Rivista Anarchica Online
Guerra in terra maya
di Elisabeta Burgos
Così si intitola il saggio del sociologo francese Yvon Le Bot qui recensito. Le vicende del
Guatemala forniscono lo spunto per una serie di interrogativi e di considerazioni su lotte di
liberazione nazionali, guerriglia, popoli indigeni, ecc. ecc.
"Il sogno di Che Guevara è nato in Guatemala"; con questa affermazione,
sintesi o metafora, il
sociologo francese Yvon Le Bot inizia il suo saggio (*), uno studio indispensabile per
comprendere quei fenomeni che hanno determinato il corso della storia in questo paese negli
ultimi 30 anni, in cui si assiste all'emergere della violenza politica nelle comunità di indios. Si
tratta di un'opera che si caratterizza per la volontà dell'autore di arrivare alle fonti del conflitto
per poter realizzare una valutazione esaustiva dei fatti, condizione necessaria per mantenere il
proposito di comprendere quanto è successo. Il suo sforzo di riflessione critica lo porta a rifiutare
quella facilità (per un'analisi delle generazioni) tipica delle generalizzazioni macrosociologiche
e opta, invece, per un'analisi minuta e dettagliata della microsociologia. Privilegia quei fatti che sono la conseguenza di un'azione sociale nella sua forma quotidiana e
che, in una situazione di ingiustizia inaccettabile, portano a decisioni impulsive dettate dalla lotta
per la sopravvivenza e che si trasformano poi in "storia": storia che non è fatta solo di teoria e
di volontarismo, ma soprattutto di vita e sangue. "La
guerre en terre maya" è uno studio di importanza capitale per varie ragioni: forse perché
è
il primo studio che intende analizzare il fenomeno della violenza come fatto sociologico; perché
intende rompere col tabù dell'assolutismo manicheo che ha caratterizzato questo tipo di analisi
(la cui maggior preoccupazione è stata la fedeltà a posizioni politiche piuttosto che la ricerca
di
una reale valutazione dei fatti), che sosteneva l'esistenza di due campi separati in modo assoluto:
i buoni e i cattivi; perché è uno studio che dimostra come il mondo indigeno non ha avuto parte
nell'immaginario politico latinoamericano e, ciò che è ancor più sorprendente,
nell'immaginario
dei rivoluzionari, la cui base teorica di lotta si è fondata principalmente nel combattere per un
cambiamento radicale della condizione degli indios, e questa convinzione è l'origine e la causa
di un agire sbagliato e ciò ne spiega il fallimento; perché è uno studio che ribalta i
presupposti
sopra i quali si sono basate finora le analisi politiche relative alla situazione sociale e politica
guatemalteca degli ultimi trent'anni; perché chiarisce in modo magistrale l'influenza determinante
che ha avuto la religione, attraverso il neocattolicesimo e la teologia della liberazione, che si
sono innestati in quel movimento di modernizzazione sociale all'interno della comunità e che
hanno agito da mediatori fra le comunità indigene e la guerriglia, contribuendo così allo scoppio
della violenza politica all'interno delle stesse comunità. Il piano dell'opera si struttura secondo uno schema lineare e progressivo, simile allo sviluppo
dell'azione nella tragedia greca. Contesto e personaggi vanno delineandosi secondo le regole
imposte da questo genere; vanno occupando progressivamente il posto che a loro corrisponde
nella misura in cui la trama prende corpo, fino a giungere a quel climax che porta al finale
tragico. I personaggi seguono l'ordine di apparizione: le comunità indigene, l'azione di una certa
parte della Chiesa influenzata da una nuova lettura del Vangelo, la guerriglia, la cui comparsa
fa precipitare il finale in epilogo tragico, provocando l'azione sterminatrice da parte dell'esercito,
il cui ruolo è quello di eseguire l'atto tragico. Il contesto è descritto nella corposa introduzione
sulla storia del Guatemala degli ultimi trent'anni, che ci immette direttamente in quello che è
l'obiettivo dell'analisi: dimostrare come i rivoluzionari abbiano ignorato il mondo indigeno e
quali siano state le conseguenze di tale fatto: ignoranza che è segno dell'"obliterazione o
internalizzazione dell'indio nell'immaginario politico latinoamericano". "Che Guevara non ha
mai visto gli indios del Guatemala", afferma Le Bot; il riferimento al Che non è certamente
casuale; neanche successivamente, in Bolivia, avrebbe mai visto gli indios. Ed è significativo che
una lotta, che si definiva di liberazione nazionale, ignorasse proprio una parte della popolazione,
quella india, che rappresenta la maggioranza sia in Guatemala che in Bolivia.
