Rivista Anarchica Online
Le identità abusive
di Alfred Grosser / Salvo Vaccaro
In un articolo apparso su «Le Monde» Alfred Grosser solleva alcune domande sulla questione quantomai attuale
delle identità personali e collettive. Salvo Vaccaro, partendo dalle riflessioni di Grosser, approfondisce
l'analisi
con un taglio esplicitamente libertario.
Esistono mode verbali. Spesso traducono mode del pensiero. Solo poche parole
sono così inutili, in questi tempi,
quanto quella di identità. Nella sua forma più riduttiva: ognuno avrebbe solo una
identità e si troverebbe definito
da essa, si vedrebbe giudicato, sarebbe chiamato a giudicarsi in funzione di essa. Mentre ognuno di noi ha
identità
molteplici, la personalità di ciascuno è fatta, nella migliore delle ipotesi, di sintesi, nella
peggiore, di
giustapposizione conflittuale di identità molteplici. Così, io sono uomo e non donna, cosa che,
ancora nella nostra
società, mi dà vantaggi immeritati. Sono parigino, cosa che mi vale, da parte dello stato, dieci
volte maggiori
sovvenzioni culturali che se io abitassi in provincia. Sono francese, cosa che mi mette in una situazione
privilegiata, nel mio benessere quotidiano, rispetto ai 3/4 dell'umanità. Sono ciclista, dunque detesto
gli
automobilisti; sono automobilista, dunque detesto i ciclisti. Ecco casi ricorrenti di identità conflittuali!
Non bisognerebbe scherzarci, poiché l'abuso riduzionista è raramente innocente. Spesso
l'articolo determinativo
identificativo permette ai forti di celarsi dietro ai deboli. «I» contadini: si tratta veramente della stessa
condizione
per il viticoltore della Champagne e l'allevatore di montagna? «Gli» insegnanti: lo stesso per il professore o per
il maestro supplente che non sa dove, tra qualche mese, dovrà affrontare un disordine carico di
aggressività: è
veramente la stessa identità, la stessa battaglia? E' logico, è legittimo che l'ingiustizia subita
collettivamente dia ai membri del gruppo ingiustamente trattato un
forte sentimento di appartenenza alla collettività identitaria, quanto meno per consentire la
solidarietà nell'agire
rivendicativo. Nel XX secolo, il movimento operaio è stato fondato su questo; e anche i movimenti
femministi,
chiamando la borghese e l'operaia a prendere coscienza prioritariamente della discriminazione subita in quanto
donna. Ma non occorrerebbe aggiungere altro parlando delle identità «etniche». Non insistiamo neanche
sulle
tragedie sanguinarie nella ex Jugoslavia, dove si uccide, si muore in nome di identificazioni e autoidentificazioni
abusive, in regioni ove la comunità di vicinato identificava spesso meglio della distinzione «etnica».
Riferiamoci alla Corsica, dove si uccide anche per costringere a una identità esclusiva. O alla
Catalogna, dove
parecchi genitori impediscono ai figli liceali di seguire i corsi in spagnolo. O alla Svizzera tedesca, dove il
tedesco
si trova sempre più rifiutato a favore del dialetto, che si suppone possa meglio identificare, meglio
costituire un gruppo di appartenenza distinta dal gruppo nazionale. L'articolo determinativo permette
di semplificare il gruppo respinto, nel timore e nel disprezzo. O nella santa
semplicità del pregiudizio: «I tedeschi sono ... », «il tedesco può ... » (o non può ... ).
Che si possano ancora
praticare tali abusi di linguaggio e di pensiero, in testi francesi contemporanei, è insensato soprattutto
dopo circa
4 anni di prova, da parte dei tedesco-occidentali, che la maggior parte di loro si identificava molto più
nello status
socioprofessionale e nei suoi vantaggi, che in una collettività nazionale in seno alla quale è
necessario
condividere. Il sentimento di identificazione può essere imposto dall'esterno: quanti tedeschi ebrei
sono diventati ebrei in
Germania solo perché Hitler li vedeva così, li voleva così, li trattava così! Ma
più spesso tale sentimento nasce
come diceva Voltaire nel «Dizionario filosofico»: «Il termine (identità) non significa che "cosa
uguale". In
francese potrebbe essere reso con "memeté" (medesimezza). È quindi la memoria a stabilire
l'identità, la
medesimezza di una persona». Quale memoria? Qui bisogna distinguere chiaramente tra la memoria
individuale e ciò che si chiama, più spesso
a torto, la memoria collettiva. E' già difficile stabilire chiaramente ciò che è la prima.
