Rivista Anarchica Online
Kraak! Occupare in Olanda
di Silvia Golino
I krakers olandesi non hanno mai agito per appartenere alla storia. Eppure, dopo anni di movimento, è
possibile
raccontarne i fatti, le avventure, le emozioni
«Abitare si trova immediatamente oltre la tua pelle, e la tocca». Abitare è
un bisogno essenziale, che appartiene
alle persone e si relaziona ad esse. Quando le abitazioni scarseggiano, e non è un fenomeno nuovo in
questa
società urbana, è necessario trovare un'altra soluzione. Così, per estremo bisogno, la
gente ha cominciato a
vivere in case vuote od abbandonate, con tutta la precarietà e l'emarginazione che questo comportava.
In Olanda fino a due decenni fa, occupare era un fenomeno «di quartiere», accettato all'interno delle sue
strade,
per cui quando la gente del quartiere vedeva una casa abbandonata cercava chi poteva averne bisogno e
collaborava in tutti i modi alla ricostituzione di un alloggio decente. Soltanto alla fine degli anni '60
occupare acquistò un nuovo contenuto di sfida, inizialmente di pura ribellione
(soprattutto giovanile) arrivando poi a prendere la forma di un vero e proprio movimento radicalmente
antagonista. Resistenza divenne la parola chiave di risposta alla speculazione ed alla
proprietà, di opposizione ad un ordine
costituito a cui appartenevano potere e controllo. Il movimento si sviluppò (anche politicamente)
con tanta rapidità e forza aggressiva da lasciare le istituzioni
sorprese ed impotenti. Ci vollero anni per potere chiudere gli occupanti nella gabbia delle leggi, ci volle
l'intervento dei carri armati dell'esercito per (tentare di) sgomberare una casa ad Amsterdam nel 1980.
È entrata in vigore il primo luglio di quest'anno la nuova regolamentazione sugli alloggi e con essa
forti e nuove
limitazioni rispetto all'occupazione di case vuote. Ma ancora si occupa, per vivere e per antagonismo.
L'Olanda ha una storia di case occupate nota per la sua intensità e le sue dimensioni. Una storia
di azioni
continuate e creative e di conseguenti reazioni normative, che può essere interessante ripercorrere
attraverso
la lettura di testimonianze dirette, articoli di giornali o riviste, o gli stessi eleganti ed ufficiali testi di legge (*).
Apri la tua porta La spontaneità e la
novità caratterizzano tutta l'Europa occidentale della seconda metà degli anni '60. Uomini
e donne, soprattutto i più emarginati e sfruttati, iniziano ad accorgersi dei diritti che non hanno e a
reclamarli,
si formano coscienze ed organizzazioni, si gioca e si lotta. Nei Paesi Bassi di quegli anni, occupare
apparteneva al gioco. Molti giovani avevano voglia di uscire di casa,
vivere indipendenti dalle famiglie secondo i propri gusti ed i propri ritmi. Al bar la sera si discutevano le diverse
possibilità, le esigenze di ognuno, poi si usciva e si percorrevano le strade notturne del centro, e bastava
alzare
gli occhi per trovarsi di fronte alle finestre nere e sporche di una delle tante case lasciate vuote. Allora nasceva
l'impulso di entrarci, farla propria, ... perché no. Kraak! È il suono che fa ascoltare la porta
che riesci ad aprire senza chiave (da cui poi è derivato il verbo kraken
= occupare ed il sostantivo kraker = occupante). Vuoi fare finalmente tuo un luogo che
nessuno utilizza,
dimenticando il rispetto per ciò che sta scritto sulle carte legali. Un piede di porco e qualche attrezzo
impugnati,
poi il krak netto. L'entrata, la rottura della serratura, era per chi occupava un momento di violenza e di
violazione che dava
accesso ad uno spazio proprio e che, come tale, doveva in seguito essere esorcizzato con tutta una serie di azioni
ed operazioni collettive. Occupare non voleva essere contro, voleva in prima istanza essere altro
«non era una
missione storica, ma uno spazio al di fuori della storia la cui quarta dimensione era il gioco ... offriva emozioni
profonde, brividi». Informazioni sulla casa disabitata si ottenevano presso il catasto o gli archivi comunali,
