Rivista Anarchica Online
Socialismo liberale o socialismo libertario?
di Giampiero Landi
Francesco Saverio Merlino (1856-1930) è una delle figure più critiche e stimolanti nella storia
del movimento
e del pensiero libertario. Militante anarchico in gioventù, maturò successivamente una critica
dell'anarchismo che
lo portò all'abbandono del movimento. Avvicinatosi ai filoni riformisti, non vi si identificò
mantenendo una sua
forte autonomia di pensiero e di giudizio. Può legittimamente essere considerato il precursore di quel
«socialismo
liberale» sviluppato poi da Carlo Rosselli. È recentemente uscita una poderosa biografia di Merlino,
firmata da
Giampietro («Nico») Berti, ricercatore di Storia del Risorgimento all'Università di Padova e -
soprattutto negli
anni '70 - assiduo collaboratore della nostra rivista. In queste pagine Giampiero Landi, responsabile
dell'Archivio
«A. Borghi» di Castelbolognese, presenta questa biografia e ne discute molte delle tesi interpretative.
Chi mi conosce sa che da diversi anni nella mia formazione culturale e politica,
nel mio modo di osservare e di
giudicare la realtà e di prospettare soluzioni per risolvere i problemi della società, un posto di
assoluto rilievo
spetta al pensiero di Francesco Saverio Merlino. Non di rado, nel passato anche recente, mi è capitato
di definirmi
«anarchico merliniano», proprio a sottolineare la centralità che il pensatore napoletano ha assunto tra
i referenti
culturali essenziali sui quali si fonda il mio approccio alla realtà sociale. Si può capire quindi
con quale
impazienza abbia atteso - e con quale interesse abbia poi letto - il recente libro di Giampietro («Nico») Berti,
Francesco Saverio Merlino. Dall'anarchismo al socialismo liberale (1856-1930) (Milano, Franco
Angeli, 1993,
p. 428, L.55.000). Dirò subito che il libro di Berti - di cui ho potuto seguire in parte la
preparazione, leggendo in anticipo alcuni
capitoli delle bozze di stampa - ha corrisposto in gran parte alle mie aspettative. Debbo però aggiungere
che su
alcuni aspetti del volume, e su alcune interpretazioni dell'autore, nutro qualche riserva e perplessità, di
cui intendo
qui rendere conto. Mi è sembrato necessario partire da questa premessa per chiarire
immediatamente al lettore che questo mio
intervento si colloca in uno spazio che trascende i limiti di una comune recensione di un libro, sia pure ritenuto
importante. Almeno per quanto mi riguarda, in gioco ci sono le questioni decisive di una politica e di
un'economia
socialista. Detto in altri termini, affrontare il pensiero teorico di Merlino vuol dire per me riflettere sulle forme
che può assumere una ipotetica società futura in cui trovino effettiva realizzazione i principi
di libertà e di
giustizia sociale, e vuol dire riflettere sulla strategia per arrivare a realizzare queste forme. Il libro di Berti
non si sottrae al confronto su questi temi assolutamente decisivi, ma non sempre le affermazioni
e le interpretazioni dell'autore appaiono ai miei occhi convincenti e condivisibili. Prima di affrontare i temi sui
quali nutro perplessità, mi sembra doveroso però soffermarmi su alcuni tra i numerosi pregi del
volume.
Un libro importante Scopo dichiarato di Berti è quello di ricostruire,
in una monografia completa, «il cammino biografico e teorico
di Merlino, il suo complesso e combattuto passaggio dall'anarchismo al socialismo, dal rivoluzionario al
riformismo; l'abbandono del punto di partenza iniziale per tentare di rifondarlo ad un livello più alto,
problematico
e coerente». L'obiettivo di Berti si può considerare brillantemente raggiunto, e l'opera si segnala sia per
il rigore
metodologico che per la ricchezza dei temi affrontati. Berti segue le tracce di Merlino, per un ventennio
protagonista di primo piano dell'anarchismo rivoluzionario, in decine di archivi italiani ed europei, e ne
ricostruisce - sulla base degli scritti e delle numerose polemiche in cui restò coinvolto - le idee nel loro
farsi e nel
loro divenire. Colpisce nel volume anzitutto la notevole ricchezza delle fonti documentarie utilizzate, che
è tale
da fare ritenere improbabile che in un prossimo futuro - sul piano della ricostruzione degli avvenimenti
biografici
- l'apparizione di nuovi documenti inediti possa rendere necessarie correzioni o integrazioni di rilievo. In questo
senso, e prescindendo quindi dagli aspetti interpretativi e dai giudizi di valore, si potrebbe parlare di una
biografia
definitiva (nella misura in cui può essere definitiva un'opera storiografica). Berti procede in modo
analitico, parafrasando quasi gli scritti del socialista napoletano, e spesso lasciando parlare
lo stesso Merlino mediante un ampio uso di citazioni dalle sue opere. Sicuramente pregevole è anche
lo sforzo
interpretativo dell'autore, che dà l'impressione di muoversi con disinvoltura nell'ampia e aggiornata
bibliografia,
confrontandosi con i risultati più avanzati della ricerca nei diversi settori delle scienze umane
(aldilà degli aspetti
più propriamente storiografici, una personalità come quella di Merlino impone al biografico
di misurarsi
inevitabilmente con argomenti, talvolta complessi, di filosofia, di diritto, di economia e di sociologia). In
conclusione, si può affermare che si tratta di un'opera importante di notevole valore, la prima vera e
completa
biografia di Merlino condotta a termine con criteri scientifici, un contributo di rilevante spessore alla storia del
movimento operaio e socialista e alla storia del pensiero politico.
