Rivista Anarchica Online
All'ombra delle tricoteuses
di Carlo Oliva
Non so se vi sia sfuggita, un mesetto fa (per la precisione: sabato 1° ottobre) la
pubblicazione, nell'apposita
rubrica della "Repubblica" di Eugenio Scalfari di una lunga lettera al direttore di Marcello Veneziani. Il
Veneziani, per chi non lo sa, è un fascista di un certo spicco: direttore del periodico "L'Italia
settimanale", che
io non conosco, ma alcuni considerano una specie di organo ufficiale del revisionismo filorepubblichino, notista
e commentatore su non so quale quotidiano filoberlusconi (sarà il "Giornale", ma non ci giuro), il tipo
aspira
da qualche tempo al ruolo di ideologo ufficiale della nuova destra. Se la sua lettera vi è sfuggita,
naturalmente,
poco male: i fascisti, nonostante tutto, sono pochissimo interessanti e forse ormai non lo è più
neanche Scalfari.
Ma c'era un passaggio, in quella missiva, che mi sembra rivestire un certo interesse ed invitare - perché
no? -
a una qualche riflessione. Dunque, la lettera in questione, formalmente, è una variazione sul tema "noi
due
saremo anche avversari, ma su molte cose potremmo andare d'accordo". E come sempre in quella serie, le molte
cose in questione si riducono, stringi stringi, alla inettitudine e alla pochezza altrui: noi due saremo anche
avversari, ma siamo comunque due ganzi in un mondo di pidocchi. Il mittente trova negli editoriali del
destinatario "umori e malumori" che sente di condividere. Ha apprezzato il suo ultimo libro come "una perla
rara nel nostro giornalismo arruffone e incapace di sollevarsi da un palmo da terra". Si è accorto che
"molte sue
apprensioni sulla caduta del gusto e del livello culturale, molti dei suoi disgusti" li andava raccontando anche
lui "da tribune più piccole e forse un po' più scomode". Insomma, è una vera e propria
richiesta di
riconoscimento di statusda parte di chi, pur consapevole della propria statura, sa che nel mondo
dei Grandi si
entra solo per cooptazione. Lo Scalfari, com'è ovvio, non si pronuncia esplicitamente in merito, ma il
semplice
fatto che pubblichi la missiva con un certo rilievo, in due colonne a giustezza doppia e senza commenti, sotto
il titolo Onore all'avversario, è abbastanza significativo. Ovviamente chi, come noi,
non considera la maggioranza dei propri simili una marmaglia vile capace soltanto
di ammirare la Grandezza dei Sommi, con tutto questo ha ben poco a che fare. Ma c'è un passaggio di
quella
lettera che raccomando alla vostra attenzione: quando, prima degli ossequi finali, il Veneziani pone la sua unica
condizione. "Le chiedo solo una cosa" scrive. "Quando lei difende gli ideali della Rivoluzione francese, io non
mi sogno di rovesciarle addosso il Terrore e il Genocidio, l'assassinio di Andrea Chenier e di Maria Antonietta.
