Rivista Anarchica Online
Tra libertà e bestemmie
di Annalisa Bertolo e Marco Serio
A colloquio con Dino Taddei, obiettore totale da poco scarcerato
«Cosa ho imparato. Tutto sommato questa storia mi incuriosiva anche per mettere
alla prova quello in cui credo,
ben sapendo di non poter vestire l'abito della vittima e non avendo diritto alla commiserazione e così
mi sono
trovato a fare i conti con le mie innumerevoli paure di non farcela, di essere solo, di scoprire che ho creduto in
cazzate, di cambiare in peggio, di crollare psicologicamente. Al contrario, credo di essere più
consapevole, di avere lavorato a fondo su me stesso, sul nostro futuro (già il
futuro...), di avere appreso un sacco di cose dagli altri, di non essermi chiuso, di avere una determinazione
inaspettata, che l'aridità è una farsa borghese, che ho voglia di scoprire/scoprirmi all'infinito
e che nessuno (tanto
meno io) basta a se stesso. La fase pionieristica è finita, nessun compagno varcherà
più questa soglia (quella del carcere militare) e per tutti
sarà più facile seguire la propria coscienza, ma attenzione: la guerra alla guerra è solo
iniziata. Si chiude un sipario e se ne apre un altro, con nuove lacrime e nuove vittorie, nuovi perdenti e
nuovi perduti,
ma nessuno potrà mai spezzare l'anelito di libertà; certo lo sconforto più volte ci mette
all'angolo, ma nessuno
ha il diritto di lasciarsi andare, abbandonare volontariamente la mischia; dove la volontà non arriva,
arriva la
fantasia, per creare un mondo né più bello né più brutto, bensì
più libero». Così scriveva dal carcere Dino Taddei, obiettore totale venticinquenne di
Milano, da poco ritornato in libertà,
dopo aver scontato una condanna di tre mesi nel carcere di Peschiera del Garda prima e di Sulmona poi.
Abbiamo fatto due chiacchiere con lui.
Perché hai scelto l'obiezione totale? Non sono pacifista ma pacifico;
ho scelto l'obiezione totale perché lo stato non può prendere un anno della mia
vita costringendomi al servizio militare, né a quello civile sostitutivo che produce sfruttamento (si
svolge un
lavoro sottopagato che altri potrebbero svolgere).
Ritieni che la tua scelta abbia un valore politico ... La molla è stata
sicuramente individuale, ma il senso è politico. Un rifiuto non è una cosa costruttiva in
sé, è
un rifiuto individuale a una chiamata e basta. Ma può essere utile per risvegliare le coscienze, un atto
estremo
che fa pensare. Lo considero UNO dei gesti possibili dell'ANTIMILITARISMO, lotta che va invece condotta
a tutti i livelli nella società.
Tu hai scelto di non pubblicizzarla più di tanto... No, infatti non ho
tenuto a rendere pubblica la mia scelta, essendo solo una fase primordiale del discorso
antimilitarista. Ho preferito coinvolgere direttamente persona per persona, con un contatto diretto. Credo di
più
al contatto personale come strumento di stimolazione a una coscienza antimilitarista.
Mi sembra però contraddittorio il significato di gesto simbolico con la scelta di non
pubblicizzarlo. Forse perché i canali disposti ad ascoltarti sono già
sufficientemente sensibilizzati al problema, non è questo
tipo di pubblicizzazione che mi interessa.
Il giorno in cui sei entrato Sono entrato enfio di alcool e di nicotina.
Sbattuto in isolamento ho subito pensato ai grandi uomini della storia «l'hanno sopportato loro per anni,
perché
non dovrei riuscirei io per soli 3 mesi...».
Quali sono stati i primi pensieri, le prime sensazioni quando eri in isolamento?
Mancanza di aria e di luce; sono spacciato; è finita; fumavo e nascondevo i
mozziconi; un mondo inaspettato,
i film non bastano a fartene un'idea; la vera violenza non è fisica, ma di isolamento psicologico, di
solitudine;
non si può tornare indietro.
Ti hanno preso momenti di panico? Il panico ti viene se c'è una via,
seppure teorica, di fuga. Lì non ce n'erano. Credo subentri più un senso di
consapevolezza.
Poi? Poi mi hanno messo in cella con 20 testimoni di Geova, che pregavano
anche di notte. I loro argomenti di
discussione erano primo Geova, secondo Geova, terzo Geova. I miei primo libertà, secondo amore,
terzo
bestemmie. Una comunicazione intensa, insomma ... Con i detenuti comuni è stato molto meglio:
dopo due mesi e mezzo passati insieme loro non si vergognavano
più di essere dei «vili disertori», avevano acquistato una maggiore dignità e non c'erano
più casi di
autolesionismo. Io e un altro detenuto (che sarebbe dovuto andare in Iraq) abbiamo fatto uno sciopero della fame
contro la guerra in ex-Jugoslavia e in appoggio alla marcia di Mir Sada, suscitando grande interesse tra i
detenuti.