La critica del marxismo Particolarmente importanti sono i capitoli dedicati
alla ricostruzione della critica di Merlino a Marx e alla
socialdemocrazia tedesca. Berti rivendica a ragione a Merlino il merito di essere stato in assoluto il primo critico
socialista del marxismo in Europa, «dieci anni prima di Bernstein». Sulla traccia degli studi pionieristici di Pier
Carlo Masini e di Aldo Venturini, Berti documenta in modo che definirei inoppugnabile come proprio a Merlino
spetti il ruolo di precursore nella «crisi del marxismo» di fine secolo, e soprattutto mette in evidenza come il
pensatore napoletano non debba essere considerato in senso stretto un revisionista (perché, riprendendo
una
definizione di Domenico Settembrini, «il revisionismo si definisce unicamente in rapporto al marxismo»)
bensì
un critico del marxismo, avendo operato nei confronti di questo una netta rottura. Per Berti, l'importanza di
Merlino non consiste nell'intrinseco valore teorico o filosofico della sua critica, in quanto la sua analisi del
pensiero di Marx non ha una forza analitica penetrativa pari a quella di diversi suoi contemporanei (Antonio
e
Arturo Labriola, Benedetto Croce, Georges Sorel, Eduard Bernstein, Antonio Graziadei, Enrico Leone), che tutti
dal punto di vista strettamente speculativo lo avrebbero superato nella loro ricostruzione interna delle pieghe
molteplici e delle sfumature complesse del pensiero marxiano. Merlino tuttavia, e qui si va al nocciolo del
problema e si coglie la sua decisiva importanza, sarebbe «l'unico
socialista di quegli anni ad anticipare in modo insuperabile gli esiti necessariamente totalitari della teoria
marxista». Meglio di qualsiasi altro egli «individua i nessi interdipendenti fra la dottrina e la sua
possibile
applicazione». Egli dimostrerebbe che «per realizzarsi il marxismo può solo sviluppare un regime
dittatoriale e
totalitario», e arriverebbe a questa lucida conclusione, puntualmente confermata dalla storia, ricavandola proprio
dall'analisi della teoria marxiana, non solo dal Marx «politico» (su questo piano gli anarchici, da tempo,
avevano
già detto tutto quanto era necessario), ma soprattutto dal Marx «economico», dal Marx del
Capitale. La battaglia revisionista che Merlino condusse alla fine del secolo scorso, e lo
scontro con gli interpreti
dell'ortodossia marxista - a cominciare da Antonio Labriola -, sono la testimonianza per Berti di un «difficile
e
sofferto tentativo di laicizzare il pensiero socialista, al fine di liberarlo dalle mitologie rivoluzionarie e
utopistiche». Un altro aspetto a cui personalmente annetto grande importanza è anche la
riproposizione, nel libro di Berti, della
critica merliniana all'individualismo da un lato e al comunismo anarchico di Kropotkin dall'altro. Per quanto
mi
riguarda, il giorno in cui gli anarchici si decideranno finalmente a fare i conti seriamente con le critiche di
Merlino
e la smetteranno di definirsi comunisti, arriverà sempre troppo tardi.
Una ricostruzione squilibrata Berti ha il merito di avere riproposto alla nostra
attenzione - restituendocela in tutta la sua integrità - una figura
di militante e di teorico che per lungo tempo nella storiografia e nella cultura italiana è stata oggetto
di una
singolare «sfortuna», se non di una autentica rimozione. Il libro di Berti rende finalmente giustizia in sede
storiografica a Merlino, a cui difficilmente d'ora in poi potrà essere negato quel posto di primo piano
che gli spetta
tra i maggiori pensatori del socialismo italiano. Tuttavia - e qui passo a trattare i punti sui quali nutro
perplessità -
alcuni aspetti del volume si prestano a rilievi critici. Anzitutto, la stessa struttura del libro presenta un certo
squilibro tra le parti relative ai diversi periodi della vita
e dell'attività di Merlino: a una ricostruzione fin troppo analitica e dettagliata del giovanile periodo
anarchico
corrisponde una frettolosa ed eccessivamente sintetica presentazione degli scritti degli anni che precedono la
morte. Berti ricostruisce in modo estremamente accurato la prima fase della biografia politica e intellettuale
di Merlino,
esponente di primo piano per circa vent'anni dell'anarchismo rivoluzionario italiano e internazionale, seguendolo
passo per passo nella sua attività instancabile di militante e di teorico. Questa ricostruzione della fase
anarchica
di Merlino è preziosa per lo storico, e Berti ha il merito di colmare lacune presenti nella
documentazione finora
disponibile e di fare chiarezza su alcuni aspetti controversi della biografia merliniana. Non si può
tuttavia rilevare
come questa parte del volume, con la riproposizione minuziosa di scritti giovanili di Merlino, spesso
inevitabilmente poco originali o ripetitivi quando si tratti di articoli e opuscoli di carattere propagandistico e
divulgativo, appaia eccessivamente dilatata se messa a confronto con le parti successive. In questa minuziosa
ricostruzione rischiano oltretutto di perdersi e di annullarsi quegli scritti merliniani - che pure ci sono - dotati
di
una autonomia e di una originalità di pensiero che preludono alle opere della maturità. In
particolare, a me sembra
che Berti non segnali e non valorizzi in modo adeguato l'emergere, nella seconda fase del periodo anarchico di
Merlino (che si può fare iniziare con la pubblicazione di Socialismo o
Monopolismo? nel 1887), di un pensiero
critico originale che porterà il militante napoletano a differenziarsi sempre più dalle tendenze
prevalenti all'interno
del movimento. Mosso da un'esigenza di rigore e di concretezza nell'approccio alla questione sociale, animato
da una visione costruttiva e realizzatrice dell'anarchismo che lo spingeva a porre l'accento soprattutto sugli
aspetti
positivi del programma e a manifestare un'attenzione costante ai problemi organizzativi della società
futura,
Merlino non poteva non provare insoddisfazione e insofferenza nei riguardi delle formulazioni vaghe e
generiche
diffuse all'epoca nel movimento e di cui la maggior parte dei suoi compagni si accontentava. Di qui la critica
sempre più serrata alle tendenze individualistiche e antiorganizzatrici da un lato, e alla concezione
comunista
anarchica di Kropotkin dall'altro, che troveranno espressione soprattutto negli importanti opuscoli
Necessità e basi
