Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 24 nr. 206
febbraio 1994


Rivista Anarchica Online

Una scienza ambigua
di Gaetano Ricciardo

L'imperialismo non è finito con la decolonizzazione, ma trova continuità logica con l' occidentalizzazione del mondo. È in questo contesto che la demografia viene utilizzata.

«In uno stagno c'è una foglia di ninfea. Ogni giorno il numero delle foglie si raddoppia: due foglie il secondo giorno, quattro il terzo, otto il quarto e così via. Se lo stagno si ricopre interamente di foglie il trentesimo giorno, prosegue l'indovinello, quand'è che sarà coperto per metà? Risposta: Il ventinovesimo giorno!!»
Attraverso questa metafora Lester Brown descrive la natura della crescita esponenziale della popolazione, con un approccio che se da una parte rivela come le scienze biologiche siano ancora prigioniere dei miti riduzionisti e semplificatori che le hanno sempre accompagnate, dall'altra disegna una pericolosa tendenza ad alimentare i diffusi timori di una imminente catastrofe globale contribuendo così a sedimentare una condizione di angoscia collettiva i cui esiti sono potenzialmente pericolosi.
E non a caso L. Brown è una figura di primo piano di quell'area di ecologi-catastrofisti che prosperano proprio grazie alla retorica della paura. L'idea di una apocalisse demografica è tanto radicata nel senso comune da diventare oggetto di studio da parte di esperti che considerano la sovrappopolazione un elemento centrale della crisi ecologica e, in modo più o meno esplicito, prendono come riferimento teorico le tesi Malthusiane.
Forse si può rimproverare all'ecologista libertario M. Bookchin di non aver preso in esame il problema demografico, ma perlomeno ha ricordato come la demografia sia una disciplina estremamente ambigua, connotata ideologicamente e che non può essere ridotta ad un semplice gioco numerico sulla riproduzione biologica.
Poiché il comportamento riproduttivo è profondamente condizionato da numerosi fattori, dai valori culturali alle condizioni di vita, dalle tradizioni sociali alle condizioni delle donne, dalle convinzioni religiose ai conflitti socio-politici..., non ha senso ricorrere a modelli matematici e formule astratte come quella espressa da G. Nebbia; formula che stabilisce una proporzionalità diretta tra inquinamento totale, popolazione, quantità dei consumi di ciascun abitante e inquinamento per ogni unità di bene prodotto, e dove se aumenta uno di questi fattori aumenta l'inquinamento totale (1).
Una visione totalizzante di questo tipo che comporta l'appiattimento delle differenze e trascura tutte le circostanze, ci fornirebbe una conoscenza senza volti e senza luoghi.
Contro un certo riduzionismo si esprime anche J. Passmore, il quale non solo critica il pregiudizio anti-umanista (la gente è inquinamento) di molti ecologisti - in particolare il biologo P. Ehrlich che paragona gli esseri umani alle cellule cancerogene -, ma afferma che la relazione fra popolazione e danno ambientale non è per niente semplice e diretta.