Insieme di ricordi di un
vissuto? o di ricordi di un vissuto per una buona parte ricreato, immaginario? di un ricordo cosciente? di un
vissuto inconscio, come vogliono gli psicanalisti? di un vissuto pre-esistente alla vita, come vogliono i
genetici? Anche la stessa esperienza vissuta può dar luogo a sentimenti, comportamenti
completamente differenti. Per
esempio, lo strazio di parenti deportati e poi assassinati. Se leggete la rubrica «Anniversari» di questo giornale
(Le Monde - ndt), sarete sicuramente colpiti dalla traduzione della triste memoria, a volte in una
amara
autoidentificazione carica di condanna a causa di identificazioni collettive, a volte in un sentimento creativo
carico
di apertura ad altre identità.
Memoria e trasmissione Esiste la «memoria collettiva»? Non c'è
memoria: c'è trasmissione. Attraverso la famiglia, la scuola o ancora la
televisione. Fare come se essa costituisse una sorta di dato, una base strettamente legata ai fatti per
l'identificazione individuale e collettiva, significa negare la forza dell'educazione, dell'informazione, della
formazione, del complesso gioco di influenze subite da tutti, specialmente da bambini e adolescenti.
L'insegnamento sciovinista della storia della Francia non trasmette solamente una «memoria collettiva»: crea
nazionalismo, cioè una forte priorità data alla componente nazionale dell'identità degli
individui. La scuola ebraica
e quella islamica forgiano identità individuali a tendenza esclusivista. La scuola cattolica cercava di
andare in
questa direzione. Essa si è trasformata su questo punto centrale, sebbene le manchi ancora l'essenziale
di ciò che
rende una appartenenza collettiva creatrice, vale a dire lo sguardo distanziato e critico sul passato di questa
collettività. In modo particolare, sui crimini commessi, sulle sofferenze inflitte a suo nome. Sulle
variazioni della morale del
gruppo di appartenenza. Certo, è legittimo ammirare e far proprio il testo di S. Paolo, secondo il quale
l'unità nel
nome di Gesù fa che non esistano più padroni né schiavi. Ma soltanto a condizione di
accettare l'idea che, fino
alla metà del XIX secolo, la chiesa cattolica interpretava il passaggio senza mettere in questione lo
schiavo, che
aveva semplicemente accesso al cristianesimo, dunque alla promessa di ricompensa nell'al di là. E ogni
cattolico,
prendendo giustamente la difesa di Salman Rushdie, dovrebbe avere memoria, ad esempio, della vana
opposizione
di Voltaire in favore del giovane cavaliere De la Barre, messo a morte per non essersi tolto il cappello davanti
a
una processione. Infatti solo questa memoria permette di non condannare riduttivamente l'Islam all'intolleranza
omicida. Come se il cattolicesimo non fosse stato, nello stesso secolo, la religione di S. Vincenzo e quella dei
Dragonnades («Dragonnade» è il sistema di persecuzione dei protestanti ai tempi di Luigi XIV in
Francia - NdT).
Alla stessa maniera, sarebbe necessario che la memoria collettiva francese accettasse di celebrare con 1'8
maggio
1995 sia il cinquantenario della vittoria, sia una terribile repressione esercitata nel nome della Francia di
Costantino, contro autoctoni musulmani pure supposti francesi.
Comprendersi e difendersi Se crediamo veramente, come proclamiamo di
continuo, che il fondamento della nostra morale è il concetto di
eguale dignità di tutti gli uomini, nessuna appartenenza dovrebbe condurre a una identificazione
esclusiva. Ogni
pedagogia, compresa quella dei media, dovrebbe tendere a liberare senza allentare, cioè a prendere una
distanza
critica dai gruppi di appartenenza, anche privilegiati, senza per ciò sopprimere gli scambi, senza i quali
l'individuo
è asociale e inutile agli altri. Perché allora questa formidabile ricaduta nella identificazione
ad un'etnia, a una setta, a una banda? Perché c'è
stata destinazione di identificazione: alla classe operaia, al partito comunista, alla chiesa. In un certo senso,
anche
all'impresa, al padrone o al salariato. Perché l'identità riduttiva costituisce il rifugio contro la
difficile libertà;
richiudendosi in una appartenenza, si può rifiutare di vedere che la personalità è
costituita a partire da una
molteplicità di appartenenze. Prenderle sul serio significa obbligarsi a comprendersi meglio per definirsi
meglio,
per essere superiore alla somma delle appartenenze identitarie. La domanda «chi sono io» non ha nulla di sterile
nella misura in cui è posta come incitamento ad aprirsi agli altri, a comprendere gli altri, a creare
insieme agli altri.