di un accordo (1892) e L'Individualismo nell'anarchismo (1893). Merlino in queste opere
si colloca ancora
integralmente all'interno dell'anarchismo rivoluzionario, ma il suo è ormai un anarchismo critico che
rifugge dalle
semplicistiche risposte ai problemi della ricostruzione sociale, ed è alla ricerca di soluzioni praticabili
fondate
su un'analisi realistica della natura umana e delle leggi che reggono la società. Berti si sofferma
ovviamente su
questi aspetti, ma la sua calibrata analisi incentrata sugli scritti merliniani e tesa costantemente a discernere in
essi
ciò che il biografo ritiene corretto da ciò che ritiene errato, mi sembra che non sempre riesca
a dare al lettore una
chiara percezione della assoluta novità e originalità delle posizioni teoriche che Merlino andava
assumendo in
quegli anni, all'interno del movimento anarchico rivoluzionario internazionale. Sempre riguardo questa
prima parte del volume, mi sembra anche che Berti assuma un atteggiamento
eccessivamente duro e liquidatorio nei confronti dell'esperienza storica dell'insurrezionalismo anarchico nei
decenni di fine Ottocento e inizio Novecento. Evidenziare i limiti e le carenze dell'insurrezionalismo (e
più in
generale del «sovversivismo» di molta parte della sinistra italiana in quegli anni) può risultare oggi un
esercizio
fin troppo facile e scontato, ma nell'affrontare questi argomenti sarebbe compito dello storico rendere conto
anche
delle ragioni serie e profonde della protesta sociale e politica nell'Italia post-unitaria, prescindendo dalle quali
ogni
ricostruzione non può non peccare di astrattezza. Uno spazio sicuramente adeguato è
riservato da Berti al periodo centrale della vita di Merlino, di svolta e di
elaborazione di un pensiero completamente autonomo, che dalla critica parallela dell'anarchismo e del marxismo
approda negli anni di fine secolo a una nuova e originale concezione del socialismo. Berti si sofferma a lungo,
giustamente, sulla polemica del 1897 con Malatesta che segna il distacco definitivo di Merlino dal movimento
anarchico. Altri capitoli sono dedicati a una analisi approfondita dei volumi Pro e contro il Socialismo
(1897),
L'Utopia collettivista e la crisi del «socialismo scientifico» (1898), Formes et essence du
socialisme (1898), e
dell'importante «Rivista Critica del Socialismo», che Merlino farà uscire per tutto il 1899. Come
è noto, la battaglia di Merlino all'interno del partito socialista, al quale aveva aderito alla fine del 1899,
si
esaurì nell'arco di pochi anni ed egli, preso atto del proprio isolamento e dell'incomprensione di cui
erano oggetto
le sue idee, si ritirò ben presto a vita privata. Ritornò all'impegno politico e all'elaborazione
teorica nei suoi ultimi
anni, nel periodo convulso del primo dopoguerra, nel clima di lotte sociali e politiche del «biennio rosso» e del
successivo avvento del fascismo. È questa la fase conclusiva e certo più matura
dell'elaborazione teorica di
Merlino, caratterizzata da opere importanti e significative, ma stranamente questo periodo è trattato da
Berti in
modo frettoloso e fin troppo sintetico. Sembra di capire che per Berti, con Pro e contro il
Socialismo e con il
contributo decisivo alla crisi del marxismo di fine secolo, Merlino abbia raggiunto il punto più alto della
propria
parabola intellettuale e abbia delineato tutti gli aspetti fondamentali della sua peculiare concezione del
socialismo,
per cui tutte le opere successive non potranno essere che una rielaborazione e un approfondimento di temi
già sviluppati nell'opera maggiore, senza sostanziali novità di qualche rilievo. Solo questo
può spiegare la sorprendente
sottovalutazione del periodo conclusivo della vita del pensatore napoletano, alla cui ricostruzione Berti dedica
solo 23 pagine sulle complessive 415 del libro. Eppure si tratta di un periodo fecondo sul piano intellettuale,
nel
corso del quale Merlino scrive opere di notevole interesse, tra cui gli opuscoli Fascismo e democrazia
(1924) e
Politica e magistratura dal 1860 ad oggi in Italia (1925). Soprattutto, sono gli anni in cui Merlino
si accinge alla
stesura di un'opera teorica di notevole impegno, che verrà pubblicata postuma solo nel 1948 presso
l'editore
Longanesi a cura di Aldo Venturini (a cui va il merito di avere raccolto e curato con grande competenza il
manoscritto) con il titolo I1 problema economico e politico del socialismo. Di questo libro
importante e sotto
diversi profili originale, che può essere considerato il testamento spirituale di Merlino, il documento
che sintetizza
l'approdo di una intera vita di riflessione e di inquieta ricerca, Berti sembra cogliere come novità solo
l'aspetto
relativistico, che per quanto significativo non è esaustivo delle problematiche affrontate. Maggior spazio
avrebbe
meritato perlomeno l'analisi critica cui Merlino sottopone l'economia collettivistica e il piano unico di
produzione
e di scambio, caposaldo teorico della socialdemocrazia tedesca che, proprio negli anni in cui Merlino scriveva
la sua ultima opera, stava trovando una sostanziale realizzazione storica a opera dei bolscevichi in Russia, dopo
la loro conquista del potere. Confutando l'opuscolo di Bucharin, L'ABC del comunismo, Merlino
si riallaccia alle
critiche che sul piano strettamente teorico egli aveva già avanzato con le sue opere del 1897/98,
Pro e contro il
Socialismo e L'utopia collettivista, e ha buon gioco nel dimostrare come la matrice del
collettivismo burocratico
instaurato dai bolscevichi in Russia sia da rintracciare nella socialdemocrazia tedesca, e in particolare nel libro
di August Bebel, La donna e il socialismo, che aveva avuto un'enorme fortuna nel socialismo
europeo.
Uno schema interpretativo moderato Un altro aspetto interessante di
quest'ultimo periodo della vita di Merlino è rappresentato dal fatto che il suo
ritorno alla politica attiva, con gli scritti e con la sua generosa e coraggiosa attività di avvocato difensore
dei
militanti della sinistra in numerosi processi, coincide con un suo riavvicinamento al movimento anarchico (un
riavvicinamento che non significa però né una completa adesione né un ritorno alla fede
della sua giovinezza).
Buona parte degli scritti merliniani del primo dopoguerra, non a caso, trovarono ospitalità sulle riviste
e sui
giornali anarchici dell'epoca (Pagine Libertarie, Pensiero e Volontà, Umanità Nova).