Crescita demografica catastrofe ecologica?
Per Passmore «la distribuzione della popolazione, la vastità del paese abitato e il tipo di industrializzazione, la flessibilità del sistema ecologico in cui la popolazione vive e lavora, le tradizioni sociali e la mentalità giocano una parte importante nella determinazione del grado di distruttività ecologica della comunità» (2).
E' allora possibile che paesi scarsamente popolati possano essere ugualmente distruttivi rispetto ad altri paesi con un'alta densità di popolazione, e poiché le cause della distruttività ecologica sono varie «una diminuzione del tasso di crescita demografica non ridurrebbe necessariamente il volume di inquinamento, o il tasso di consumo delle risorse naturali e non rallenterebbe la distruzione delle specie viventi e della natura selvaggia» (3).
Sarebbe fuorviante e falsificatorio ridurre tendenzialmente la complessità del reale a una qualche variabile estrapolata a caso che sia suscettibile di misurazione, perché ciò significa pretendere che il contesto sia generalizzabile e dunque rimuovere la necessità di conoscerlo e analizzarlo.
La connessione stabilita tra crescita demografica e catastrofe ecologica appare dunque infondata se non addirittura ideologica visto che l'aumento della popolazione è diventato un «problema» prima che l'ecologia si affacciasse sulla scena politica e ciò riguarda soprattutto i paesi del terzo e quarto mondo.
Pertanto lo sviluppo di questi paesi divenne l'imperativo categorico di chi si preoccupava dell'incremento demografico ritenuto causa della fame e della povertà facendo riferimento ai teorici della transizione demografica.
La teoria della transizione demografica si può schematizzare sinteticamente in questo modo: nei primi stadi della storia umana le nascite e le morti sono state bilanciate dalle carestie e dalle malattie; nel secondo stadio le nascite hanno superato le morti a seguito dei progressi dell'agricoltura, dei trasporti, della medicina e a causa delle migliori condizioni sanitarie; nel terzo stadio le condizioni create dall'urbanizzazione e dall'industrializzazione offrono numerosi incentivi alle coppie che limitano la loro fertilità e si trova così un equilibrio perfetto.
Una spiegazione di questo tipo non regge alla prova dei fatti ed un attento esame ci descrive una situazione completamente diversa.
Come osserva Passmore «Il calo della popolazione in Francia e in Irlanda non fu il prodotto dell'industrializzazione; le variazioni della fertilità negli Stati Uniti non hanno coinciso con gli aumenti e cali di reddito; nei paesi in via di sviluppo, non c'è una precisa correlazione fra livello di urbanizzazione e industrializzazione da una parte e variazioni della fertilità dall'altra» (4).
Dal quadro storico delineato dai teorici della transizione demografica si deduce che la ricetta per una consistente diminuzione delle nascite è quella di accelerare lo sviluppo dei paesi meno industrializzati.
Ma ripetere nel terzo mondo il cammino già percorso dai paesi oggi industrializzati potrebbe riuscire solo al prezzo dell'esclusione e dell'immiserimento culturale prima ancora che economico, e porterebbe, nel migliore dei casi, a riprodurre un'organizzazione economica di cui ne beneficerebbe solo una minoranza benestante a spese dell'intera popolazione.
Questa prospettiva risulta ancora più inverosimile proprio nel momento in cui la logica della crescita illimitata ha mostrato il suo vero volto nei paesi più «ricchi»: minaccia nucleare, disoccupazione, distruzione dell'ambiente, nuove malattie ...
La letteratura sull'argomento «popolazione» si complica maggiormente se si vuole determinare la popolazione ottimale del pianeta, di cui si sono fatte le stime più svariate.
Sebbene il concetto di «popolazione ottimale» resti, per certi versi, un po' oscura, emerge chiaramente la difficoltà a definirla una volta per tutte, perché ogni stima può definire il numero ottimale solo rispetto ad un fine particolare.
Per comprenderne il significato possiamo riportare una frase tratta dall'opera dell'economista e teorico politico Davenant che ci illumina sull'estrema ambiguità della demografia. Egli scrive che «il popolo è la vera forza e la ricchezza della nazione ... E' meglio che il popolo abbia bisogno di terra piuttosto che la terra manchi di popolazione. Nessuna nazione può essere considerata grande e potente per l'estensione del territorio o per la fertilità della terra o per il clima, ma solo per il numero degli abitanti» (5).
L'opera in questione indica già nel titolo Saggio sui modi e mezzi per sostenere una guerra come il fine particolare dei sostenitori di una politica natalista in questo caso sia intrisa da una logica militarista, ma può essere improntato anche da una volontà produttivistica.
Infatti in tutti gli stati mercantilisti del XVII secolo si presero dei provvedimenti per aumentare il numero della popolazione attiva; la ragione risiede nel fatto che una popolazione numerosa permette di mantenere i salari a un livello più basso.