Provi anche lei, se io difendo i cattolici della Vandea o i fascisti volontari di guerra alla Berto Ricci, a non
rovesciarmi addosso i roghi, la caccia alle streghe, i campi di sterminio, Anna Frank. E distingua tra destra e
destra, tra uomini e uomini". Niente di più ragionevole, a prima vista. A destra come a sinistra, gli
armadi non sono avari di scheletri che
nessuno sente il particolare bisogno di rivendicare. Ci si schiera con la grande Rivoluzione perché si
condividono gli ideali di Libertà, Eguaglianza e Fraternità e non per simpatia innata verso le
tricoteuses; si è
comunisti in nome del riscatto del proletariato e non in quello dei processi di Stalin; ci si dichiara anarchici
perché si crede alla libertà come valore assoluto e non perché si ritenga di dover
comunque abbattere capi di
stato in visita e collocar bombe nei teatri di varietà. E così, chi si schiera a destra può
ben affermare di credere
in valori "rispettabili", come suppongo siano il senso dell'appartenenza a una tradizione, la fedeltà alle
istituzioni e a chi le rappresenta, l'etica aristocratica dell'onore personale e simili, senza correre il rischio di
finire, almeno a titolo onorario, tra gli imputati di Norimberga. Figuriamoci. Di fronte alle contrapposizioni
manichee, che fanno, absit iniuria, di ogni erba un fascio, bisogna saper distinguere tra destra e
destra e tra
sinistra e sinistra. La responsabilità morale è personale, e riguarda solo quanto facciamo
personalmente e le
relative motivazioni. Ma...Ma il fatto è che in politica il discorso è molto meno
convincente. Io non rinfaccerò certo Auschwitz a
Marcello Veneziani, anche perché il riferimento comporta una dimensione tragica che non mi sembra
si addica
al personaggio, ma penso comunque che il fascismo di Auschwitz sia corresponsabile e, anche per questo, per
quanto la cosa sia un po' fuori moda, resto antifascista (e quindi ostile a tutti i fascisti, lui compreso). La politica,
anche se ammette, con qualche ipocrisia, la figura dell'indipendente, è innanzitutto appartenenza.
Ciascuno,
naturalmente, è libero di definire la sua sfera di appartenenza, ma poi dev'essere conseguente. Insomma.
Prendere dalla tradizione in cui, bene o male, ci si riconosce, solo quello che conviene e scartare come estraneo
quello che non conviene, appropriarsi del positivo e lasciare il negativo agli altri, tutto sommato, è un
po' troppo
facile. Perché, invece, tutto si tiene e tra i "volontari di guerra alla Berto Ricci" e i campi di sterminio
(e tra
Robespierre e la ghigliottina, naturalmente, per non dire di altre più recenti forme di Terrore cui la
sinistra non
è stata estranea) esiste un rapporto - un legame - che posso affermare o negare, ma solo a mio rischio
e pericolo.
Il primo rischio e pericolo, ovviamente, è quello dell'isolamento. Quanto più sono schifiltoso
nella selezione
dei criteri, tanto più corro il rischio di trovarmi in una compagnia eletta, ma esigua. Sarò
sincero: mi è venuto
in mente che dell'argomento si sarebbe potuto discutere con profitto su "A" perché, in fondo, il discorso
sembra
fatto apposta per la sinistra libertaria; per chi nel grande patrimonio della tradizione rivoluzionaria ha sempre
saputo scegliere quanto accettare e quanto rifiutare, a rischio appunto dell'isolamento e della messa in minoranza
perpetua. Ma quello, forse, non è il rischio maggiore. Il fatto è che operazioni di
purificazione ideologica di questo tipo
("per favore, non rimproveratemi questo e quello: io non c'entro") si risolvono sempre in una rimozione. E
rimuovere un problema, notoriamente, non significa risolverlo. Che la tradizione rivoluzionaria (la nostra, dico)
sia percorsa dalle forme più sgradevoli di violenza e di autoritarismo è un dato, ahimè,
incontestabile, ma il fatto
che questo non ci piaccia non ci esonera dalle nostre responsabilità in merito. Anzi, solo riconoscendole,
caricandoci sulle spalle anchequesto fardello, potremo sperare di far qualcosa che migliori la
situazione. Se la
violenza è qualcosa che riguarda gli altri, perché darcene pena? Ma se siamo convinti che
riguarda anche noi,
e non solo nel senso che potremmo esserne oggetti, ecco che il problema di che uso farne o non farne, di come
limitarla e, possibilmente, sradicarla diventa molto, ma molto, importante. Non c'è scampo.
Finché
continueremo a credere a quella vecchia, ma utile, contrapposizione tra destra e sinistra, il Terrore giacobino
(e anche quello di Stalin, naturalmente, ambiguità di Togliatti comprese) resterà un
nostroproblema. Dovremo
continuare a praticare la nonviolenza e ad aborrire l'autoritarismo all'ombra delle tricoteuses,
più o meno in
fiore. Se decideremo che quella contrapposizione non è più valida, naturalmente, dovremo farlo
a braccetto con
Marcello Veneziani e i suoi amici. Basta scegliere.
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