Tragica dimensione della violenza L'analisi comincia dal periodo che va dal colpo di stato del 1954,
contro il governo di Arbenz,
fino all'instaurarsi del regime democratico nel 1985. Periodo durante il quale, contrariamente a
quanto si crede, la società guatemalteca, niente affatto immobile e pietrificata, si caratterizza per
aver sperimentato un processo di cambiamento all'interno delle comunità indigene le quali, con
la discrezione che le contraddistingue, sviluppavano il "primo movimento che dopo la conquista
dell'America andasse alla ricerca di una democratizzazione che fosse alla base della società
guatemalteca e non fosse solo un modo di definirsi dello Stato". Il mutamento globale delle
relazioni sociali all'interno delle comunità era accompagnato dalle "modificazioni delle relazioni
fra indios e latini a livello locale e nell'articolazione della società locale e della società
nazionale". L'autore indica come inizio di questo movimento, l'anno 1929, negli anni successivi
alla crisi mondiale, e arriva fino alla crisi dovuta alla guerra a metà degli anni Settanta. Il
movimento di modernizzazione si è manifestato principalmente attraverso la presa di coscienza
degli indios, che iniziano a rivendicare quella parte di potere che a loro corrisponde nel governo
comunale; a esigere il diritto di presentare propri candidati nelle elezioni comunali e ad avere
la possibilità di eleggere sindaci indios. Sono fatti questi che fanno chiaramente capire come si
siano messe in moto le forze per far nascere un movimento sociale che va dalla creazione di
cooperative a embrionali organizzazioni contadine. E' una dinamica in cui la "Democrazia
Cristiana" ha avuto un'influenza determinante, tuttora poco conosciuta. L'autore, dopo aver trattato il contesto sociale in cui i fatti si sono sviluppati, segue passo dopo
passo quelle tracce che conducono alle fonti che hanno dato origine allo scatenarsi del dramma,
fino ad arrivare all'influenza della religione (attraverso due principali espressioni: il
neocattolicesimo ed il pentecostismo) nel movimento di modernizzazione sociale, che nelle
comunità si esprime innanzitutto come "un movimento di conversione religiosa", caratterizzato
dal rifiuto delle credenze tradizionali e dall'organizzarsi in cooperative e in leghe contadine;
"dopo la rottura del consenso comunitario, dato dalla penetrazione della teologia della
liberazione". Azione questa che ha fatto partire una
dinamica inedita nelle comunità indigene, dove l'avanzare
dello sviluppo creava anche favorevoli condizioni all'esplosione della violenza. Nel caso del
Guatemala non si tratta solo di guerra, ma soprattutto delle forme di guerra che furono adottate.