Coercizione pura
Se il fine particolare è deciso da interessi specifici, la politica natalista che li sostiene indica chiaramente come «l'individuo, in quanto riproduttore è controllato dallo stato, dall'organizzazione suprema. Da questo punto di vista egli è reificato: è una cosa politica e le sue relazioni sessuali devono essere utili allo stato, devono essere feconde» (6).
La fecondità non è dunque solo un fenomeno bio-sociale, è anche un fenomeno politico (cosa comporti oggi l'intrusione della tecnologia, nella sfera riproduttiva è ancora da valutare pienamente).
D'altronde la popolazione può essere concepita, e lo è, come una risorsa e, mediante quella relazione che è il censimento, lo Stato o qualunque tipo di organizzazione cerca attraverso la rappresentazione numerica di accrescere la propria informazione su di un gruppo e di conseguenza la propria influenza su di esso (rappresentazione che non è solo quantitativa ma anche qualitativa). Il censimento è un sapere, dunque un potere, e «attraverso quell'informazione che è il censimento - scrive Raffestin -, è evidente che fuori da ogni considerazione religiosa, lo Stato può meglio instaurare il suo sistema di tassazione e determinare quali saranno coloro che sono obbligati al servizio militare. Le tasse e la coscrizione sono già due ragioni ma ce ne sono altre per le quali un'immagine della popolazione è necessaria» (7).
Inoltre essendo la popolazione anche una fonte di energia, è evidentemente allettante farla crescere o spostarla per raggiungere questo o quello scopo. Tutti i mezzi sono stati usati nel corso della storia: dalla coercizione pura e semplice all'incitamento morale, passando dal gioco delle rimunerazioni allo scopo di modificarne lo stock o di mutarne la sua distribuzione.
La lettura di questo aspetto strumentale della politica demografica condotta da Raffestin, che meriterebbe un ulteriore approfondimento, mette in risalto la volontà di potenza che caratterizza gli stati e che oggi non viene meno neppure di fronte alle politiche anti-nataliste che con Malthus hanno concepito la popolazione come una non risorsa.
Ciò mostra quanto siamo lontani dall'affermazione kantiana che ogni essere umano è un fine in se stesso perché nel migliore dei casi l'uomo è considerato una risorsa la cui «forza lavoro» è indispensabile, nel peggiore che la presenza in questo mondo è divenuta superflua.

Rischio evidente
Una interpretazione di tale natura cela la pericolosa tendenza a preparare il terreno per lo sviluppo dei movimenti totalitari, perché - come osservava H. Arendt in Le origini del totalitarismo - il regime totalitario è possibile soltanto dove c'è sovrabbondanza di masse umane sacrificabili senza disastrosi effetti demografici.
Di fronte ai numerosi cambiamenti di una società in rapida trasformazione e piena di spinte contrastanti, in cui gli scenari apocalittici e le visioni premonitrici occupano una posizione di primo piano, hanno facile gioco coloro che premono per un intervento immediato.
Il rischio evidente e di voler guarire il male con un male maggiore.
In questo senso si può tradurre il significato che ha assunto nel corso del tempo il miracolo dello sviluppo che qui viene descritto con una certa dose di humor da un esperto di pianificazione in Pakistan:
«1948-1955: L'industrializzazione mediante sostituzione delle importazioni è la chiave dello sviluppo;
1960-65: La sostituzione delle importazioni è un errore; la sola soluzione consiste nella promozione delle esportazioni;
1966-67: L'industrializzazione è un illusione; soltanto la rapida crescita dell'agricoltura apporta la risposta al sottosviluppo;
1967-68: Per evitare di essere sommersi dall'eccesso di popolazione bisogna dare il primato al controllo demografico;
1971-75: In realtà le masse non hanno niente da guadagnare dallo sviluppo.
Dunque bisogna respingere la crescita del PNL e mettere al primo posto l'imperativo della redistribuzione» (8).
Nonostante i vicoli ciechi e gli inquietanti segnali di fallimento, la sindrome dello sviluppo è sopravvissuta fino ad oggi (9).
Lanciato per la prima volta nell'87 dal rapporto Il futuro di noi tutti, più noto come rapporto Bruntlandt, il concetto di «sviluppo sostenibile», con tutte le sue «emanazioni», è divenuto la parola d'ordine della nuova ecotecnocrazia internazionale.

