Rivista Anarchica Online
Una rete necessaria
di Maria Matteo
Il 27 marzo di quest'anno a quanto pare è nata la seconda repubblica. Una
neonata che non si può certo asserire
abbia un aspetto particolarmente accattivante. Il sistema elettorale inaugurato in quest'occasione non lascia
spazio alle sfumature e, favorendo le grandi aggregazioni, nega di fatto rappresentanza ai piccoli e medi partiti.
I popolari che pure hanno raccolto il 17% dei voti ha in parlamento soltanto il 7% di deputati e senatori. Rete,
verdi, socialisti e alleanza democratica non varcheranno la soglia di Montecitorio, perché non sono
riusciti a
superare lo sbarramento del 4%. I fascisti al contrario possono contare su un numero di parlamentari ben
maggiore della percentuale di voti raggiunta. Molti, certo non a torto, attribuiranno uno scarso interesse
agli sviluppi della politica istituzionale, considerando
quest'ultima kermesse elettorale alla stessa stregua di quelle che l'hanno preceduta: null'altro che un mezzo
più
o meno efficace nel garantire il ricambio delle élite. Nondimeno mi pare che dall'ultima tornata
elettorale
emergano alcuni dati che sarebbe stolto ignorare, chiudendosi sprezzanti in una torre d'avorio. Indubbiamente
qualsiasi sistema democratico implica la negazione di ogni autentica possibilità dei singoli di accedere
alle
decisioni che ineriscono la collettività, poiché non v'è forma di democrazia che non
contempli tra i propri
elementi costitutivi un meccanismo di delega in bianco a pochi professionisti della politica. Poco importa
quindi chi vince o perde in una competizione elettorale poiché vengono in ogni caso sconfitte tutte
le esigenze di partecipazione diretta dei cittadini.
Mercificazione della politica Ciò non toglie che il risultato emerso
dalle urne il 27 marzo segni una svolta importante per il sistema politico
italiano. Il dato più significativo non è tanto o soltanto la scomparsa o il drastico
ridimensionamento di quei
partiti che avevano governato l'Italia durante la prima repubblica, quanto l'affermarsi di un blocco conservatore,
il cui asse centrale è un'aggregazione politica messa in piedi nel giro di tre mesi. Molti, sia prima
che dopo il voto, hanno insistito sul ruolo decisivo giocato dalla televisione nel determinare
l'orientamento degli elettori, sottolineando come la scesa in campo del più importante imprenditore
privato nel
settore dell'informazione facesse in qualche modo saltare le regole del gioco democratico. L'argomentazione
di costoro è molto semplice: chi possiede più giornali e più reti televisive cattura
«automaticamente» un
maggiore consenso. Se questo assunto fosse del tutto vero, potrei concludere questo ragionamento, limitandomi
a segnalare che le libertà democratiche non sono che una finzione, che diritto di parola, di stampa e di
associazione sono appannaggio esclusivo di pochi, il che in ambito anarchico non costituisce certo una
novità
clamorosa. Se fossi propensa a qualche malinconia filosofica potrei lasciarmi andare ad alcune amare
considerazioni sulla
natura umana così evidentemente incline a dismettere ogni spirito critico per abbandonarsi alla lascivia
delle
seduzioni virtuali. In questo caso tuttavia non avrei colto il punto di essenziale novità nel panorama
politico
odierno. Una novità che non è certo nella miriade di più o meno nuove sigle ed
aggregazioni, o nel controllo
dell'informazione da parte di questa o quella cordata, quanto piuttosto nel modo in cui viene elaborata e diffusa
l'immagine dei partiti e dei loro maggiori esponenti. Giornali e televisioni sono sempre stati al servizio di questo
o di quello: democristiani e socialisti non erano certo migliori di berlusconiani e fascisti. D'altro canto in un
recente passato la Lega ha conseguito grandi successi elettorali senza poter contare sull'appoggio dei mezzi di
informazione. Mi pare lecito supporre che Berlusconi e soci abbiano giocato e vinto una partita non tanto grazie
al numero di spot mandati in onda quanto in virtù dell'efficacia del messaggio trasmesso. Non voglio