i soldi arrivavano
tramite il sussidio statale alla disoccupazione o di studio, la linea telefonica attraverso quella dei vicini,
l'elettricità attaccandosi ai contatori generali. Spesso succedeva che dietro ad un portone e ad una
facciata si scopriva un intero complesso di case vuote, e
si accedeva ad esso divertiti e sorpresi tramite i tetti o le finestre adiacenti. Finalmente un grande spazio tutto
da costruire e da gestire assieme. Tutto succedeva senza una coscienza antagonista definita, ma nel
momento in cui si forzava la porta si veniva
ad aprire una zona autonoma che di per sé era diversa, anormale. Si era consapevoli di stare costruendo
qualcosa
di estremamente indipendente nel rifiuto delle posizioni ufficiali e tradizionali, e questo qualcosa piaceva e
stimolava. Così la casa andava acquistando una funzione alternativa alla quotidianità della
strada abitata, un
contenuto politico di cui gli occupanti stessi rimanevano stupiti, fino a tentare di evaderne. Ma la rete si
andava infittendo, si cercavano e si scoprivano case vuote anche nei luoghi più inaspettati della
città. I (differenti) gruppi di occupanti si videro uniti in una stessa sottocultura, una città nella
città prendeva
lentamente forma. «La città è nostra» si diceva, poiché la si calava in una topologia
propria con i propri codici
d'accesso: case, bar, punti di riferimento, circuiti da percorrere in bicicletta, strade e ponti, segnali, volantini
sui muri, il modo di vestire. Ancora, li univa la «lista d'allarme» con i numeri di telefono da chiamare in casi
urgenti, gli indirizzi dove radunarsi prima di un'occupazione, le riunioni, le manifestazioni, gli scontri ... e poi
leggere lo stesso giornale, guardare assieme il telegiornale delle otto ed avere una sola reazione comune: «non
ci hanno capito niente». Ci si rese progressivamente conto che il gioco si faceva serio e coinvolgente contro
un diritto istituito, quello
della proprietà, e contro i proprietari stessi speculatori, che mantenevano volutamente la casa inabitata,
poiché
di anno in anno ne sarebbe aumentato il valore di vendita. E si iniziò a giocare duro, con tutte le armi
disponibili. Per ogni indirizzo occupato si cercò un avvocato disposto a difenderne le ragioni. Il
proprietario
da parte sua disponeva ancora di pochissimi mezzi legali per rientrare in possesso dell'alloggio, doveva infatti
scoprire i nomi degli occupanti per poterli citare in giudizio e reclamare quella che legalmente era sua
proprietà.
Si arrivava ai casi estremi di ingaggiamento di investigatori privati che scoprissero i nomi, o di improvvise e
rabbiose incursioni per riottenere alla svelta ciò che era stato tolto. L'occupante, in quanto tale,
doveva essere attento e prevenire. Era un costante stato di difesa che definiva una scelta di vita, in cui si
cresceva individualmente e come gruppo.
Diventare movimento Il gioco si radicalizzò e diventò
conflitto. La rete si annodava sempre più fitta tramite un codice unico di aiuto
reciproco, presenza, disponibilità immediata. Si iniziò ad organizzare l'attacco e la resistenza,
ad uscire
(volutamente o no) in pubblico. La stampa stessa stava dedicando molto spazio alle azioni compiute dagli
occupanti, agli sgomberi ed alle nuove
occupazioni. Il gruppo aveva acquisito tutta una serie di attributi particolari, di aggettivi propri, agli occhi del
pubblico era diventato un fenomeno paragonabile a quello degli allora più rinomati movimenti
ambientalista,
femminista, studentesco, dei lavoratori. Gli occupanti di case nel loro piccolo, nel loro individualismo,
nella loro subcultura, trovarono se stessi
inaspettatamente portatori di una sorta di funzione sociale, conseguenza di tutto ciò che era successo:
essi
possedevano ora un denominatore comune, erano diventati un movimento (kraak-beweging) .
«Nel movimento dei krakers regna un forte rifiuto dell'ordine gerarchico, della
pianificazione e dell'obbligo.