Riprendeva in quegli scritti,
dopo una lunga parentesi e allargandosi anche a Luigi Fabbri e ad altri esponenti dell'anarchismo, la vecchia
polemica con Malatesta. Ne uscivano alcune pagine di grande acutezza e lucidità, che aggiunte ai
documenti
relativi alla polemica del 1897, costituiscono ancora oggi uno dei punti più alti di riflessione sul nodo
democrazia-socialismo-anarchismo. Si vedano, in particolare, le lettere di Merlino a Fabbri, da quest'ultimo
pubblicate su
«Pensiero e Volontà» col titolo Stato e non-Stato (1 Luglio 1926) e Ancora Stato
e non-Stato (25 Agosto 1926)
(ora riprodotte in Appendice a F. S. Merlino, I1 socialismo senza Marx, a c. di
Venturini, Bologna, Boni, 1974,
pp. 623-626). Stupisce la frettolosità di Berti nei confronti di questi e di altri importanti scritti
merliniani del periodo, liquidati
a volte in poche righe o semplicemente citati nelle note del libro. Più in generale, nelle pagine
conclusive del suo
volume Berti sembra in difficoltà di fronte alla necessità di rendere conto al lettore del
perché, riprendendo a
occuparsi di politica nei suoi ultimi anni, Merlino trovi proprio negli anarchici i suoi interlocutori preferenziali,
pur senza rinunciare a sottolineare la distanza che lo separa da essi su alcune questioni essenziali. Agli occhi
di
Berti - che considera il Merlino della maturità un riformista - questa appare come una incongruenza,
spiegabile
solo con le contraddizioni interne al pensiero merliniano, che si dibatterebbe fino all'ultimo tra un sostanziale
e
prevalente realismo e la ricorrente tentazione della fuga nell'utopia. Secondo Berti, alcune prese di posizione
di
Merlino in quegli anni dimostrerebbero come anche lui, per quanto «sicuramente immune da atteggiamenti
irresponsabili e demagogici, non sia capace di sottrarsi al rivoluzionarismo del primo dopoguerra nato sulla scia
della rivoluzione bolscevica; e ciò nonostante egli fosse stato tra i primi a criticare la pratica totalitaria
del comunismo russo». Il fatto è - e qui andiamo al nocciolo del problema e al cuore della mia
critica a Berti - che in tutto il libro prevale
un'interpretazione moderata del pensiero merliniano della maturità, che si rivela incapace di cogliere
la sua
irriducibile radicalità. Lo schema interpretativo sul quale si regge tutta l'analisi di Berti è
trasparente. Per Berti
o si è rivoluzionari o si è riformisti. O si è anarchici o si è liberaldemocratici
(escludendo in partenza, come è
ovvio, che Merlino possa diventare un comunista autoritario). Tertium non datur. Nel momento
in cui Merlino,
con la polemica del 1897 con Malatesta, abbandona l'anarchismo, il suo approdo non può essere altro
che quello
del riformismo e della liberaldemocrazia, sia pure nella sua variante socialista liberale. Basandosi su questo
paradigma interpretativo, è ovvio che per Berti i tentativi di Merlino di salvare negli anni della
maturità le ragioni
profonde e i valori essenziali del suo giovanile anarchismo, conciliando tali valori con le sue acquisizioni
teoretiche, siano solo il frutto di una generosa e umanamente comprensibile illusione, e siano destinati
fatalmente
al fallimento. Berti, in certi momenti del libro, sembra anzi spazientirsi di fronte a certe affermazioni di Merlino
che egli considera alla stregua di ritorni all'indietro nell'ideologia e nell'utopia. Sembra di capire che per Berti
sarebbe più logico che il suo biografato la facesse finita con quelle che ai suoi occhi non sono altro che
contraddizioni e immaturità, e arrivasse in fretta a quello che egli considera lo sbocco inevitabile del
processo di
revisione teorica merliniano, cioè alla accettazione piena e conseguente dei principi liberaldemocratici.
Riforme e rivoluzione Ora, a mio avviso, il fascino l'interesse e
l'attualità di Merlino derivano invece proprio dal fatto che egli tra i primi
ha cercato, con notevole successo, una terza via nella direzione di una anarchia possibile. Privare
Merlino della
sua radicalità, della sua incessante tensione alla trasformazione dell'esistente, vuol dire sottrargli gran
parte della
sua originalità e della sua importanza. Ciò che rende ancor oggi utile e necessario il misurarsi
con il suo pensiero
è il fatto che egli mette a fuoco con estrema lucidità i problemi economici e politici di una
società socialista,
delinea in modo convincente le forme che dovrebbe assumere una tale società, e fornisce un contributo
essenziale
alla ricerca di una strategia per realizzare queste forme. Bisogna prendere Merlino sul serio quando, negli
anni della sua maturità, si definisce «riformista rivoluzionario»:
«Se dovessi nominarmi o classificarmi, mi direi riformista rivoluzionario: riformista
perché ritengo che bisogna
battere la via delle riforme trasformatrici dell'attuale ordinamento sociale: rivoluzionario, perché ritengo
che la
lotta per le riforme dev'essere combattuta non da un gruppetto parlamentare, ma direttamente dalle classi
popolari,
e con tutti i mezzi, nessuno escluso» (F. S. Merlino, Lettera a Enrico Ferri, «Avanti», 16 settembre
1906). Per Berti, con questa dichiarazione Merlino «ricadeva nel più completo confusionismo
terminologico e
concettuale». L'incapacità di Berti di cogliere la fecondità e l'originalità del
«riformismo rivoluzionario» di
Merlino deriva dalla concezione che Berti ha della rivoluzione. Per Berti (come già per Domenico
Settembrini
a cui egli si riallaccia esplicitamente) «la discriminante tra riformismo e rivoluzionarismo
non è data dal criterio
del mezzo, ma dall'obiettivo del fine». Detto altrimenti, «il crinale che divideva e divide» il
rivoluzionarismo dal
riformismo, consiste nel fatto che «il primo non accettava e non accetta il capitalismo e la democrazia liberale,
mentre il secondo ammetteva e ammette la possibilità della loro riforma». Per Berti, essere
rivoluzionario
significa credere «alla possibilità di un rovesciamento totale dell'esistente e alla costruzione ab
imis della società
futura». Nel momento in cui si abbandona questa visione palingenetica della società futura, vista come
il «totalmente altro» rispetto alla società esistente, si smette di essere rivoluzionari e si diventa
riformisti. Se Berti avesse ragione - dato che ogni società, anche la più ingiusta e
irrazionale, ha sempre qualcosa di buono,
e in ogni caso è difficile immaginare che gli esseri umani modifichino di colpo e radicalmente
proprio tutte le
loro condizioni di esistenza e la loro mentalità -, la rivoluzione non sarebbe né possibile
né auspicabile, e tanto
varrebbe relegarla tra le assurdità della storia (1). Il paradigma interpretativo di Berti, nella sua
schematica assolutezza, non può rendere giustizia al «riformismo
rivoluzionario» di Merlino. Il fatto è che Merlino, pur perdendo a un certo punto le illusioni giovanili
sulla
prossima inevitabile insurrezione che avrebbe scosso dalle fondamenta la società e l'avrebbe rifondata
su basi
completamente diverse, non cessa per tutta la vita di lottare per una profonda e radicale trasformazione sociale.