Che ruolo avevi nel carcere? Del sobillatore. Il contrasto con i testimoni di
Geova è stato immediato, alla fine vi era un rapporto di scambio
umano. Lì dentro non c'è differenza: è un mondo diverso, sei sulla stessa barca ... anche
con il carabiniere
mafioso.
I tuoi rapporti con le autorità? Innanzitutto c'è da dire che
vi era una grande frattura tra le guardie (che sono giovani con curiosità e totale
apertura al confronto) e gli ufficiali. Con loro era una guerriglia continua, una serie di proposte e controproposte
provocatorie, diciamo che alla fine ci siamo costruiti una leale inimicizia.
Hai avuto problemi per la rigidità dei regolamenti interni? Sul fatto
delle divise o cose del genere non mi interessava uno scontro diretto perché è perdente in
partenza;
mi interessava di più un discorso di riformismo interno.
Ossia? Per dirti, la burocrazia interna era gestita da un Ufficio Comando il
quale era monopolizzato completamente
dai testimoni di Geova: i prigionieri comuni dovevano far passare da loro tutte le loro richieste (spese esterne,
telegrammi, organizzazione lavoro, colloqui) e sottoporle al loro vaglio. Ciò era inaccettabile e col
tempo siamo
riusciti a creare un ufficio autogestito con sede nella mia cella, opposto e contro il loro perché gli
abbiamo tolto
il potere. E' stato poi riconosciuto come Ufficio Autogestito Comuni, con grave scorno dei testimoni.
E a Sulmona? Dal 1° di settembre sono stato trasferito in quell'inferno
tecnologico che è il super carcere civile di Sulmona,
perché la corte costituzionale ha nel frattempo deciso che gli obiettori totali sono da considerare non
più
detenuti militari ma civili. All'arrivo è stato il gelo più totale, nessuna umanità:
mi hanno tolto tutto, perquisito e mandato in cella (sempre
con i testimoni). A Sulmona ci sono due generi di detenuti: quelli condannati a lunghe pene detentive per gravi
reati, con i quali non c'era nessuna possibilità di contatto e gli obiettori (circa 150) per i quali era
previsto un
trattamento più leggero che comunque era cento volte peggio rispetto a Peschiera: in ogni raggio
telecamere,
telecamere anche nel serraglio (una vasca di cemento destinata alle 4 ore d'aria che nessuno aveva voglia di
fare), perquisizioni ad ogni entrata e uscita dal raggio, venivamo contati 3 volte al giorno, di notte ci svegliavano
per i controlli. Oltre a mangiare (male) e ad andare all'aria non potevamo fare niente. Ottenere una visita
era molto difficile: i visitatori vengono controllati dai carabinieri prima di arrivare al carcere
e anche per telefonare bisognava superare ostacoli di questo genere. Sulmona è un carcere costruito per
uccidere
qualsiasi sensazione.
C'è una volontà punitiva in questa decisione, secondo te?
Non credo, ci sono due fattori che hanno concorso a questa soluzione: l'esigenza di
smantellare i carceri militari
e la richiesta dei testimoni di essere concentrati in un'unica struttura.
I contatti con l'esterno? Una compagna teneva costantemente i rapporti con
gli altri compagni, la cooperativa di cui faccio parte e il
Centro Arti e Mestieri Libertari. Una sera, quando ero a Peschiera, stavo guardando «Il gioco delle coppie»
o qualcosa di simile e sentii
accordare strumenti di varia natura. La televisione venne gradualmente coperta dal suono gioioso delle nostre
marce di notte di quei compagni che hanno voluto trascorrere una notte sotto il cielo (e i muri) di Peschiera
mischiando tenaci canti di lotta a goliardie da osteria. L'azione è stata alquanto positiva
perché tutto il carcere si è zittito, spegnendo la TV, per sentire la serenata. Solo
disturbavano le urla dei secondini che erano venuti a controllare direttamente la mia cella. Nulla di simile
si era mai verificato precedentemente. La manifestazione si è poi ripetuta una seconda volta col
coro dei militanti di Mir Sada che dirigendosi verso
Sarajevo hanno pensato bene di fare una piccola deviazione a Peschiera e di coinvolgere anche una vera banda
con opere sinfoniche. Poi la posta. Importante.
Altre strade per l'antimilitarismo? Tutte. Guerriglia continua, soprattutto
puntando sul risveglio delle nostre coscienze, in tutti gli ambiti. Il militarismo è l'espressione
ultima di un processo storico e culturale che ha come cardine il dominio dell'uomo
sull'uomo, quindi la famiglia, quindi le istituzioni ... L'aggressività è molto più
pericolosa vissuta nella tranquillità domestica, lavorativa, educativa perché corrompe
di più la coscienza che non in una divisa. Uccidono molto di più le multinazionali di cui
facciamo i pony express delle guerre che vediamo in televisione. Ripeto quindi che l'obiezione totale
è una delle difese delle libertà individuali e assume aspetti politici anche
se a compierla sono in pochi. Se si parla di pratica antimilitarista allora ha senso agire contro i simboli e
contro i responsabili reali (vedi
interposizione tra combattenti come si è voluto fare in Jugoslavia).
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