Il 'movimento' non conosce regole formali secondo le quali i membri si devono comportare. Non esiste una linea
di partito o un programma, non funzioni o nomine. Il movimento esiste grazie alla libera volontà di
partecipazione, ad esperienze condivise, alla salvaguardia di interessi comuni. Non vi è alcuna strategia
di lungo
termine che definisca gli sviluppi del movimento. In questo senso il movimento dei krakers si
orienta fortemente
sul qui ed ora. È organizzato in prima istanza attorno ad interessi concreti. Chi vuole prenderne parte
lo fa per
ciò che rappresenta il gruppo intero, ma anche per il contributo individuale che può dare ad
esso. I krakers si
incontrano durante le azioni. Questo è ciò che essi hanno in comune. ... Qui-e-ora per il
movimento significa
che esso non conosce ideologie né filosofi». Definirsi movimento portava con sé immagini
di un'integrità e di una continuità storica a cui gli occupanti non
avevano mai mirato. Ma vi era qualcosa di implicitamente aggiunto: «occupare è più che
abitare solamente»,
e lo si scriveva come slogan. L'autogestione rimaneva un punto base. Bisognava in ogni caso andare
avanti con aggressività e spontaneità, non perché i giornali aspettavano notizie
sensazionali, ma perché non si voleva mollare o finirla lì, bisognava apparire, emergere, farsi
sentire, agire.
L'azione diretta, dura, rimase l'arma principale del movimento, «una piccola esplosione nel vuoto della
normalità.» La carenza di case esisteva ancora a beneficio degli speculatori, il nemico principale.
Intraprendere la lotta era
tutta questione di mettersi a pensare l'occupazione, di passare per gli uffici immobiliari e definire il bersaglio,
di radunare gente e materiale da barricata. Poi, quando era tutto pronto, colpire con astuzia. E ancora, dopo
l'occupazione, riunirsi per dare forma ad uno spazio sociale e politico che finalmente fosse espressione delle
proprie individualità e delle proprie ragioni. Nell'esperienza locale di ogni casa occupata si incontravano
la
determinatezza dell'identità e la forza della solidarietà, «possono abbattere la nostra casa, ma
non le nostre
idee». Si arrivò verso gli anni '80 che l'atto di occupare era ben più che l'emozione di una
porta rotta, ben più che un
tetto sopra alla testa. Era un'azione compiuta per scelta, per presa di posizione in un conflitto. Una scelta
radicale a cui si arrivava a regalare un buon pezzo di se stessi e del proprio tempo; essere kraker
significava
allora fare parte di una forza sociale, ed una forza attrae o spinge, stimola, coinvolge.
Il coinvolgimento degli anni '80 Si abita 24 ore al giorno, ma abitare una
casa occupata esige certe operazioni e certe inevitabili attenzioni che
arrivano ad inciderti fino a dentro. È una costante allerta, si rimane disponibili giorno e notte, si
eliminano
volutamente confini formali o fisici attorno a sé. Di fronte a decine di case disabitate si agiva per
principio, perché era giusto, nella convinzione di poter dare
una forma autonoma al proprio vivere. Un ragazzo nell'82: «Occupare è anche lanciare pietre.
Tempo fa si sarebbe detto che occupare è rimettere in
sesto una casa». Il confronto diretto si dava per differenti ragioni basilari: si attaccavano questa società
di
consumo, espressioni razziste e sessiste, gli organi di potere. Si puntava molto sulla provocazione immediata,
probabilmente violenta, come d'altronde violenta sarebbe stata la risposta delle forze dell'ordine. Più
si prendeva
parte ad iniziative e sgomberi più si era coscienti di ciò che poteva succedere e ci si preparava
al conflitto. Tanta
tensione, i sassi a portata di mano, la paura dei lacrimogeni ... era diventata guerriglia urbana . La
compartecipazione era così intensa e permanente che, attraverso le parole di una occupante,
«appartenere
al movimento ti arriva a possedere interamente, si è giorno e notte coinvolti. Tutto resta nei sogni, nella
schiena,
nella testa ... io ho 23 anni e non rido più». Di tutto quello che si sentiva dentro ci si poteva liberare
solo con persone che avevano vissuto le stesse
esperienze. Si creava così l'inevitabile fusione degli aspetti privati della propria vita con quelli pubblici
o
politici, raramente si frequentavano spazi che non fossero occupati. Il resto (che fosse la scuola,
l'università o
qualsiasi altro luogo pubblico) infastidiva per il benessere e la normalità che esternava, diveniva
estremamente
secondario, poco soddisfacente, irritante, inutile. Per quanto volontaria poteva essere la partecipazione di
ognuno, essa diventava un'urgenza dettata
dall'irrequietezza e dall'impossibilità di mancare, dalla voglia di colpire duro, dalla necessità
stessa di sfogo. Pochi testimoni di quegli anni hanno potuto smettere il proprio coinvolgimento prima che
lo sviluppo stesso
degli avvenimenti andasse perdendo tensione. Solo allora si trovò il tempo per analizzare (criticamente)
tutto
ciò che si aveva fatto, per prenderne distanza e decidere come continuare. Il movimento non
è mai morto. In altre maniere, in altri termini, si continua ad occupare e a negare la
quotidianità. Non si guarda oggi agli anni '80 come al tempo degli eroi, ma ci si fa carico di quella
esperienza
per continuare ancora. L'antagonismo e la rabbia rimangono.