Proprio questa incessante tensione a una società di tipo nuovo e diverso, unita alla sua proposta di una
strategia
di lotta più realistica e originale, rende il suo pensiero irriducibile a un'interpretazione di tipo puramente
riformista. Merlino, sulla scorta anche della critica che si diffonde alla fine dell'Ottocento nei riguardi della
teoria
marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto e della correlata inarrestabile proletarizzazione dei ceti
intermedi - una teoria palesemente e clamorosamente smentita dai fatti - arriva a rifiutare ogni concezione
catastrofica e palingenetica della rivoluzione, senza per questo eliminare la rivoluzione stessa dal proprio
orizzonte concettuale. La società socialista, al Merlino della maturità, appare come un
prolungamento della società
presente, e non il suo rovesciamento. Egli ritiene che già nella società presente sia possibile e
doveroso inserire
elementi di socialismo, attraverso un vasto movimento di riforme dal basso, che ne mutino gradatamente la
natura
e la qualità fino a che l'essenza del socialismo stesso (non si insisterà mai abbastanza sulla
centralità che nel
pensiero merliniano ha la distinzione tra «forme» e «essenza» del socialismo) non informi definitivamente i
rapporti sociali. La rivoluzione, in questo processo, resta sullo sfondo ma non viene negata, e se per essa si
intende
una radicale trasformazione dell'esistente, viene a identificarsi con il vasto e organico movimento di riforme
propugnato da Merlino, che deve investire tutti i campi della vita civile, politica ed economica. Merlino non
esclude neppure il ricorso all'insurrezione, e lo ritiene anzi pressoché inevitabile al termine del processo
di
trasformazione sociale: l'insurrezione rappresenta una fase attraverso la quale sarà quasi certamente
necessario
passare, allorché la cosciente pressione riformatrice si scontrerà con la resistenza opposta dalle
forze della vecchia
società che non vorranno o non potranno arrivare a concessioni maggiori, che significherebbero la loro
scomparsa. Per realizzare il processo di trasformazione gradualista della società, Merlino propone
un'alleanza tra la classe
operaia e i ceti medi contro la ristretta cerchia degli effettivi detentori del capitale e del potere. Il socialismo
è
visto non come il trionfo di una classe sulle altre, ma come il prevalere dell'interesse generale sugli interessi
particolari. Esso è lo sbocco comune e il risultato degli sforzi dei movimenti progressivi di tutte le
classi. Il
socialismo - per Merlino come già per Proudhon - non è altro che l'affermazione dell'idea di
giustizia nei rapporti
sociali. Per Merlino, il principio della lotta di classe non va eliminato, ma va assunto in modo esclusivo e va
integrato nella teoria socialista con il principio dell'interesse generale, che deve essere prevalente e che
comporta
anche la solidarietà delle classi. Come già si è accennato, per Merlino il movimento
riformatore deve investire
tutti i settori. Esso deve trovare una rispondenza anche nelle istituzioni, permeandole e trasformandole al pari
della società civile. Di qui l'accettazione, da parte di Merlino, delle elezioni e del parlamentarismo.
Deve essere
chiaro però che per Merlino il baricentro del movimento riformatore, che parte dal basso, deve
continuare ad
essere nella società, pena il suo snaturamento e il suo progressivo recupero da parte del «sistema» (da
qui, negli
anni della militanza di Merlino nel partito socialista, la sua polemica con il riformismo ministerialista di Turati).
Per inciso, il «riformismo rivoluzionario» di Merlino esercitò probabilmente qualche influenza sulla
elaborazione
da parte di Malatesta, negli anni conclusivi della sua vita, di quella concezione del «gradualismo
rivoluzionario»
che segnava il superamento del precedente insurrezionalismo. L'unica differenza di rilievo, non di poco conto,
consiste nel fatto che il «gradualismo rivoluzionario» malatestiano rimarrà sempre rigorosamente
antiistituzionale. Le argomentazioni di Merlino, nel delineare il rapporto riforme-rivoluzione, sono spesso
di grande finezza. Certo,
non si può pretendere di trovare nelle sue pagine le risposte a tutti i problemi posti dalla lotta politica
e dalla
trasformazione della società. Egli tuttavia fornisce contributi e stimoli di grande rilievo, e soprattutto
indica il
terreno sul quale questi problemi possono trovare una soluzione razionale. In questo senso, Merlino è
uno dei
pochi pensatori della sua epoca ancora attuali, a cui i libertari possono fare utilmente riferimento per
l'elaborazione di una strategia valida per il presente.
Socialismo liberale e socialismo libertario Anche alla luce delle
considerazioni finora svolte sul rapporto riforme-rivoluzione, mi sembra che possa essere
accolta solo con molte cautele una delle tesi di fondo del volume di Berti, secondo cui va attribuito a Merlino
il
merito di essere stato, sulla scia di Proudhon e molto prima di Carlo Rosselli, «il primo vero iniziatore di quella
corrente di pensiero che va sotto il nome di socialismo liberale». Questa tesi per la verità
non è del tutto nuova,
essendo stata già avanzata alcuni anni in un suo saggio da Aldo Venturini, il maggior discepolo e
studioso del
pensiero merliniano in questo secondo dopoguerra, al cui nome il libro di Berti è opportunamente
dedicato (2). In tempi diversi, opinioni analoghe sono state espresse anche da Pier Carlo Masini e da Nicola
Tranfaglia. In
particolare quest'ultimo, nella voce «Liberalsocialismo» da lui curata per il Dizionario di politica
della UTET,
rileva che «accenti e motivi liberalsocialisti si trovano in una serie di movimenti e correnti diverse tra loro,
caratterizzati in via principale da altre intuizioni, e non è quindi lecito rifarsi ad essi nel momento in
cui si vuol
delineare il nucleo dell'ideologia liberalsocialista. Così piuttosto che ai fabiani o a Bernstein e in genere
a tutto
il revisionismo europeo agli inizi del Novecento, sarà utile far riferimento preciso a quei teorici che di
L. o
socialismo liberale hanno parlato esplicitamente facendone il centro della propria speculazione. E, da questo
punto
di vista, il filo rosso corre dall'inglese L. T. Hobhouse all'italiano Saverio Francesco Merlino e poi ancora, in
epoca più recente, da Carlo Rosselli a Guido Calogero e agli altri teorici del movimento liberalsocialista
degli anni
Trenta e Quaranta» (3). Nonostante questi autorevoli avalli, a me sembra che l'attribuzione a Merlino da
parte di Berti del ruolo di
precursore del socialismo liberale rappresenti una forzatura. Intanto è chiaro che, anche accettando per
valida
questa tesi, si tratterebbe esclusivamente di un primato sul piano della formulazione teorica di alcuni
princìpi
basilari, in quanto è indiscutibile che sul piano storico una corrente politica che si richiama ai valori
del
socialismo liberale sia nata solo negli anni Trenta su ispirazione di Carlo Rosselli. Come è noto,
Rosselli scrisse
la sua opera teorica principale, intitolata appunto Socialismo liberale, nel 1929 mentre si trovava
al confine a
Lipari. L'opera fu pubblicata per la prima volta l'anno successivo a Parigi, in versione francese, dopo la
leggendaria fuga di Rosselli dall'Italia fascista, e divenne ben presto il referente teorico essenziale del nuovo
movimento di «Giustizia e Libertà», la prima corrente politica organizzata a ispirarsi esplicitamente
al
liberalsocialismo. Precisato questo, si deve anche osservare che, aldilà di certe somiglianze tra alcune
affermazioni di Merlino e di Rosselli, che oggi possono risultare suggestive, le origini culturali del fondatore
di
«Giustizia e Libertà» vanno ricercate altrove. È dubbio che Rosselli conoscesse per averla letta
l'opera di Merlino.