Il ruolo dell'imperialismo
Attualmente il pensiero dello sviluppo, da sempre determinato da quelle organizzazioni internazionali (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, .. ) più volte accusate di imporre programmi devastanti nel Sud del mondo e di essere lo strumento della politica occidentale (10), ha introdotto un nuovo termine, quello di Carrying Capacity (capacità di mantenimento), per indicare «il massimo di popolazione di una specie che può restare indefinitamente in un dato territorio, senza provocare degrado delle risorse fondamentali, tale da far diminuire la popolazione nel futuro» (11).
Questa definizione oltre ad affidarsi a modelli astratti che non possono spiegare le differenze di consumo esosomatico di energia e materie prime nella specie umana, né motivare la sua distribuzione territoriale ..., oltre a nascondere un conflitto esistente tra economisti ed ecologisti (per una indicazione generale vedasi il riquadro), rischia di occultare il chiaro obiettivo politico dei paesi industrializzati: cercare di dirottare l'attenzione verso argomenti diversi da quelli dell'economia di rapina. Inoltre le argomentazioni fondate sulla capacità di mantenimento e sullo sviluppo sostenibile «risultano incredibilmente ideologiche nella loro applicazione selettiva. Sono tentativi di biologizzare la diseguaglianza sociale» (12).
Come abbiamo visto si fa un gran parlare della bomba demografica, e in questo intervento ho voluto con forza contrastare l'eccessivo allarmismo e mettere in risalto le semplificazioni operate dalle argomentazioni neomalthusiane.
Detto questo, va ricordato con altrettanta forza il rilievo assunto dallo smisurato aumento della popolazione - e che ci aiuterebbe a capire la portata del flusso migratorio internazionale -, di cui vanno individuate le cause. Tale individuazione porterà sicuramente al recupero di antiche ma efficaci categorie che sembrano dimenticate nel dibattito attuale; dalla critica all'imperialismo e al neocolonialismo, alle problematiche del sottosviluppo indotto. Attraverso questo recupero è forse possibile abbandonare la certezza della superiorità eurocentrica che ha portato alla retorica della «cooperazione internazionale» le cui implicazioni finali stanno venendo alla luce.
Ci sbagliamo se pensiamo che l'imperialismo sia morto con la decolonizzazione, esso trova continuità logica attraverso «l'occidentalizzazione del mondo». «L'occidentalizzazione - scrive Latouche - è un processo economico e culturale con doppio effetto: universale per la sua espansione e la sua storia; riproducibile per il carattere del modello dell'Occidente e la sua natura di macchina» (13).
Il trionfo del modello Occidentale è reso manifesto dall'adesione agli schemi concettuali e istituzionali che hanno contrassegnato la conferenza di Rio '92 su ambiente e sviluppo.