Le Bot centra la sua analisi nel perché la violenza nelle comunità degli indios si sia
caratterizzata
nella tendenza alla devastazione, in particolare in certe zone del Guatemala. In questo studio si dimostra per la prima volta che le proporzioni eccezionali della
violenza non
sono solo la conseguenza di un particolare modo di esercitare il potere, che in Guatemala dalla
caduta di Arbenz si è fondato sulla violenza, ma anche che sono il frutto della volontà di chi
ha
agito opponendosi a questo potere, secondo un metodo del tutto estraneo al ritmo proprio delle
comunità indigene, con una concezione del cambiamento sociale che rifiuta la nozione del tempo
propria della cultura degli indios, che tende ad imprimere all'azione una progressione dettata dal
ritmo della comunità. Fintanto che i rivoluzionari continueranno a fondare le loro azioni sull'idea
di una frattura globale, perderanno ogni possibilità di consenso, non solo fra quanti lo
osteggiano, ma anche fra le comunità indigene e, inoltre, l'impiego sistematico della violenza
equipara, nonostante la diversità degli intenti e degli obiettivi, in una dinamica di
complementarietà, gli antagonisti di questa lotta, cioè l'esercito e la guerriglia. La tragica
dimensione della violenza, che l'autore afferma essersi sviluppata a partire dal 1975, è dovuta
in gran parte all'azione dei movimenti guerriglieri all'interno di detta comunità.
Anacronismi storici E, come succede nelle tragedie, l'intervento irrimediabile del destino
proviene da dove meno lo
si aspetta. E' stato proprio il nascente movimento di modernizzazione a favorire l'accettazione
della guerriglia all'interno delle stese comunità, che si erano precedentemente mostrate assai
restie ad accogliere movimenti estranei. Ma è certo che i fatti non hanno uno svolgimento
semplice e, proprio la complessità di questo intricato tessuto e dei suoi attori (le comunità
indigene, la teologia della liberazione, la guerriglia, l'esercito a la loro violenza) rappresentano
ciò che l'autore si impegna a spiegare con l'aiuto di un'analisi di notevole rigore intellettuale e
scientifico, la cui maggior originalità sta nel fatto di essere forse il primo studio in cui si
considera il fenomeno della guerriglia e del suo corollario, partendo da presupposti estranei a
qualsiasi retorica rivoluzionaria; ma, come giustamente sottolinea l'autore, il discorso militante
e le simpatie politiche hanno influenzato la maggioranza delle analisi consacrate al tema, il cui
atteggiamento oscillava tra il trionfalismo che celebrava le azioni di guerriglia come "vicine alla
vittoria finale", e la denuncia dei massacri perpetrati dall'esercito nei riguardi della popolazione
civile, "senza che si stabilisse alcuna relazione tra i massacri e l'operato della guerriglia". Il
metodo è semplice, ma dalle conseguenze devastanti: ci mette di fronte all'immagine di migliaia
di morti, di uccisi senza alcun motivo. "Qui non è successo niente" recita il libro scritto da una
ex-guerrigliera venezuelana, in cui testimonia la sensazione di vuoto lasciata da una prospettiva
che si credeva carica di promesse e che risultò nell'applicazione più gratuita del principio di
morte. Le Bot non ha intenzione di far polemica; la sua critica è di dimensioni discrete, quasi
lievi, ma non per questo meno precise. Le sue argomentazioni, sempre rigorosamente basate sui
fatti, rappresentano il desiderio di dimostrare e non di polemizzare, ed è grazie a questo
obbiettivo che tutta l'opera si caratterizza per un tono di generale serenità nelle affermazioni
contenute, mantenendo il proposito iniziale che è la "volontà di comprendere, piuttosto che di
credere". Con ciò Le Bot chiarisce la sua posizione; non nasconde affatto le sue simpatie: i
protagonisti delle sue analisi sono gli indios, le vittime predilette della repressione. Non gli
interessa neanche trovare le responsabilità del potere oligarchico dei "latini", che si è espresso
direttamente attraverso quello che può considerarsi il suo braccio armato, cioè l'esercito e,
dall'86, attraverso una serie di governi civili, che erano però controllati sempre dai militari. Non
si tratta di "credere, ma di comprendere". Il Guatemala è un paese in cui continuano a persistere
concezioni ancestrali e anacronismi storici: l'influenza di questi elementi determina il modo in
cui agiscono le forze in conflitto. L'oligarchia, insieme al suo braccio armato, l'esercito, restio
a qualsiasi cambiamento sociale, preferisce continuare a mantenere il rapporto di
schiavo/padrone con le popolazioni indigene, a cui si aggiunge la dimensione del razzismo, asse
cruciale del conflitto: "In Guatemala non abbiamo idee, ma abbiamo indios", ha dichiarato una
proprietaria terriera guatemalteca ad un giornalista. La cecità nei confronti del mondo indio porta
ad ignorare che una trasformazione del suo tessuto sociale porterebbe benefici col passar del
tempo agli stessi proprietari ed ai loro interessi economici. E d'altra parte abbiamo i movimenti
di guerriglia, che combattono contro l'oligarchia per il potere e lottano per un cambiamento
radicale che considerano fattibile instaurando un regime che si ispiri al modello cubano. La
fedeltà a Che Guevara sembra impedire alla guerriglia di considerare serenamente e
realisticamente la complessa massa geopolitica in cui si trova il Guatemala. La rigidità militarista
impedisce alla guerriglia di vedere che è arrivato il momento di occupare il terreno della politica.