Il nome di Merlino, in Socialismo liberale, non compare mai. Nei tre volumi degli Scritti
politici di Rosselli, pubblicati dalla casa editrice Einaudi, il nome di Merlino compare una volta sola,
in un elenco dei revisionisti del
marxismo di fine secolo «di destra e di sinistra», a fianco dei nomi di Pareto, Croce, Labriola, Bernstein, Turati,
Mondolfo, Leone, Sorel (C. Rosselli, La crisi intellettuale del partito socialista, «Critica sociale»,
1-15 novembre
1923, ora riprodotto in C. Rosselli, Socialismo liberale e altri scritti, a c. di John Rosselli, Torino,
Einaudi, 1973,
p. 85). Troppo poco per concludere che Rosselli avesse letto sul serio Merlino, e a maggior ragione per ritenere
che ne fosse stato influenzato. E' ovvio che l'apparizione di nuove fonti potrebbe modificare in tutto o in parte
questo giudizio. Allo stato attuale delle conoscenze, basandomi sulle fonti finora edite, mi sentirei tuttavia di
escludere che una influenza diretta di Merlino su Rosselli ci sia stata. Sgombrato il campo sul piano della diretta
filiazione storica, resta da discutere se la formula adottata da Berti, e ripresa anche nel titolo del suo libro, sia
la
più adatta per sintetizzare il pensiero teorico di Merlino negli anni della sua maturità. Il fatto
è, che non è certo
illegittimo individuare in Merlino alcuni spunti liberalsocialisti (e potrebbe essere agevole per chiunque
estrapolare dai suoi scritti delle citazioni che si prestino a questa interpretazione), il pensiero merliniano
è
caratterizzato da una radicalità di fondo che lo rende comunque irriducibile a questa e ad altre
definizioni che sono
state tentate nei suoi riguardi nel passato. Del resto, che una certa cautela sia necessaria, sembra rendersene
conto
lo stesso Berti, che subito dopo avere appunto attribuito a Merlino il ruolo di precursore in Italia del socialismo
liberale, si preoccupa di aggiungere che «non si tratta, beninteso, di una identificazione totale perché
la sua idea
fondamentale, secondo la quale esiste e deve esistere una sostanziale differenza pratica e teorica fra l'essenza
del
socialismo e i sistemi socialisti, apre un ventaglio ampio di interpretazioni che domandano di
essere vagliate onde
delineare la sua particolarissima vicenda storica e umana, effettivamente refrattaria e irriducibile ad ogni
schematizzazione» . Anziché di «socialismo liberale», nel caso di Merlino a mio avviso sarebbe
più corretto e opportuno parlare di
«socialismo libertario» (che era poi la definizione che egli stesso si attribuiva), A questo punto è
necessario fare
uno sforzo per cercare di delineare il più possibile chiaramente le caratteristiche e i confini che
intercorrono tra
queste due correnti politiche e ideali, che peraltro si presentano affini sotto diversi profili (e proprio da queste
affinità e somiglianze, dal fatto cioè di collocarsi su territori contigui e in parte combacianti,
scaturiscono le
affinità sul piano interpretativo). Solo così sarà possibile stabilire su quale lato del
confine si collochi il Merlino
della maturità, che è quello più originale e che più ci può oggi
interessare. Comune sia al «socialismo liberale» che al «socialismo libertario» è sicuramente la
percezione che le due grandi
ideologie della modernità secolarizzata, il liberalismo e il socialismo, siano portatrici entrambe di
istanze di
liberazione umana che sono state però stravolte dalla assolutizzazione che storicamente è stata
fatta di alcuni
principi ritenuti basilari. Di qui la possibilità e la necessità di una loro integrazione in una
sintesi, che però nel
«socialismo libertario» si presenta con caratteristiche più radicali e avanzate rispetto a quella
prospettata dal
«socialismo liberale» (o «liberalsocialismo»). Potremmo aggiungere che l'anarchismo, da parte sua, si pone
a sua
volta «a sinistra» del «socialismo libertario», con una propria peculiare sintesi delle istanze di libertà
e di
eguaglianza che presenta caratteristiche ancora più avanzate e rivoluzionarie. (Il problema, a questo
punto, riguarda la realizzabilità storica di queste ideologie; per quanto mi concerne, da molto tempo
ritengo irrealizzabile
l'anarchia allo stato puro, e credo sia più produttivo puntare alla creazione di una società
socialista libertaria, che
identifico con il massimo di «anarchia possibile»; devo aggiungere, però, che di fronte all'inarrestabile
marea
montante della moderna barbarie che ci circonda, vivere in una società autenticamente ispirata ai valori
del
liberalsocialismo mi sembrerebbe oggi un enorme progresso) (4).
Un pensiero irriducibilmente radicale Se lo spazio politico in cui germina
il socialismo libertario è lo stesso che dà origine al liberalsocialismo
(l'intuizione che è possibile e necessaria una sintesi fra libertà e eguaglianza), il primo si
differenzia dal secondo,
come già si è accennato, per una maggiore radicalità. E' questa stessa radicalità
che a mio avviso contraddistingue
il Merlino della maturità, rendendolo irriducibile a ogni interpretazione riduttivamente riformista o
moderata. La
radicalità di Merlino si manifesta perlomeno in tre aspetti fondamentali e qualificanti: 1) Il pensatore
napoletano,
come si è visto in precedenza, non abbandonerà mai del tutto la prospettiva rivoluzionaria
(nel suo «riformismo
rivoluzionario» non è lecito separare il primo termine dal secondo); 2) la sua accettazione del
mercato non
comporterà mai anche l'accettazione del capitalismo. (Se ne accorge anche Berti, secondo il
quale l'esistenza del
mercato implicherebbe «il mantenimento della proprietà privata. Ma Merlino non accetta questa
conclusione
logica e propone invece che, in questa cooperazione integrale, scompaia la proprietà
individuale della terra».
Merlino, in effetti, è a favore di un socialismo di mercato che oggi verrebbe definito autogestionario.
Il problema
fondamentale in campo economico, per Merlino, è impedire la formulazione di ogni forma di
monopolio. I mezzi
di produzione devono essere socializzati, e affidati ai lavoratori singoli o associati in forma cooperativa. Il
mercato, dotato di tutti i correttivi che si rendano necessari per evitare storture del sistema, deve continuare
come
regolatore della produzione e dei consumi. La società deve garantire a sussistere a tutti eguali condizioni
di
partenza, limitandosi a pretendere per sé - per il mantenimento dei servizi di pubblica utilità e
per la
redistribuzione del reddito ai più svantaggiati - i profitti e le rendite, corrispondenti alle differenze di
produttività
dei terreni); 3) nel socialismo merliniano rimarranno sempre robusti elementi di antistatalismo
(poco importa
che Merlino affermi che «non ha più senso la distinzione anarchica fra Stato e non Stato, lo ha, invece,
la
distinzione fra Stato liberale e Stato non liberale»: in effetti, ad esaminarla con attenzione, la sua concezione
dello
Stato liberale e della democrazia non è molto diversa da quella «società auto-organizzata» che
è l'obiettivo in cui
si riconosce e si identifica buona parte dell'anarchismo). In conclusione, per Merlino l'anarchismo viene
a identificarsi con la democrazia autentica e compiuta.