arrivare
a sostenere che la foggia o il colore della cravatta di Occhetto fossero peggiori di quelle di Berlusconi o la
pacatezza di Fini più accattivante del nervosismo di Segni, mi pare tuttavia fuor di dubbio che il bianco
scintillante degli uni sia risultato più convincente del perborato stabilizzato degli altri. In questo senso
l'enorme
bagaglio di esperienze, la consolidata professionalità in campo pubblicitario, nonché l'abitudine
all'indagine di
mercato e al rilievo dell'audience ha sicuramente favorito Forza Italia e i suoi alleati. Il loro maggior merito
è
stato comprendere che se un partito o un candidato vengono posti sul mercato come merci, in quanto tali devono
essere presentati e pubblicizzati. Il segno distintivo di quest'ultima campagna elettorale non è stata tanto
la
spettacolarizzazione della politica quanto la sua mercificazione. Quando la politica era una questione di natura
squisitamente ideologica, candidati e partiti miravano a convincere la gente che una certa visione del mondo
era preferibile ad un'altra, perché il nucleo assiologico che la costituiva era il più atto a garantire
una felice
convivenza civile. Più tardi, all'epoca del craxismo trionfante, le dispute ideologiche si sono
affievolite e si è affermato un modello
estetico di propaganda che si fondava più sulla seduzione del momento che su adesioni forti. Craxi, la
cui
gestione della cosa pubblica era di stampo clientelare e mazzettaro, anticipa il berlusconismo in virtù
d'un certo
culto dell'immagine del capo, efficace anche se ancora rozza, ambigua. Come dimenticare i congressi
socialisti, celebrati con uno stile in bilico tra le convention dei grandi partiti
americani e la retorica da terza internazionale? Il faccione di Craxi campeggiava su saloni colmi di yuppies in
doppiopetto mentre le note dell'internazionale si levavano tra un garrire intrepido di garofani rossi. A Berlusconi
non basta sedurre, vuole vendere ed organizza impeccabilmente la propria campagna pubblicitaria senza
sbagliare neanche una mossa. In tre mesi prepara e lancia un prodotto che alla prima uscita risulta
immediatamente campione di incassi. I suoi messaggi sono brevi, semplici ma perentori: parla di posti di
lavoro, di solidarietà, di fine degli sprechi,
di valori quali libertà, famiglia, impresa, preconizza un nuovo miracolo italiano e sorride con gli occhi
e con
la bocca sì che la speranza diviene certezza e il futuro appare roseo. E' il padrone buono, l'imprenditore
di
successo che abbandona i suoi affari per dedicarsi ad una nuova, più importante impresa, il risanamento
dell'azienda Italia. Non è un ideologo, non è un seduttore: è un padre preoccupato per
i suoi figli. Ispira fiducia
come quella marca di pessimi formaggini che per anni mia madre ha regolarmente acquistato. Il sol dell'avvenire
dei suoi avversari appare irrimediabilmente velato dalle nubi: i vari Occhetto, Bertinotti, Orlando si sforzano
di mostrare le debolezze e le incoerenze dell'avversario, ma sono del tutto incapaci di indicare un'alternativa
vera. Parlano di una destra egoista, aggressiva, liberista che imporrà sacrifici, lacrime e sangue ai
lavoratori,
agli immigrati, ai meridionali, ma appaiono timidi, impacciati, succubi del capitalismo e delle sue implacabili
logiche quando devono indicare una via diversa da percorrere. Sembrano verginelle impegnate a difendere il
decoro e il loro buon nome più che donne libere decise a rivendicare il proprio diritto
all'autodeterminazione
e ad una sessualità libera e non mercificata. Nessuno può vincere una competizione con
chi vende detersivi, formaggi, automobili ma soprattutto illusioni.
E' molto difficile sconfiggere l'avversario fuori casa, lo è ancor di più quando si accetta di
giocare tutte le partite
sul terreno del nemico. La pretesa maggiore razionalità del nuovo sistema elettorale, il ruolo
pervasivo dei media spostano lo scontro
politico da contesa sulle grandi questioni ideali e sui programmi concreti a gioco raffinato per pubblicitari ed
esperti di marketing.