1) La formula viene usata nella presentazione di Giorgio Nebbia alla seconda edizione de Il cerchio da chiudere, di Barry Commoner, Garzanti, Milano, 1986 pag. 12/13. Sulla fallacia dei modelli matematici vedasi il pamphlet di Brian Martin; L'esperto è nudo, Elèuthera Ed., Milano, 1993.
2) J. Passmore. La nostra responsabilità per la natura, Feltrinelli, Milano, 1986, pag.137.
3) J. Passmore, op. cit., pag. 138.
4) J. Passmore, op. cit., pag. 143.
5) Citato in J. Passmore, op. cit., pag. 144. Il capitolo dedicato alla questione demografica è certamente una miniera di informazioni per chi volesse approfondire l'argomento. Tuttavia l'autore, convinto che si debbano potenziare i progetti per il controllo delle nascite, riduce l'intera questione ad un approccio «tecnico» nel migliore dei casi, o ad una modifica dei costumi sociali per mezzo della legge nel peggiore. Le sue conclusioni sono incompatibili con una cultura libertaria.
6) C. Raffestin. Per una geografia del potere, Unicopli, 2 ed., Milano, 1983, pag. 94.
7) C. Raffestin, op. cit., pag. 80. Più avanti Raffestin fa questa osservazione: «Ai nostri giorni, la registrazione si è perfezionata e tutti gli Stati moderni possiedono schede individuali consistenti in enormi schedari spesso messi, per comodità, su ordinatore. Questo strumento di controllo è ambiguo perché, se è utile sotto molti aspetti, la tentazione di utilizzarlo per interventi negativi è enorme. L'organizzazione che lo possiede non può generalmente resistere al desiderio di sfruttarlo per affermare o rafforzare la propria posizione. Ma lo Stato non è il solo in causa; le imprese dispongono di vasti repertori nominativi per i bisogni della loro pubblicità, le chiese e i partiti, pure, per le necessità della loro propaganda. ( ... ) Lo schedario demografico è un temibile strumento in mano alle organizzazioni». (Corsivo il mio). Difficile comprendere quale utilità ci possa essere nel censimento, se non per quelle organizzazioni di cui Raffestiin ci parla. La cautela su questo argomento è fuori luogo.
8) Riportato in S. Latouche, L 'occidentalizzazione del mondo, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, pag. 95. I problemi sollevati dall'autore verranno ampiamente sviluppati ne Il pianeta dei naufraghi, Bollati Boringhieri, Torino, 1993. Latouche mette in risalto l'uniformazione planetaria condotta dal modello universalista della cultura occidentale. Al suo tagliente giudizio non sfugge nessuno: non solo le organizzazioni internazionali di aiuto allo sviluppo e le organizzazioni non governative, ma anche una certa cultura terzomondista è corresponsabile del lento ma inesorabile impoverimento culturale del pianeta.
9) Sulla sindrome dello sviluppo ne parla Wolfang Sachs in Le ombre dello sviluppo sull'ecologia, pubblicato in «Capitalismo Natura Socialismo», Anno terzo N° 1 Marzo 1993, Nuova edizione Datanew. L'autore si distingue nella lettura corrente sull'ecologia per aver ben compreso la differenza tra ecologia ed ambientalismo, come già era stato individuato da M. Bookchin. Condivido anche il suo contrariato giudizio verso chi cerca, attraverso un'operazione linguistica, di distinguere tra crescita e sviluppo (che risale alla polemica sorta sull'errata traduzione del «famoso» rapporto del Club di Roma su I limiti dello sviluppo).
10) Vedi l'articolo di Sonia Filippazzi, «Un dossier accusa le "cure" di Banca Mondiale e FMI», in Il Manifesto, 20/3/92.
11) Di J.M.Alier è la definizione di Carrying Capacity, in Valutazione economica e valutazione ecologica come criteri di politica ambientale, in «Capitalismo Natura Socialismo», N° l Marzo 1991, pag.32.
12) J.M.Alier, op. cit., pag. 34.
13) S. Latouche, op. cit., pag. 63.

OTTIMISMO TECNOLOGICO?