Le forze rivoluzionarie, che si suppone debbano essere il motore della modernità, obbediscono
ad un modello che già ai suoi inizi, negli anni Settanta, era anacronistico e la cui azione ha
rappresentato un regredire, tanto in campo politico che culturale, in tutto il continente
latinoamericano. La guerriglia guatemalteca sembra essersi fermata al tempo dell'utopia
rivoluzionaria guevarista, che ha già dato dimostrazione della sua cecità storica. Varrebbe la
pena domandarsi, se fosse ancora in vita, quale sarebbe l'atteggiamento del Che - considerando
il suo rigore intellettuale - nei confronti di una America Latina immersa com'è nell'attuale
complessità geopolitica, colpita duramente da una crisi economica senza paragoni nella
storia. Tutto si può dire meno che la classe politica
latinoamericana di oggi, a prescindere dalla sua
posizione e dal suo credo ideologico, non sia all'altezza delle circostanze. L'azione rivoluzionaria
ispirata dall'esperienza cubana agli inizi degli anni Sessanta ha lasciato in eredità errori
insanabili. Quelli che avrebbero dovuto essere i futuri responsabili politici, cioè il prodotto di
quella fase di modernizzazione politica e culturale che cominciava a nascere negli anni Sessanta,
cioè coloro che erano chiamati a sostituire politici e politicanti di vecchio stampo, oggi non sono
più tra i vivi. Il fatto che tante vite siano state sacrificate, ha fatto sì che si sia sentita meno
l'emergenza da parte di una generazione che doveva essere chiamata ad essere contemporanea
della sua storia e a fornire la risposta a tutte le urgenze e minacce del nostro presente.
"Tutti coloro che nelle università erano chiamati a
favorire lo sviluppo di un "illuminismo" così
come esigeva il momento, sono stati travolti da quell'uragano venuto dai Caraibi, e si sono
impegnati allora nel voler ripetere l'impresa cubana"
Così, gli spazi si mantennero occupati da patriarchi obsoleti, o da politicanti senza la minima
visuale e senza la più elementare etica, formatisi nei più angusti settori del tradizionalismo
arcaico. Mentre a Cuba, il modello idealizzato di ieri, oggi agonizza, spietatamente soggiogato
dal patriarca in capo, e sembra indirizzarsi inesorabilmente verso un epilogo fatale, come un
dramma shakespeariano. Nel suo insieme, la situazione si avvicina di più a una storia romanzata,
che nessun autore ha ancora osato scrivere, piuttosto che a un processo di formazione di
nazioni.
Il Che in Guatemala Non è casuale che Le Bot parli della cecità di Che Guevara
nei confronti del mondo indigeno.
Chi conosce la storia del Guatemala degli ultimi anni sa che il Che è molto presente in questa
storia. In effetti, egli si trovava in Guatemala quando ci fu il colpo di stato preparato dalla CIA
insieme all'esercito e all'oligarchia guatemalteca che, nel 1954, ha messo fine all'unica esperienza
democratica che il paese avesse conosciuto dalla sua indipendenza. Il Che ha voluto resistere,
ma non ha trovato con chi farlo. La sua esperienza in Guatemala lo segnò e gli insegnamenti che
ne trasse ebbe modo di applicarli poi a Cuba.