L'identificazione abusiva è sterile in maniera spesso omicida.
Alfred Grosser (da: «Le Monde»,
28-1-1994. Traduzione italiana di Candida Di Franco)
Salvo Vaccaro
Identità e riconoscimento L'articolo di
Alfred Grosser pone una questione centrale per i tempi presenti: quella dell'identità e del
riconoscimento. La posizione centrale di un problema invita a riflettere anche sulla sua alterna fortuna. Da
secoli il tema
dell'identità è costante, però oggi ha riassunto una pregnanza significativa.
L'occasione di una riflessione in proposito ci offre l'opportunità di una lettura del presente a partire
da ciò che
suscita, per riflesso o per retroazione, la riemergenza di eventi e discorsi incentrati sulla identità di una
popolazione, di una etnia, di individui singolari o di gruppi. Identità è un nome complesso,
perché indica almeno due concetti: 1) identità di sé, secondo un movimento di
soggettivazione: l'individuo o il gruppo si interroga sugli elementi
sostanziali che lo rendono soggetto, cioè esponente di proprietà e capacità peculiari che
definiscono la sua
specifica identità. 2) Il riconoscimento di sé da parte altrui secondo un movimento di
oggettivazione: l'altro-da-sé riconosce, per
l'appunto, un sé distinto dal proprio ma specifico all'altro, confermando l'identità e addirittura
l'esistenza. Se non
si è riconosciuti dagli altri, scoppia una crisi di identità di sé poiché ci si sente
annullati, assenti, invisibili agli
occhi altrui, indistinti.
Sradicamento e radicamento L'intreccio reciproco tra identità e
riconoscimento porta i due concetti a rimbalzare continuamente l'uno sull'altro.
Ciò nondimeno è possibile in via metodologica differenziare le questioni pertinenti alle due
problematiche. Ciò che mette in dubbio l'identità e il riconoscimento altrui di sé
è l'esperienza dello sradicamento. Essa designa
un processo violento (ma non necessariamente subitaneo e improvviso) di erosione di quegli elementi
consolidati
che fungono da vettori identitari per l'individuo o per il gruppo: possono essere forme comunitarie, clan
parentali,
stili tradizionali di vita, usi, costumi, linguaggi, garanzie sociali, economiche, politiche. La modernizzazione
impressa dal capitalismo, ad esempio, ha sradicato enormi masse di popolazione dal loro humus
di vita,
inurbandole e industrializzandole a forza di migrazioni su varia scala, esodo dalle campagne, scomparsa della
famiglia allargata, esautoramento della comunità locale a misura (d'occhio e di contatto) d'uomo,
ridislocazione
degli organismi politici e poi sindacali, eliminazione di garanzie sociali, introduzione di nuovi stili di vita.