Nell'archivio privato di Aldo Venturini esiste un biglietto, scritto di suo pugno da Merlino poco prima della
morte,
in cui troviamo la formula «democrazia = anarchia». Nel 1924, in Fascismo e democrazia,
Merlino scrive che «noi
abbiamo oggi le forme della Democrazia, ma non abbiamo la Democrazia» (5).
Nel Testamento politico di Merlino, pubblicato da Venturini in Appendice
a F. S. Merlino, Il socialismo senza
Marx, troviamo queste parole estremamente indicative: «I principi di libertà, di eguaglianza,
ecc. non sono
assoluti ma relativi. Non è dato desumere le norme della convivenza da astrazioni. La realtà
di quelle che sono
state le relazioni sociali, può servire da punto di partenza per miglioramenti nella stessa direzione. Si
può aspirare
a maggiore libertà, eguaglianza, giustizia, non a tutta la libertà, a tutta l'uguaglianza e a tutta
la giustizia. Il
socialismo è appunto quest'aspirazione a maggior libertà, a maggior eguaglianza e a maggior
giustizia. Esso è
figlio del liberalismo o democrazia. Governo di tutti = governo di nessuno» (6). Berti legge in questa, e in
altre affermazioni simili contenute negli ultimi scritti, soltanto la dimostrazione
dell'approdo di Merlino alla liberaldemocrazia. A me sembra che le cose siano un po' più complesse,
e che con
la sua ricerca di una «anarchia possibile», Merlino vada annoverato tra i fondatori e teorici (insieme a Andrea
Caffi e a qualcun altro) di una nuova e diversa corrente politica: il socialismo libertario.
Questo dissenso, e gli altri rilievi critici che ho esposto qua e là in queste pagine, nulla
tolgono al sincero
apprezzamento - e oserei dire all'ammirazione - per il libro di Berti, che finora purtroppo non mi sembra abbia
avuto - all'interno e all'esterno del movimento anarchico - tutta l'attenzione che merita. Con pazienza, passione
e rara competenza, Berti ha saputo restituirci nella sua incertezza il profilo di un grande pensatore su cui vale
ancora la pena di riflettere e meditare. Di questo gli siamo e gli saremo sempre grati.
l) In una nota del suo libro, Berti polemizza con
l'interpretazione di Massimo La Torre secondo cui «Merlino rimase nella sostanza
sempre rivoluzionario perché disposto, all'occasione, a rompere con la legalità vigente». Scrive
Berti: «La Torre porta a sostegno il
paradigma di Bobbio (N. Bobbio, Riforme e rivoluzione, in Il mondo contemporaneo,
IX, Politica e società, II, a cura di P. Farneti,
Firenze, 1979, specialmente pp. 752-753), per il quale la discriminante tra strategia delle riforme e strategia
rivoluzionaria si dà «in base
al diverso atteggiamento di fronte al principio di legalità». Posto così, relativamente a Merlino,
questo criterio non regge assolutamente,
appunto perché qui si confonde ancora una volta il rivoluzionarismo dei mezzi con il conformismo dei
fini. Proprio prendendo ad
esempio lo stesso Bobbio, si dovrebbe allora sostenere, con tale giudizio, che il grande studioso torinese fu a
suo tempo rivoluzionario
perché, militando nel Partito d'Azione, egli era nel 1943-45 contro il principio della legalità
esistente che, come si sa, si identificava
in quel momento con quella fascista. Ma da ciò si può dedurre che Bobbio era veramente
rivoluzionario, che i suoi fini erano realmente
rivolti al sovverti mento totale dell'esistente, come lo erano a quel tempo, ad esempio, sia
pure con prospettive diverse, personaggi quali
Pietro Secchia o Armando Borghi? No, naturalmente». (G. Berti, Francesco Saverio Merlino ... ,
pp. 387-388, n. 45). Spero che Berti
non me ne voglia, ma a me sembra invece che in questo caso abbiano ragione La Torre e Bobbio. Il criterio della
rottura della legalità
mi sembra di per sé sufficiente per qualificare una strategia rivoluzionaria. Perlomeno se ciò
per cui si battono i rivoluzionari non si
identifica con la pura restaurazione di istituzioni preesistenti (nel qual caso si dovrebbe parlare di «rivoluzione
restauratrice» o di
«restaurazione» tout court). Proprio l'esempio citato da Berti del Partito d'Azione nella Resistenza
si presta a considerazioni aggiuntive.
Il Partito d'Azione può essere ritenuto rivoluzionario non solo per i mezzi - l'insurrezione armata contro
i nazifascisti -, ma anche per
i fini. Anche se non volevano un sovvertimento totale dell'esistente (l'unico criterio che per Berti
abbia validità), gli aderenti al Partito
d'Azione lottavano comunque - e lo dichiaravano apertamente scrivendolo anche nei loro documenti per una
«rivoluzione democratica»
che trasformasse nel profondo il nostro paese. Essi rifiutavano la restaurazione delle strutture dello Stato liberale
prefascista, e si
battevano per la nascita di uno Stato democratico di tipo nuovo. Si può rifiutare al Partito d'Azione la
qualifica di partito rivoluzionario,
soltanto se si attribuisce a questa qualifica, come fa Berti, un carattere di assolutezza, identificandola appunto
con la ricerca del
«totalmente altro». L'adozione del suo criterio, peraltro, ho l'impressione che ridurrebbe a ben poca cosa la
presenza della rivoluzione
nell'intero arco della storia umana.
2) Aldo Venturini, Alle origini del socialismo liberale. Francesco Saverio
Merlino, Bologna, Boni, 1983.
3) Nicola Tranfaglia, Liberalsocialismo, in Dizionario di politica,
a cura di N. Bobbio, N. Matteucci e G. Pasquino, Torino, UTET,
1990 (I ed., 1983). Cito dalla ristampa in edizione economica pubblicata su licenza della UTET dalla Casa
editrice TEA, 1990, p. 584.
4) Per chiarire meglio il significato di uno dei termini fin qui utilizzati,
riporterò ampi brani della già citata voce Liberalsocialismo scritta da Nicola
Tranfaglia per il Dizionario di politica della UTET (pp. 584-585). Mi scuso in anticipo per la
lunghezza delle citazioni,
ma ritengo che valga la pena chiarire, con l'aiuto di questa presentazione lucida e organica, che cosa si debba
intendere esattamente per
socialismo liberale. Scrive Tranfaglia «La dottrina
liberalsocialista nasce da un'analisi serrata, ma a suo modo distaccata e serena, della crisi in cui versano
socialismo marxista e liberalismo liberista. Gli obbiettivi delle due correnti sono comuni - il progresso generale
della società umana -
ma attaccati da lati differenti: l'una pone l'accento sulla solidarietà sociale, sulla responsabilità
e sui doveri che ha il forte nei confronti
del debole, le sue parole d'ordine sono cooperazione e organizzazione. L'altra ritiene che la completa
esplicazione della libertà di
ciascuno non può non condurre all'avanzamento di tutta la società. Ma il socialismo marxista
trascura le conquiste fondamentali della
democrazia liberale, a cominciare da tutti i diritti individuali di libertà, nell'errata convinzione che essi
siano retaggio del capitalismo
liberale e in definitiva d'una civiltà da abbattere; il liberalismo liberista, da parte sua, favorisce la
permanenza e l'accrescersi delle situazioni di privilegio e di disuguaglianza presenti nell'ordine capitalistico.