"Il terreno, reso fertile dall'azione dei religiosi, principalmente
spagnoli e nordamericani, che
ebbero notevole influenza grazie alla loro azione evangelizzatrice e aiutarono lo sviluppo
dell'emancipazione intrapresa dalle comunità, assunse un carattere radicale con l'integrazione
di alcuni di questi sacerdoti alla lotta armata".
Nel 1959, i ruoli sono cambiati: Che Guevara è al potere a Cuba. Fedele al suo destino di
latinoamericanista che si è imposto sin dalla sua gioventù, non poteva essersi dimenticato del
Guatemala. Uno dei primi tentativi di guerriglia, di quella lunga catena che avrebbe preparato
la rivoluzione cubana, ebbe nel 1962 come scenario proprio il Guatemala. Il Che ne parla nel suo
libro "Pasajes de la guerra revolucionaria" nel capitolo che si intitola "El Patojo", soprannome
di quell'amico guatemalteco del Che che era alla direzione del gruppo. Come è successo in altri
tentativi di guerriglia, che dopo l'esperienza cubana si erano moltiplicati nei diversi paesi del
continente, sono morti tutti. Più tardi, nel 1960,
sotto l'influenza di quanto era successo a Cuba, alcuni ufficiali fra cui Luis
Turcios Lima, insieme ad alcuni intellettuali e militanti politici, decisero di scatenare la lotta
armata all'interno del paese. Ciò potrà sembrare un fatto banale, giacché è
comune a quasi tutta
l'America del Sud. Quelli che nelle università erano chiamati a favorire lo sviluppo di un
"Illuminismo" così come esigeva il momento, sono stati travolti da quell'uragano venuto dai
Caraibi, e si sono impegnati allora nel voler ripetere l'impresa cubana, dimenticandosi che non
si trattava dello stesso terreno. E persino fecero della storia cubana un modello valido per tutto
il continente. Quelle che furono considerate piccole differenze hanno invece avuto conseguenze
rilevanti, come ad esempio l'esistenza in molti paesi di vari milioni di indios, che passò
inosservata. Non è stata neanche presa in considerazione la diversità della Sierra Maestra, dove
non ci sono serpenti velenosi e dove si tenevano gli addestramenti dei guerriglieri dei gruppi
internazionalisti, dalle avvolgenti selve sudamericane, così come non si pensò all'altitudine del
Pico Turquino con le sue cime gelate e le scarpate della Cordigliera delle Ande. La scarsa considerazione del mondo indigeno da parte del Che è un fatto
emblematico, un errore
comune a tutti i rivoluzionari e, quando si è cominciato a tenerne conto, non è stato per il
riconoscimento della specificità di un popolo e della sua cultura - elementi che continuarono ad
essere ignorati - , ma per le possibilità strumentali che questo mondo poteva offrire: gli indios
avrebbero potuto ingrossare le fila dell'esercito rivoluzionario con cui si sarebbe arrivati al potere
dello Stato. Le stragi compiute tanto da parte dei guerriglieri, quanto da parte dell'esercito,
ebbero come vittime in maggioranza, indios.
Teologia della liberazione La lotta insurrezionale degli anni '60 in Guatemala aveva ignorato gli indios.