Regolamentazione progressiva Nel 1971 la corte di cassazione rende noto
che una abitazione inutilizzata può venire occupata. Chi entra in
possesso dello spazio può esercitare su di esso il proprio diritto ad una casa ed alla quiete privata.
Nessuno,
nemmeno il proprietario, può entrare nella casa senza autorizzazione; quest'ultimo può
reclamare la proprietà
solo mediante un processo. E questa restò fino all''86 l'unica, comoda, regolamentazione
sull'occupazione di
case. Si tentò in quegli anni di rendere effettive proposte restrittive e molto più limitanti il
fenomeno, proprio
quando esso era in forte espansione (le cosiddette leggi anti-kraack). Senza riuscirvi. Effettivamente poi
è sempre stato così: l'occupante di una casa si può trovare nell'illegalità e
può venire punito
per questo; il proprietario che non utilizza la casa non verrà mai punito per la sua mancanza.
Ciò che inoltre
variava a seconda della tendenza politica della giunta comunale era la definizione dei confini entro i quali si
dichiarava l'atto di occupare illegale, ed il «rimedio» da applicare. Occupare rappresentava comunque una
situazione non immediatamente punibile (lo era il puro atto di forzare
la porta). Il proprietario che decideva di citare gli occupanti in giudizio doveva prima scoprirne nome e
cognome, bastava quindi abituarsi all'inusuale provvedimento di non mostrare nè pronunciare il proprio
nome
per evitare a lungo lo sgombero. Vennero poi introdotte regolette addizionali quali quella di dover introdurre
un tavolo, una sedia ed un letto per poter dirsi occupanti di una casa, o quella «delle 24 ore», per cui bisognava
essere entrati nella casa almeno un giorno prima dell'effettiva constatazione da parte della polizia dell'utilizzo
dell'alloggio. Ma erano in fondo entrambe limitazioni deboli e facilmente aggirabili. Solo quando occupare
assunse lo specifico obiettivo di disturbare la speculazione ed i potenti della città, si fece
ricorso molto più spesso al responso di un procuratore per definire ufficialmente ed in breve tempo
quale parte
avesse ragione. Se il proprietario riusciva da subito a dimostrare che avrebbe presto venduto, o avrebbe presto
ristrutturato, o che la casa sarebbe stata entro breve abbattuta, era ordinato lo sgombero immediato. Ma dalla
casa non si sarebbe usciti volontariamente in ogni caso, «il vostro ordine normativo non è il nostro»,
e
nascevano le barricate. Ne scaturì il conflitto degli anni '80: i sindaci davano piena facoltà
di azione alle forze dell'ordine, mentre il
diritto degli occupanti veniva troppo spesso negato. La prima vera legge (sullo «stato di inutilizzo» di una
casa) uscì solo nel 1986 con due propositi. Da un lato
doveva proteggere una proprietà dall'essere occupata, dall'altro doveva riuscire ad evitare la presenza
di tante
case vuote. Invero, la legge nella sua formulazione finale diventò un chiaro provvedimento a protezione
del
proprietario, poiché tutte le proposte riguardanti il secondo punto non divennero mai effettive. Al
proprietario
invece venne reso possibile citare in giudizio l'occupante senza nome. «L'abitante x ed i suoi», «gli abitanti»
divennero le formule usate per denominare la controparte in un processo che molto probabilmente si sarebbe
risolto in poche settimane a favore del proprietario. Ancora si cercava di resistere dietro alle barricate, ma
molti gruppi di occupanti pensarono di fare essi stessi
uso della legge per rimanere nella loro casa. C'è infatti dal 1947 in Olanda la possibilità che
il Comune, come
ente giuridico, esiga la proprietà di un edificio e lo requisisca rendendo al proprietario in termini di
denaro solo
gli interessi accumulati. Gli occupanti puntavano quindi sul fare pressione sul consiglio comunale per
legalizzare le proprie case. In questo modo si riusciva a privare il proprietario della
«sua» casa, ma si arrivava
a dovere pagare un affitto al Comune. Varie case, soprattutto ad Amsterdam, sono state ottenute in questo modo.