Piazze deserte Nei giorni successivi alle elezioni ho colto da più
parti molti segnali di disagio e di preoccupazione per le
possibili conseguenze dell'ascesa al governo di una destra che annovera tra le proprie componenti principali i
neofascisti riciclati di Fini. Da parte di taluni sono stati avanzati seri dubbi sull'opportunità di una scelta
astensionista che indirettamente favoriva l'avanzata delle destre. Sicuramente la prospettiva di una compagine
governativa che veda un paio di generali fascisti ai ministeri della difesa e degli interni e una banda di liberisti
assatanati alle finanze, bilancio e tesoro, non è delle più allettanti. È tuttavia abbastanza
desolante constatare
una diffusa incapacità di comprendere che l'ambito istituzionale oggi più che mai rappresenta
la negazione di
ogni possibilità di pensare una politica e una società libere. Queste elezioni, al di là dei
risultati emersi, hanno
segnato la sparizione di ogni residua sfera pubblica. Una campagna elettorale che ha visto le piazze deserte
ed il moltiplicarsi degli spot televisivi, non rimanda ad
una mera riflessione sull'efficacia di questo o quel sistema di propaganda, ma è altresì un chiaro
indicatore
dell'attenuarsi dei già esigui margini di partecipazione alla vita pubblica. Chi va ad un comizio, esce,
incontra
altra gente, si ferma a discutere, applaude, fischia, magari impreca, è in qualche modo partecipe,
protagonista.
Al contrario chi guarda un dibattito televisivo assiste ad una sceneggiata, che, per quanto vivace e colorita, lo
esclude irrimediabilmente, lasciandolo sprofondare nella morbida palude della poltrona nel salotto buono di
casa. La sfera pubblica di riflessione, dibattito e ragionamento, alla cui costituzione aveva potentemente
contribuito
la crescita dei media, si viene inesorabilmente sgretolando. Giornali, radio e televisioni hanno cessato di essere
strumenti utili ad un confronto che concretamente si sviluppa nella società civile, per divenire il luogo
privilegiato in cui tale confronto non è più agito ma rappresentato. Lo spazio politico pubblico
cede il posto ad
un pubblico di teleutenti.
Destra sociale Appare quindi privo di senso il silenzioso mormorio di mea
culpa che è qua e là echeggiato dopo la vittoria del
polo delle libertà e del buon governo, mentre è certamente più proficuo interrogarsi
sulla possibilità di costruire
ambiti politici non-statali, che sappiano sin da ora tracciare le coordinate simboliche e reali di un percorso di
liberazione individuale e collettiva. Questa che abbiamo di fronte non è solo una destra politica,
ma anche e soprattutto una destra sociale diffusa
che si annida in tutti i ceti, tra coloro che pensano che ogni male dipenda dagli immigrati, dai drogati. E' una
destra fatta di gente perbenista e piccina, da sempre abituata a rannicchiarsi nel grande, comodo e rassicurante
ventre di vacca democristiano e che oggi ha trovato in Bossi, Berlusconi e Fini una comoda sponda cui
appoggiarsi. Contro questa destra è vano agitare i fantasmi sinistri del fascismo, o paventare le
conseguenze disastrose di
una politica economica ultraliberista. Il razzismo, l'intolleranza, l'egoismo possono essere eliminati soltanto se
si crea un clima culturale in cui non possano attecchire. La cooperazione, lo scambio, la libertà
necessitano
altresì di spazi che si costituiscano a partire da un agire comunicativo in cui un ethos politico e sociale
di segno
libertario riesca pienamente ad esprimersi. Non si può escludere che la sconfitta elettorale delle sinistre
non apra
un terreno di dibattito che consenta di dare maggior forza a chi si muove per un'alternativa di autogestione, ma
occorre delineare rapidamente proposte ed obbiettivi.
Basta con la marginalità Troppi e per troppo tempo si sono cullati
nell'idea di poter vivere ed agire, rifugiandosi negli interstizi che tutto
sommato il sistema permetteva. Gli anarchici che per scelta e per definizione si volevano incompatibili ad ogni
struttura di dominio, negli ultimi cinquant'anni in Italia si sono abituati ad una situazione di marginalità
tollerata.
Una marginalità che per taluni è divenuta un mito, una sorta di blasone di cui vantarsi, per altri
una dannazione
da cui era impossibile uscire. Non è improbabile che un tale margine di compatibilità possa
essere velocemente
eroso dall'avvento delle destre al governo. E' venuto quindi il momento di scegliere tra una politica di mera
difesa dei propri spazi e il tentativo di aprire
un terreno di comunicazione e sperimentazione allargata che sappia infondere linfa vitale all'opposizione
libertaria. Oggi più che in passato è importante valorizzare e far crescere le esperienze di
autogestione
produttiva e di servizi, di autoorganizzazione sindacale, di municipalismo di base, costituendo una solida rete
di cooperazione e scambio.
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