Questa
"dimenticanza", considerata più tardi dai rivoluzionari guatemaltechi come la principale causa
del loro fallimento, portò al tentativo di correggere l'errore. Ma ciò non significa che questo
universo si sia reso finalmente visibile ai rivoluzionari. Quando, agli inizi degli anni '70, il
gruppo di intellettuali e di rivoluzionari di professione riprende la lotta armata sulle montagne
del Guatemala, gli indios non li vede neanche. Non si percepiscono neppure le trasformazioni
che si stanno operando, né i cambiamenti sociali e culturali, né il processo di emancipazione
e
di modernizzazione in pieno svolgimento all'interno delle comunità indigene. I rivoluzionari non
potevano accorgersi di quanto stava succedendo perché seguivano unicamente il loro schema
fisso di rottura sociale violenta, che non poteva coincidere con un'azione che invece richiedeva
del tempo. La maggior conseguenza dell'uso della violenza è stata proprio il brusco arresto di
questo movimento; e ciò è imputabile all'atteggiamento dell'oligarchia, all'azione repressiva
delle
forze armate e al suo scontro con la guerriglia, e alla dicotomia indio/latino. Le Bot esamina
pazientemente il terreno fino a rintracciare la dinamica e i fattori che portano alla tragedia.
Profondo conoscitore del terreno sociologico guatemalteco, non ignora che per salvare le
distanze, il "ruolo delle mediazioni e dei mediatori è essenziale" all'interno delle comunità.
Così
fa la sua comparsa un altro elemento che completa il quadro dei riferimenti: la teologia della
liberazione. Secondo l'autore, l'incontro fra la popolazione indigena e la guerriglia non ci sarebbe
potuto essere senza la mediazione della religione; molla quest'ultima di importanza vitale nelle
società maya, tanto per il suo funzionamento sociale come simbolico, ed è quest'ultimo
l'elemento ciò che struttura e determina l'inconscio etnico di queste popolazioni. L'elemento
religioso in Guatemala si caratterizza per una tale complessità che accoglie la teologia della
liberazione, come le sette protestanti e fondamentaliste, fino la tradizione maya-cattolica. Questa
dimensione è analizzata per comprendere che ruolo ha la religione nell'articolazione dei conflitti
socio-politici di ordine comunitario. Il terreno, reso fertile
dall'azione dei religiosi, principalmente spagnoli e nordamericani, che
ebbero notevole influenza grazie alla loro azione evangelizzatrice e aiutarono lo sviluppo
dell'emancipazione intrapresa dalle comunità, assunse un carattere radicale con l'integrazione di
alcuni di questi sacerdoti alla lotta armata, fatto questo che favorisce l'abbandono di quella
sfiducia ancestrale degli indios nei confronti di elementi estranei alla comunità e fa sì che si
realizzi l'incontro tanto atteso: indios/guerriglia e, come conseguenza di ciò, l'irrompere della
violenza politica all'interno delle comunità. Il
movimento rivoluzionario, che negli anni '60 si limitava a cariche politiche, a un terrorismo
ristretto e a operazioni militari di poca importanza, negli anni '70 e '80, con l'appoggio di settori
marginali della Chiesa, attivisti nelle comunità indigene, riesce a far precipitare una dinamica
di lotta armata col supporto del tessuto comunitario. La dimensione etnica diventa così la
condizione "sine qua non" per qualsiasi progetto di potere, in un paese in cui la maggioranza
della popolazione è relegata e mantenuta fuori da ogni istanza del potere. La minoranza latina,
detentrice del potere, di fronte al terrore incosciente di una maggioranza oppressa e disprezzata,
alla quale ha usurpato ogni spazio sociale, ricorre all'apartheid come se fosse una forma di
protezione e allo sterminio sistematico, quando si sente minacciata.