L'accelerazione vertiginosa impressa dalla tecnologia ha altresì modificato la percezione della
realtà e del proprio
posto (come singolo e come gruppo) al suo interno, introducendo orizzonti e forme inedite di immaginario
simbolico. Beninteso, il radicamento non è un'esperienza originaria, ontologica; esso è
frutto di tempo e di fertilità dello
spazio ambientale ove vive e cresce la comunità di individui. Sentirsi a proprio agio a casa (chez
nous, dicono
i francesi) non è un fattore «naturale», bensì è frutto culturale di una certa
organizzazione della società che
garantisce alcuni gruppi primari e alcune forme di tutela, riparando singoli individui o gruppi dal rischio
imminente e permanente della contingenza: l'evento emergente carica di angoscia l'aspettativa perché
imprevisto,
obbligando a prendere contromisure o, meglio, misure preventive di disinnesco dell'onere di angoscia della
novità,
ingrigliandola. La cultura di certe organizzazioni sociali preforma allora una reazione all'evento
imprevedibile tessendo una rete
protettiva di garanzie culturali, psicologiche e sociali che attutiscono l'impatto della novità. E al
contempo
colgono in questa tutte le eredità riconoscibili in modo da attirarla nella gabbia della continuità,
emarginando gli
elementi di innovazione radicale in essa presenti. Comunque il radicamento, vale a dire la radice
dell'identità, è altrettanto artificiale dell'esperienza, sovente
drammatica, dello sradicamento. Perturbamento, spaesamento, smarrimento, perdimento, con/fusione: sono
queste
le sensazioni tipiche di una identità sradicata, o di un riconoscimento negato. O della scoperta di un
altro da sé,
asimmetrica rispetto al gioco di aspettative eretto per incantarlo e addomesticarne la forza evocativa
dell'esteriore,
del possibile differente. Da qui, varie mosse di controreazione alla crisi di identità: rabbia, rivolta,
rassegnazione, apatia, indifferenza,
insofferenza, oppure patologie psichiche (paranoia, principalmente). Cosa spinge, dunque, a ricercare nuove
radici
altrettanto artificiali di quelle appena perse? bisogno di continuità? di aderenza alla superficie della terra
da cui
si proviene? solo una riduzione dell'ansia a lungo insopportabile? e perché non ci si libera
definitivamente di una
camicia di forza, peraltro inavvertita? Io credo che intervenga anche e soprattutto una certa configurazione
proprietaria dell'identità ed una certa
rappresentazione gerarchica del riconoscimento.
Rinnovare l'incantesimo Identità significa sé stabile, fisso,
perenne, continuo, lineare, liscio. Radicamento vuol dire appartenenza a
qualcosa, identificarsi cioè in qualcosa di esteriore che tuttavia conferma l'identità di sé.
La concezione
proprietaria dell'identità di sé indica l'egemonia del senso di appartenenza al cui interno
l'identificazione trova
un sicuro approdo, un saldo aggancio. Si può appartenere - ereditariamente e quindi irresponsabilmente,
deresponsabilizzandosi - alla famiglia, al clan, all'etnia, alla nazione, alla patria. In tal caso, l'identità
di sé è data
dal suo posizionamento stabile entro i confini identitari che contraddistinguono l'elemento proprietario. Ma si
può
anche appartenere a una certo stile di pensare (il celebre cogito ergo sum di Descartes è
al fondamento del
pensiero moderno), i cui confini escludono altre forme di pensiero e di rappresentazione: per esempio, la follia
e l'irrazionale nominano esclusi e perdenti, vinti e assoggettati che hanno smarrito l'identità - si sostiene
- e non
vengono riconosciuti in quanto tali perché deficitari o eccedenti della giusta misura. Pensiero di
moderazione
contro dismisura. La concezione proprietaria dell'identità implica un sé fisso e chiuso,
arroccato a presidio dei propri confini di
(auto)-riconoscimento. Ogni novità va integrata (quindi depotenziata proprio del fattore dissonante),
oppure
annichilita, espulsa, emarginata (quindi combattuta e ridotta). «Essere di proprietà» di elementi
esteriori alla singolarità preforma il sé a svalutare la propria capacità di auto-posizione
nel mondo, sino a identificarsi soltanto se appartenente a una cintura protettiva di senso, che surroga
la libertà radicale di inventare, momento dopo momento, il significato di sé nel mondo e del
mondo per sé. È la
conquista più importante dello sradicamento operato dalla modernità: se nulla accade per
destino fatale o per
imperio teologico, come l'illuminismo e la secolarizzazione hanno accertato, occorrerà o affrontare
l'esperienza
senza rete o surrogare l'eclissi del primato teocratico o destinale con potenze identitarie altrettanto econome che
pensino liberamente al posto nostro. Servitù volontaria, ancora. Sarà allora l'elemento di
appartenenza a rinnovare l'incantesimo per cui altri reggono le fila della nostra esistenza,
designando il nostro sé, facendolo riconoscere solo se posto nella casella giusta, non per volontà
divina ma per
contratto tra formazioni di sovranità. La propria identità (di sé o di gruppo) è
finalmente operativa per risparmiarci
la faticosa libertà e la pesante responsabilità di significare arbitrariamente e collettivamente la
contingenza della
vita, cioè il fatto che ognuno è in potenza libero di istruirsi la propria esistenza nel linguaggio
e nella prassi, sia
come sviluppo autocentrato della propria singolarità, sia come co-sviluppo della comunità di
scelta in cui si trova
o intende vivere.