L'ottimismo tecnologico si muove nella convinzione che i problemi ecologici possono essere risolti e ricorre ad argomenti di questo tipo:
a) caduta tendenziale, nel lungo periodo, dei prezzi relativi (cioè dei prezzi espressi in termini dei prezzi di altri beni) di determinate risorse naturali come il rame, lo stagno, il carbone e il petrolio: dato che in termini economici il prezzo relativo è la misura della scarsità, se ne deduce che le risorse stanno diventando meno scarse;
b) allungamento dell'aspettativa della vita a livello mondiale: J. Simon sostiene che l'aspettativa di vita è il migliore indicatore dei livelli globali di inquinamento e che pertanto il suo aumento segnale una diminuzione dell'inquinamento;
c) incremento dei raccolti;
d) crescita della produzione di beni alimentari in rapporto alla popolazione mondiale;
e) andamento negativo degli indicatori di inquinanti specifici (come ad esempio il consumo biologico di ossigeno dei fiumi inglesi o la percentuale di particelle sospese nell'aria delle città americane).
Il pessimismo neomalthusiano, di contro, vede solo tendenze al peggioramento e replica con i seguenti dati di fatto:
a) diminuzione delle riserve appurate di risorse specifiche in rapporto al tasso di sfruttamento delle stesse;
b) deforestazione rispetto alla superficie boschiva restante;
c) impoverimento degli strati superficiali del suolo rispetto alla capacità rigenerativa della terra;
d) continua crescita del tasso atmosferico di anidride carbonica (con il rischio di pericolose alterazioni climatiche dovute all'effetto serra);
e) siccità estesa a gran parte dei paesi africani (ma l'influenza relativa di fattori naturali e umani va ancora dimostrata);
f) immissione nell'ambiente di quantitativi crescenti di fertilizzanti e pesticidi necessari a garantire la resa dei raccolti;
g) estinzione di specie vegetali e animali e concomitante perdita di varietà genetica e delle specie;
h) crescita demografica;
i) catastrofi ambientali specifiche, come quella verificatasi a Bhopal in India nel 1984 o come l'incidente di Chernobyl in Unione Sovietica;
l) danni crescenti arrecati alle foreste e ai laghi dalle piogge acide.
Il dibattito tra questi due schieramenti rischia di confondere qualsiasi osservatore neutrale, perché gli appigli empirici sono tanti da rendere improponibile una chiara vittoria di una delle due parti. Purtroppo, come scrive Dryzek, «la base empirica non può considerarsi decisiva...perché la tendenza al miglioramento dimostrata da un singolo indicatore può semplicemente derivare dal fatto di "esportare" le difficoltà in un altro campo di problemi, al quale si applica un diverso indicatore. Per contro, un apparente peggioramento di un indicatore potrebbe riflettere un onere supplementare proveniente dall'esterno» (Tratto da J. Dryzek, «La razionalità ecologica», Otium Ed., 1989. pag. 28 e seg.).
L'esportazione, o meglio la rimozione, dei problemi ecologici avviene nello spazio, ma vi sono casi in cui avviene nel tempo o anche nel passaggio da uno stato fisico all'altro.
Vediamo, molto sinteticamente, alcuni esempi che Dryzek ci fornisce:
Rimozione nello spazio:
- per le industrie inquinanti può essere a volte vantaggioso trasferire le proprie attività nei paesi in cui la legislazione ambientale è meno restrittiva. Inutile dire che i "beneficiari" di queste scelte sono spesso i paesi del Terzo Mondo.
Rimozione nel passaggio da uno stato fisico all'altro:
- il trattamento degli inquinanti implica spesso un cambiamento di stato fisico...Quello che inizialmente era un problema di inquinamento atmosferico, finisce per tramutarsi in un problema di inquinamento delle acque e, in ultimo, in un problema di fanghi tossici. Una soluzione non si è avuta in alcun senso.
Rimozione nel tempo:
- un chiaro esempio è offerto dai tempi lunghi di decadimento delle scorie radioattive, un problema che lasciamo in eredità ai posteri per coprire il nostro fabbisogno di energia e armamenti.
Se la sua tesi è corretta vuol dire «che non esiste alcun indicatore - né alcun numero finito di indicatori - che possa dirci se la situazione stia effettivamente migliorando o peggiorando.