia un valore politico ...
La molla è stata sicuramente individuale, ma il senso è politico. Un rifiuto non è una cosa costruttiva in sé, è un rifiuto individuale a una chiamata e basta. Ma può essere utile per risvegliare le coscienze, un atto estremo che fa pensare. Lo considero UNO dei gesti possibili dell'ANTIMILITARISMO, lotta che va invece condotta a tutti i livelli nella società.

Tu hai scelto di non pubblicizzarla più di tanto...
No, infatti non ho tenuto a rendere pubblica la mia scelta, essendo solo una fase primordiale del discorso antimilitarista. Ho preferito coinvolgere direttamente persona per persona, con un contatto diretto. Credo di più al contatto personale come strumento di stimolazione a una coscienza antimilitarista.

Mi sembra però contraddittorio il significato di gesto simbolico con la scelta di non pubblicizzarlo.
Forse perché i canali disposti ad ascoltarti sono già sufficientemente sensibilizzati al problema, non è questo tipo di pubblicizzazione che mi interessa.

Il giorno in cui sei entrato
Sono entrato enfio di alcool e di nicotina.
Sbattuto in isolamento ho subito pensato ai grandi uomini della storia «l'hanno sopportato loro per anni, perché non dovrei riuscirei io per soli 3 mesi...».

Quali sono stati i primi pensieri, le prime sensazioni quando eri in isolamento?
Mancanza di aria e di luce; sono spacciato; è finita; fumavo e nascondevo i mozziconi; un mondo inaspettato, i film non bastano a fartene un'idea; la vera violenza non è fisica, ma di isolamento psicologico, di solitudine; non si può tornare indietro.

Ti hanno preso momenti di panico?
Il panico ti viene se c'è una via, seppure teorica, di fuga. Lì non ce n'erano. Credo subentri più un senso di consapevolezza.

Poi?
Poi mi hanno messo in cella con 20 testimoni di Geova, che pregavano anche di notte. I loro argomenti di discussione erano primo Geova, secondo Geova, terzo Geova. I miei primo libertà, secondo amore, terzo bestemmie. Una comunicazione intensa, insomma ...
Con i detenuti comuni è stato molto meglio: dopo due mesi e mezzo passati insieme loro non si vergognavano più di essere dei «vili disertori», avevano acquistato una maggiore dignità e non c'erano più casi di autolesionismo. Io e un altro detenuto (che sarebbe dovuto andare in Iraq) abbiamo fatto uno sciopero della fame contro la guerra in ex-Jugoslavia e in appoggio alla marcia di Mir Sada, suscitando grande interesse tra i detenuti.

Che ruolo avevi nel carcere?
Del sobillatore. Il contrasto con i testimoni di Geova è stato immediato, alla fine vi era un rapporto di scambio umano. Lì dentro non c'è differenza: è un mondo diverso, sei sulla stessa barca ... anche con il carabiniere mafioso.

I tuoi rapporti con le autorità?
Innanzitutto c'è da dire che vi era una grande frattura tra le guardie (che sono giovani con curiosità e totale apertura al confronto) e gli ufficiali. Con loro era una guerriglia continua, una serie di proposte e controproposte provocatorie, diciamo che alla fine ci siamo costruiti una leale inimicizia.

Hai avuto problemi per la rigidità dei regolamenti interni?
Sul fatto delle divise o cose del genere non mi interessava uno scontro diretto perché è perdente in partenza; mi interessava di più un discorso di riformismo interno.

Ossia?
Per dirti, la burocrazia interna era gestita da un Ufficio Comando il quale era monopolizzato completamente dai testimoni di Geova: i prigionieri comuni dovevano far passare da loro tutte le loro richieste (spese esterne, telegrammi, organizzazione lavoro, colloqui) e sottoporle al loro vaglio. Ciò era inaccettabile e col tempo siamo riusciti a creare un ufficio autogestito con sede nella mia cella, opposto e contro il loro perché gli abbiamo tolto il potere. E' stato poi riconosciuto come Ufficio Autogestito Comuni, con grave scorno dei testimoni.

E a Sulmona?
Dal 1° di settembre sono stato trasferito in quell'inferno tecnologico che è il super carcere civile di Sulmona, perché la corte costituzionale ha nel frattempo deciso che gli obiettori totali sono da considerare non più detenuti militari ma civili.
All'arrivo è stato il gelo più totale, nessuna umanità: mi hanno tolto tutto, perquisito e mandato in cella (sempre con i testimoni). A Sulmona ci sono due generi di detenuti: quelli condannati a lunghe pene detentive per gravi reati, con i quali non c'era nessuna possibilità di contatto e gli obiettori (circa 150) per i quali era previsto un trattamento più leggero che comunque era cento volte peggio rispetto a Peschiera: in ogni raggio telecamere, telecamere anche nel serraglio (una vasca di cemento destinata alle 4 ore d'aria che nessuno aveva voglia di fare), perquisizioni ad ogni entrata e uscita dal raggio, venivamo contati 3 volte al giorno, di notte ci svegliavano per i controlli. Oltre a mangiare (male) e ad andare all'aria non potevamo fare niente.
Ottenere una visita era molto difficile: i visitatori vengono controllati dai carabinieri prima di arrivare al carcere e anche per telefonare bisognava superare ostacoli di questo genere. Sulmona è un carcere costruito per uccidere qualsiasi sensazione.

C'è una volontà punitiva in questa decisione, secondo te?
Non credo, ci sono due fattori che hanno concorso a questa soluzione: l'esigenza di smantellare i carceri militari e la richiesta dei testimoni di essere concentrati in un'unica struttura.

I contatti con l'esterno?
Una compagna teneva costantemente i rapporti con gli altri compagni, la cooperativa di cui faccio parte e il Centro Arti e Mestieri Libertari.
Una sera, quando ero a Peschiera, stavo guardando «Il gioco delle coppie» o qualcosa di simile e sentii accordare strumenti di varia natura. La televisione venne gradualmente coperta dal suono gioioso delle nostre marce di notte di quei compagni che hanno voluto trascorrere una notte sotto il cielo (e i muri) di Peschiera mischiando tenaci canti di lotta a goliardie da osteria.
L'azione è stata alquanto positiva perché tutto il carcere si è zittito, spegnendo la TV, per sentire la serenata.
Solo disturbavano le urla dei secondini che erano venuti a controllare direttamente la mia cella. Nulla di simile si era mai verificato precedentemente.
La manifestazione si è poi ripetuta una seconda volta col coro dei militanti di Mir Sada che dirigendosi verso Sarajevo hanno pensato bene di fare una piccola deviazione a Peschiera e di coinvolgere anche una vera banda con opere sinfoniche.
Poi la posta. Importante.

Altre strade per l'antimilitarismo?
Tutte. Guerriglia continua, soprattutto puntando sul risveglio delle nostre coscienze, in tutti gli ambiti.
Il militarismo è l'espressione ultima di un processo storico e culturale che ha come cardine il dominio dell'uomo sull'uomo, quindi la famiglia, quindi le istituzioni ...
L'aggressività è molto più pericolosa vissuta nella tranquillità domestica, lavorativa, educativa perché corrompe di più la coscienza che non in una divisa.
Uccidono molto di più le multinazionali di cui facciamo i pony express delle guerre che vediamo in televisione.
Ripeto quindi che l'obiezione totale è una delle difese delle libertà individuali e assume aspetti politici anche se a compierla sono in pochi.
Se si parla di pratica antimilitarista allora ha senso agire contro i simboli e contro i responsabili reali (vedi interposizione tra combattenti come si è voluto fare in Jugoslavia).