Chiusure reciproche L'esperienza dello sradicamento, con i suoi effetti
sovente inconsapevoli o addirittura non pervenuti a visibilità
perché intercettati con controreazioni preventive identitarie, comporta la ricerca di nuove radici o la
riattualizzazione in forma presente di vecchie appartenenze che una data configurazione materiale e culturale
della
società aveva momentaneamente accantonato. Questo processo è operativo ed evidente a partire
dal collasso
repentino di una realtà, di un immaginario ideologico, di un senso simbolico del mondo; per
esemplificare, dopo
gli eventi europei del 1989. Smarrita una identità plurigenerazionale, pericolosamente vicine ad
esser misconosciute e quindi, in linea di
ipotesi, soggette a eventuale ricolonializzazione politica, economica, culturale, sociale (o un mix di tutto
ciò,
come contraddittoriamente sta in parte avvenendo), le popolazioni dell'ex impero sovietico (in senso lato, i paesi
al di là della cortina di ferro, Balcani inclusi) hanno seguito diverse vie loro disponibili per rifarsi un
'identità
riconoscibile: sospettosa, immediata ed entusiasta adesione a valori e immaginari occidentali, brutale e repentino
scatenamento di lotte identitarie neotribali o nazionaliste, formale indipendenza statuale e politica nel quadro
di
un sistema di riconoscimento internazionale. In ogni processo siffatto, il tentativo di farsi identificare da
nuove appartenenze sussume una eventuale autonomia
singolare a scegliere liberamente e senza urgenze o ingiunzioni quale sé essere in quanto individuo e
in quanto
comunità. Il breve inverno del 1989 non si è rivelato sufficiente a scongelare irreggimentazioni
profondamente
radicate e istruite sin nella mente degli individui; solo i regimi si sono squagliati senza colpo ferire, forse
proprio
perché non si apriva un vuoto da coprire, vista la pronta alternativa di continuità. Dentro
una griglia proprietaria, si appartiene e non si dispone di elementi idonei a identificare e riconoscere.
Chiusure reciproche di identità portano inevitabilmente allo scontro quando dietro ad esse si muovono
interessi
forti organizzati (ma abilmente dissimulati) che premono per assumere la legittimità di diritti individuali
o di
gruppo, non tanto col fine di contrattare eventuali concessioni reciproche di godimento di beni e risorse
materiali
(passaggio sempre successivo alla definizione di questioni identitarie, infatti), quanto per avvalersi del titolo
di
identità legittimamente riconosciuta come chiave di accesso privilegiato ed esclusivo a quella posizione
sociale
da cui poi ricavare benefici e gratificazioni culturali, politiche, economiche, sociali. Il conflitto tra
identità che aspirano ad essere esclusive è ineluttabilmente portatore di scontri irriducibili a
qualunque compromesso (identità e riconoscimento non sono beni divisibili in porzioni o quote
riservate; solo
dopo una definizione stabilizzata è possibile qualche benevola concessione, come fecero gli statunitensi
verso
gli indigeni pellerossa); in gioco è l'appartenenza a una matrice statutaria che individua e legittima
l'esistenza in
vita di individui o gruppi. Ecco perché l'imposizione identitaria attivata dal neotribalismo o dal
nazionalismo
sciovinista (espressione ridondante, ricordava causticamente Karl Kraus) assume toni così violenti e
tragici, ai
limiti di una capacità ottusa di comprensione, anestetizzata dal surplus di immagini mute perché
strozzate. Non è sufficiente disporre, ma occorre essere proprietari affinché si appartenga
a ciò che fornisce il titolo di
godimento a risorse politiche e a beni economici, che il conflitto proprietario rende scarse e rare, acuendo a sua
volta l'asprezza dello scontro a morte. È quest'ultima, infatti, secondo Hannah Arendt, a segnare il
crinale
definitivo di identità assoluta: vita o morte, e se vita, vita asservita e posseduta entro i confini posti
dall'organizzazione politica che cattura i singoli individui e la comunità in schemi identitari di salda
appartenenza.