Le politiche adottate in caso di occupazione variano molto da luogo a luogo, per cui a Maastricht e a
Nijmegen
(qui successivamente a un grande e violento sgombero) è assolutamente proibito, ad Utrecht è
un fenomeno
accettato ed in fondo attentamente regolato; Amsterdam è l'unica città dove ancora si occupa
con molta
frequenza, mantenendo la tipica impulsività nell'azione ed una certa conflittualità. Il primo
luglio del '93 è entrata in vigore una nuova «legge sugli alloggi», che in un articolo specifico
sull'inutilizzo regolamenta fortemente le possibilità di occupazione. Anche la facoltà di reclamo
da parte del
Comune è limitata temporalmente ad un massimo di dieci anni, dopo di che la casa ritorna nelle mani
dell'antico
proprietario. L'occupante è punibile se la casa non è disabitata da almeno un anno, né
si specifica
sufficientemente quando un alloggio si può dire abitato. E' infatti abitata una casa in cui il proprietario
entri
poche volte all'anno, o si limiti a verniciarne le pareti o a farci qualche lavoretto? Casi del genere rimangono
poco chiari e sono facilmente utilizzabili contro gli occupanti. Inoltre, molti proprietari di grandi case
hanno pensato di abitare parti di esse con affittuari che hanno il compito
di preservare la casa intera dall'occupazione (chiamati per questo «guardiani del kraak»). La
regolamentazione della Corte di Cassazione, la legge specifica sulle case vuote, i recenti emendamenti alla
legge sulle abitazioni, segnano tre tappe di una regolamentazione progressiva rispetto al fenomeno delle
occupazioni. La risposta-normativa è riuscita così a porre forti limiti a tutti i disordinati
sviluppi di questa storia, occupare
è certamente diventato più difficile e meno interessante come soluzione alla ricerca di una casa.
Anche nei Paesi
Bassi oggi, nonostante il suo esplosivo passato, occupare si può meno. Ma è
proprio attorno all'entrata in vigore
della nuova legge che il movimento è tornato ad agire negli ultimi mesi, poiché il problema
della carenza di
abitazioni nelle città è ben lontano dall'essere risolto. Con le vittorie e le sconfitte subite in tutti
questi anni, il
movimento vuole andare avanti, per forzare e rompere non solo i portoni delle case lasciate vuote, ma anche
tutte le chiusure simboliche, i limiti posti all'immaginario, le discriminazioni, le frontiere di questa
società.
(*) Per scrivere questo articolo ho utilizzato principalmente testimonianze di persone che hanno vissuto o
vivono il
movimento. Tra queste, due libri la cui lettura mi ha entusiasmata e mi ha insegnato molto sugli avvenimenti
passati. «Als
je leven je I ief is», Lont, Amsterdam 1982; è una raccolta di conversazioni con occupanti del periodo
duro. Le
conversazioni dicono e fanno sentire molto, ma anche il titolo colpisce: tradotto può suonare come «se
la vita ti è cara»,
traspare qui, quanto occupare fosse anche una scelta di vita. BILWET, Bewegingsleer-Ravijn, Amsterdam 1990;
ha come
proprio titolo: «occupare al di la dei media» e come finalità lo spiegare i fatti dal punto di vista
dell'attore e non dello spettatore esterno. È un testo acuto e divertente come il proprio titolo: «lezioni
di movimento», passando poi in rassegna gli
episodi più caldi, nel bene e nel male, del movimento dei kraakers. Ciò che in questo articolo
si trova tra virgolette
proviene da una di queste due fonti, la traduzione è mia.
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