L'errore fondamentale, sostengono i liberalisti, è quello di ritenere
che le due correnti siano contrastanti e inconciliabili tra loro, mentre
in realtà una loro integrazione è non solo possibile ma auspicabile. La condizione necessaria
perché questo avvenga è che l'una e l'altra
rinuncino ad alcuni dei propri "dogmi" che non trovano più riscontro nella realtà. Il "dogma"
a cui il liberalismo deve rinunciare è, per
i liberalsocialisti, il liberismo. Secondo una fondamentale distinzione dovuta ( ... ) a Stuart Mill e ulteriormente
chiarita e precisata da
Croce, considerare il liberismo come caratteristica irrinunciabile della dottrina liberale significa fare di esso,
che è un "legittimo principio economico", una "illegittima teoria etica" ( ... ). Il liberalismo non ha nulla
da opporre all'intervento statale in economia se esso
avviene nel rispetto dei diritti dell'individuo e con l'obbiettivo di salvaguardare gli interessi comunitari. Il
problema semmai è quello
di conciliare gli uni e gli altri, salvando della tradizione liberistica quello che non urta con le nuove esigenze
del progresso sociale.
Quanto al socialismo, i liberalsocialisti sostengono che è tempo di superare la concezione marxista dello
Stato e della società umana.
Il dibattito revisionista ha dimostrato, a loro avviso, che il nucleo determinista, economicista e fatalista del
marxismo mal si concilia
con la libera espressione della personalità degli individui che è al centro della concezione
liberale e conduce le masse a puntare tutto
sulla trasformazione materiale della società (socializzazione dei mezzi di produzione, ecc.) e a non
impegnarsi in quella «rivoluzione
delle coscienze» che è il presupposto di ogni nuovo ordinamento socialista. Anche qui si pone sullo
stesso piano quello che è un mezzo,
sia pure importante, della svolta rivoluzionaria come la socializzazione dei mezzi di produzione con i fini della
rivoluzione che
consistono nella trasformazione delle masse e nella costruzione di una società che abolisca i privilegi
sociali ed economici e dia a tutti
la libertà dal bisogno come ogni altra libertà consacrata dalla tradizione liberale (i diritti politici
della persona, le libertà di parola, di
stampa, di voto e così via». Passando a delineare poi la parte positiva
del liberalsocialismo, Tranfaglia individua i seguenti aspetti: «In campo politico, l'esigenza
che ogni legge, ogni norma di governo tragga il suo diritto solo dal consenso della maggioranza e che individui
e gruppi sociali abbiano
modo di lottare liberamente per l'affermazione delle proprie idee: così non è compatibile con
la concezione liberalsocialista una libertà
di stampa infirmata dal dominio finanziario di pochi gruppi editoriali o l'esistenza di movimenti politici che non
rispettino al loro interno
le regole fondamentali della democrazia. Sul piano economico-sociale, l'istanza fondamentale è «il
raggiungimento della massima
proporzionalità possibile tra il lavoro che si compie e il bene economico di cui si dispone»: a ciascuno,
insomma, secondo il proprio
lavoro. Un simile obbiettivo nell'ideologia liberalsocialista si traduce in una pregiudiziale anticapitalistica non
assoluta ma relativa, tesa
soprattutto a impedire situazioni di parassitismo o di particolare privilegio (di qui l'insistenza sulla
necessità della tassazione
progressiva) e soprattutto nella delineazione di un' economia «mista» o «a due settori»: in cui coesistono
imprese private accanto a
settori nazionalizzati o comunque controllati dallo Stato secondo criteri distributivi di tipo empirico, che
scaturiscono di volta in volta
dalle esigenze della società nel suo complesso. Sui problemi
internazionali si riproducono i punti essenziali dell'ideologia: applicazione dell'esigenza comunitaria nei rapporti
tra gli
Stati, lotta a razzismo, imperialismo, nazionalismo, tendenza alla cooperazione e alla sempre più ampia
estensione di organismi
internazionali rappresentativi». Secondo Tranfaglia, il liberalsocialismo
dedica una particolare attenzione, «nella costruzione di uno Stato di tipo nuovo, alle garanzie
giurisdizionali e all'educazione delle masse. In una società che si basa su norme efficaci in quanto
espressione della maggioranza dei
cittadini è necessario predisporre strumenti idonei a combattere e stroncare eventuali abusi legislativi
e amministrativi: di qui l'opportunità di rafforzare l'indipendenza e l'autonomia del corpo giudiziario
e di costituire una corte suprema che difenda la legge
fondamentale, cioè la Costituzione. Quanto alla scuola, solo se essa sarà organizzata in maniera
da poter offrire a tutti un'istruzione
completa generalizzata, si potranno raggiungere due obbiettivi essenziali del L.: la rivoluzione delle coscienze
e l'eguaglianza di
opportunità per ogni cittadino». Per inciso, credo che a pochi sfugga la notevole distanza che ancora
separa - aldilà di certe somiglianze
esteriori e di facciata la «democrazia reale» che ci delizia attualmente e nella quale siamo costretti a vivere,
rispetto al modello di società
liberalsocialista delineato da Tranfaglia. Purtroppo, né Tranfaglia né altri hanno finora esposto
con altrettanta chiarezza e completezza
le caratteristiche del socialismo libertario, distinguendolo nettamente non solo dal liberalsocialismo ma anche
dal socialismo
democratico o dall'anarchismo con i quali viene perlopiù identificato di volta in volta.
5) Francesco Saverio Merlino, Fascismo e Democrazia. Quello che il regime
politico è e quello che dev'essere, con prefazione di Errico
Malatesta, Roma, Pensiero e Volontà, 1924. Ora riprodotto in F. S. Merlino, L'Italia qual
è. Politica e Magistratura dal 1860 ad oggi
in Italia. Fascismo e Democrazia, a cura di Nicola Tranfaglia, Milano, Feltrinelli, 1974, p. 338.
6) Francesco Saverio Merlino, Il socialismo senza Marx, a cura di Aldo
Venturini, con introduzione di Vittorio Frosini, Bologna, Boni,
1974, p. 632.
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