Non temere l'asservimento Ma l'esperienza moderna dello sradicamento,
frantumando l'unità monolitica dell'identità di sé e il nesso coattivo
tra riconoscimento e fissità ereditaria della condizione sociale dell'individuo, ha moltiplicato la
conoscibilità di
mondi virtuali per il sé, che si trova a poter vivere a proprio agio anche al di fuori dei confini di
identità ricevuti
per nascita o per censo o per etnia o per cittadinanza, così come può ritrovarsi altresì
straniero in quella che
dovrebbe essere «casa propria», se si dà il caso che l'appartenenza per destinazione (ereditata o
acquisita) non sia
più di suo gradimento. In altre parole, lo sradicamento apre l'esperienza alla moltiplicazione,
rielaborata e non meramente
intercambiabile, di tante identità, di tanti sé plurali coesistenti (più o meno
pacificamente o conflittualmente) nella
stessa singolarità o nella stessa comunità, quante situazioni e stili di vita possiamo
responsabilmente o
casualmente rivestire nell'arco della nostra esistenza. Lo sradicamento sgancia l'appartenenza
moltiplicandola all'infinito virtuale (ed al finito selettivamente esperito).
Così l'effetto benefico di apertura all'ignoto può disporre di tante esperienze, senza appartenere
a nessuna, anzi
la disponibilità alla reciprocità gratuita delle relazioni (il dono in contrapposizione dello
scambio) segnala un altro
modello identitario che non surroga con rinnovate appartenenze la segmentazione e la frammentazione di un
sé
non più unico e unitario. L'individuo singolare è plurale; forse non è così
nomade come potrebbe e dovrebbe
essere, e proprio la sua attuale insufficienza è foriera di tanti problemi urgenti e riemersi dagli anfratti
più oscuri
della storia delle (in)civiltà e delle (in)culture. Replicare allo sradicamento con una forma
orizzontale di esistenza associata significherebbe creare le condizioni
affinché le identità di sé diventino nomadi e reciprocamente aperte e disponibili alla
conoscenza ed alla
riconoscenza, senza necessità di ricorrere a contesti di appartenenza entro cui assumere rigidamente un
ruolo
fazioso e intollerante come è il caso di ogni nazionalismo, tribalismo, etnicismo, ecc., che contengono
in sé
sempre la minaccia estrema del genocidio e dell'intolleranza. Ma per disporsi positivamente allo
sradicamento, occorre non temere l'asservimento, occorre non cedere
all'assoggettamento politico di una organizzazione gerarchica e autoritaria dell'esistenza associata. Se
l'identità di sé si appoggia e si erge su appartenenze, il riconoscimento altrui della propria
identità è una
indiretta conferma della felice posizione assunta nella squadra di appartenenza, che è visibile e
legittimamente
accettata. Il mancato riconoscimento concorre ad una crisi di identità appunto perché incrina
il sentimento di
sicurezza e fa vacillare la verifica qualora l'appartenenza a cui si aderisce singolarmente o come gruppo sia
effettivamente recepita come idoneo vettore identitario di certezza. Far parte è rilassante, e sapere che
altri sanno
è positivo per i confini di sicura stabilità e di aspettative reciproche tra sé e altro. Il
riconoscimento può concernere il singolo individuo od un gruppo specifico entro la comunità.
Solitamente, vi
è una polarità dialettica tra titolarità individuale e titolarità di gruppo ad essere
riconosciuti e garantiti nella
propria sfera di vita. Chi ritiene che la centralità dell'individuo sia suprema, reputa superfluo garantire
e
riconoscere identità di gruppo perché riassorbite nella tipicizzazione individuale. Se ognuno
ha il diritto ad essere
tale senza doversi scusare, a maggior ragione non c'è bisogno di discriminare tra gruppi di individui:
i secondi
assorbono universalmente i primi. A questa posizione liberal-individualista si obietta che, da un lato, la
titolarità spetta formalmente al singolo, ma
dall'altro, l'accesso reale al suo godimento può essere concretamente preclusa al singolo individuo, vuoi
per gli
effettivi rapporti di forza, vuoi per la strutturazione gerarchica della società. Vi sono inoltre alcune
posizioni collettive in una comunità (una minoranza linguistica, una cultura indigena in
via di estinzione, una etnia particolare e distinta dal resto) che rivendicano un riconoscimento ed una tutela alla
propria libertà - di espressione, di associazione, di autoprosecuzione - non perseguibile singolarmente
ma come
gruppo, poiché implica l'intrapresa di misure di riconoscimento attivo (e non solo passivo, come il
semplice riconoscimento) comprendente l'istituzione del plurilinguismo, o di apparati culturali specifici, e via
dicendo.
Torre di babele D'altro canto, la suddivisione di una comunità per
gruppi di riconoscimento identitario rafforza la pressione di
appartenenza, a scapito di quegli individui che non intendono farsi accettare o rivestire una identità di
sé per
riflesso all'appartenenza ad un gruppo, rifiutando così una coazione identitaria come hanno fatto al
censimento
del 1991 quegli abitanti dello spazio ex-jugoslavo in via di disgregazione, i quali hanno respinto l'opzione
prestabilita di identificazione in uno dei nazionalismi ammessi. Inoltre un riconoscimento altrui per
identità di gruppo produce ulteriori discriminazioni a catena, paradossalmente
con effetto controintuitivo di tutela di ogni gruppalità identitaria, potenzialmente interminabile nella
suddivisione
degli elementi: sesso, colore, ceppo linguistico, fede religiosa, censo, ecc.; gli esseri umani vengono
così
riconosciuti non in quanto singolarità uniche e originali, bensì in quanto copie di una matrice
identitaria. Tale
riconoscimento è rigoroso e coerente ma unidimensionato: qualora un soggetto abbia una
identità trasversale ai
gruppi riconosciuti (per non parlare se non vi rientra), vanno in cortocircuito le garanzie che si sovrappongono
avviluppandosi in uno stato di immobilismo paralizzante. Esemplare il caso di una giurisdizione minuziosa
in base al principio di equità del «politically correctness». Se
si dovessero istituzionalizzare le tutele di ogni gruppo riconosciuto, gli intrecci paralizzerebbero la vita «laica»
della comunità nella sua globalità: la domenica sacra per i cristiani, il sabato per gli ebrei, il
lunedì per i
musulmani, il venerdì per ... E l'infibulazione: è violenza, o tradizione da riconoscere anche
fuori i confini della
comunità di origine, comunque da salvaguardare in nome del multiculturalismo? La torre di babele
cela, nei fatti, non un equo relativismo (magari di valori postulati universalmente), ma il
primato totalizzante della effettività sulla rigorosa formalità. In altre parole, tutti sarebbero
riconosciuti
formalmente, ma l'accesso al godimento di taluni diritti sarebbe alla mercé di chi, nel gruppo, è
più avvantaggiato
in termini di sapere, contatti, relazioni, istruzione, tempo disponibile, denaro, ecc. «Tutti gli animali nella
fattoria
sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri»: è la nitida critica di George Orwell al
liberalismo giuridico
formale e non sostanziale. Ciò perché la nostra civiltà giuridica porta a
istituzionalizzare ogni posizione sancita e riconosciuta come
formalmente degna di rispetto. La cristallizzazione del riconoscimento altrui dell'identità di sé
in diritto comporta
un conflitto preliminare sulla titolarità a godere di tale status, e successivamente sulla condizione
più favorevole
di accesso al loro godimento. L'istituzionalizzazione in diritti segue il medesimo modello dell'identità
di
appartenenza: quello proprietario. Così il diritto di proprietà, in quanto
riconoscimento formale di una
appropriazione esclusiva, tutelato sulla punta delle armi (o il ricorso procedurale e rituale a sanzioni difensive
in
caso di lesione), pone una gerarchia tra posizioni singolari ineliminabilmente intollerante. L'intolleranza
si situa, infatti, nel cuore della civiltà giuridica proprio perché la titolarità individuale
di diritti
esclusivi si appropria di beni e risorse disponibili per ciascuno, e dunque per tutti, scatenando una
conflittualità
latente che esplode nell'intolleranza verso l'identità altrui e la chiusura a riccio nella propria. Il diritto
cela un
conflitto immanente di interessi modellati sull'appropriazione esclusiva; l'interesse è la molla alla
conservazione
e prosecuzione dell'identità di sé, la quale, per farsi riconoscere, accetta di trasformarsi, dopo
regolare conflitto
di istanza politica, in posizione privilegiata: il diritto individuale legalmente sancito e tutelato da un apparato
giurisdizionale.
Identità nomade È il privilegio a far scattare la
verticalità gerarchica, distintiva e disuguale, mentre è l'appropriazione a far scattare
l'intolleranza a condividere un bene o una risorsa disponibile per ciascuno. Non esiste alcuna necessità
ontologica
o rarità simbolica che possa giustificare come alibi l'appropriazione esclusiva tutelata gerarchicamente
con
l'introduzione moderna del diritto di titolarità (nato, ricordiamolo, per sottrarre privilegi al sovrano).
Solo la
volontà di dominio (storicamente, dall'aristocrazia di corte alla borghesia mercantile della politica dei
proto-parlamenti) rende intollerante l'accesso orizzontale e reciproco di beni e risorse disponibili quale
l'identità di sé
ed il riconoscimento altrui: non si tratta né di oro giallo né di oro nero. Esse attengono a
sfere simboliche che diventano poste in palio per formazioni di sovranità, che sottraggono dalla
disponibilità beni e risorse di tal genere per convertirli in privilegi gerarchicamente sovraordinati: i
diritti
individuali, esclusivi e selettivi, intolleranti e faziosi, specie in un'era multiculturale in cui, nel villaggio globale,
si confrontano e si affrontano tante sfere di vita ognuna legittimamente degna di rispetto e di dissenso, senza
implicazioni di valore o di convivenza politica. Ciò diventa intolleranza solo se l'organizzazione
gerarchica della società trasforma un riconoscimento culturale
in posizione politica di privilegio, giuridicamente tutelata, violentemente sanzionata e dagli effetti ben precisi
nella vita quotidiana. Un riconoscimento identitario orizzontale e reciproco, senza istituzionalizzazione di sorta,
renderebbe tollerante l'incontro tra differenze perché non pretenderebbe una riduzione ad un codice
assiomatico
(esclusivo e selettivo), che a sua volta si crede prioritario, senza poter ammettere analoga gerarchia culturale
in
altre organizzazioni differenti, ma profondamente affini quanto a logica di formazione e funzionamento (gli
integralismi religiosi o nazionalisti sono simili al di là delle specifiche differenze culturali).
L'istituzionalizzazione gerarchica di privilegi di appropriazione informa l'intima struttura organizzativa
della
civiltà giuridica, che non a caso ha inventato il potere politico degli stati. Essa è madre di ogni
conflittualità
intollerante che, nel perseguimento del proprio interesse, dissimulato in quello generale una volta integrato nel
codice assiomatico universalmente vincolante, smarrisce il senso di ogni libera associazione orizzontale che fa
della reciprocità il perno della convivenza di differenze, le quali transitano mobilmente attraverso varie
e fungibili
sfere identitarie, facendosi accettare per essere «singolarità senza qualità», senza appartenenze
se non quelle
puntuali a un sé nomade e plurale, che non rivendica alcuna appropriazione, tantomeno stabile,
definitiva e
giuridicamente tutelata, ma solo l'accesso di fatto a disponibilità paritarie, così identità
come beni e risorse. Viene pertanto a capovolgersi l'egemone modello mercantile, secondo il quale il
trattamento subito dal
riconoscimento identitario è affine al trattamento subito dai beni materiali e dalle risorse simboliche
come merci,
cioè sottoposti a rarità di godimento in base all'istituzione del privilegio gerarchicamente
ordinato intorno
all'accesso al «mercato», in cui l'equivalenza egualitaria è data dal potere di acquisto di un codice
esclusivo e
selettivo: il denaro come moneta di scambio diseguale. L'identità nomade riconosce, invece, altre
identità senza bisogno di cristallizzarsi socialmente (e sedentariamente)
in configurazioni associative gerarchiche. L'alea degli incontri viene lasciata all'unicità di tale evento,
che può
anche tipicizzarsi violentemente, così come può individuarsi quale dono reciproco e gratuito
di sé, su un
medesimo piano orizzontale in cui si dispongono differenti sé senza privilegi di sorta. Ma questa
è l'utopia del deserto sulla cui superficie ondulata convivono culture, civiltà e identità
non assoggettate
alla produzione di deserto operata da una civiltà del capitale e del dominio politico, portata alle estreme
conseguenze tecniche e simboliche: lo sterminio come approssimazione alla fine delle libertà
virtualmente
proliferabili, al termine di ogni orizzonte utopico.
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