Strategia militare e movimento sociale Ciò nonostante, Le Bot afferma che il fatto che
la guerriglia si sia inserita nel processo di
modernizzazione non è sufficiente per scatenare un conflitto armato così rilevante. Il primo atto
è stato l'esecuzione di un latifondista identificato col regime e le cui pratiche feudali hanno fatto
della sua morte il simbolo, che ha favorito e portato allo scatenamento di quello che è l'obiettivo
della guerriglia: la lotta armata con la partecipazione degli indios. Si è fatta correre rapidamente
la voce che l'esecuzione era stata opera degli indios e non di "stranieri". La logica sociale-religiosa si è
arrestata e al suo posto si impone la logica politico-militare col suo corollario: il
principio di morte. La campagna di repressione spietata dell'esercito contro le cooperative di
colonizzazione, fondate per impulso delle leghe contadine e dei catechisti, non si è fatta aspettare
nella zona dell'Ixcan. Gli indios, indifesi davanti alla violenza armata dell'esercito, cercano aiuto
nelle armi della guerriglia, che però non possono essere consegnate a loro, perché il loro numero
è assolutamente insufficiente. Ciò che si rimprovera maggiormente alla guerriglia è
proprio il
fatto di aver scatenato la violenza e di avervi trascinato le comunità indigene, abbandonandole
poi alla loro sorte. La guerriglia non è mai riuscita
ad imporre un rapporto di forza simile a quello della guerriglia
di El Salvador. Comunque, la presenza di indios nelle fila dell'insurrezione spaventò
enormemente la minoranza latina, che deteneva il potere economico e politico assoluto nel paese,
e che già normalmente viveva ossessionata dal "pericolo indio" (elemento determinante, questo,
da prendere in considerazione in un paese in cui la maggioranza della popolazione è indigena
e in cui tutti i posti di potere, in tutti i settori ed istituzioni, sono in mano della minoranza latina,
dove "latino" sta per "non indio"). La novità del conflitto attuale, in rapporto al periodo in cui
governava Arbenz e agli anni Sessanta, è che da parte della guerriglia vi è la "volontà
politica
di far coincidere la strategia militare con un movimento sociale". Ma ciò è ben lungi da
rappresentare un avanzamento per le comunità indigene, anzi, l'integrazione al conflitto armato
rappresentò "una rottura di quel movimento sociale che si stava sviluppando all'interno delle
comunità: rottura provocata dalla crisi e dalla repressione del movimento, che contribuì alla
sua
distruzione". I rapporti tra l'oligarchia, l'esercito e gli
agricoltori indigeni, insieme all'ingerenza
nordamericana, non hanno mai cessato di determinare la vita politico-sociale del Guatemala;
però sono stati soggetti a fluttuazioni inerenti al funzionamento della società, che non è
mai
statico. La guerra favorì comunque un cambiamento nell'equilibrio di queste forze. Le
conseguenze e la modificazione dei rapporti di forza fra gli attori partecipanti alla guerra,
avrebbe dato come risultato che, dovendosi scontrare con la lotta armata, l'istituzione militare
si afferma nei suoi rapporti con l'oligarchia e acquista un proprio peso nella società guatemalteca
e singolarmente nel sistema di potere. D'altra parte, si intensifica anche la restaurazione del
potere della Chiesa cattolica e la riconquista religiosa dei contadini indios a tutto svantaggio
delle loro usanze e tradizioni. Il bilancio di questi anni di
guerra è, secondo l'autore, "disastroso". Facendo riferimento ad una
citazione di Alain Touraine: "la violenza distrugge i movimenti sociali", si capisce come la
guerra non favorì alcun avanzamento verso una soluzione politica del problema guatemalteco
(dei 500.000 morti del conflitto, la grande maggioranza erano fautori del nascente movimento
sociale), bloccò il processo di modernizzazione delle comunità e rinforzò il potere
latino in tutto
il paese. E' per questo che nel Guatemala di oggi la ricomposizione del tessuto sociale si realizza
malgrado e contro le conseguenze della guerra; la logica politica e la logica della comunità sono
ogni giorno più lontane. In Guatemala, il celebre
assioma di Marx si è rivelato inoperante, perché la storia, là, si è ripetuta
in forma di tragedia. Negli anni Sessanta, in Perù, la guerriglia, il cui leader era Hogo Blanco,
primo a rendersi conto che era necessario coinvolgere gli indios per poter sviluppare il
movimento guerrigliero, sostenne la propria azione con quella che fu chiamata "la propaganda
armata". Questa consisteva in rapide irruzioni nelle campagne per "politicizzare" gli indios, poi
i guerriglieri sparivano nelle zone di montagna per evitare di incontrarsi con l'esercito, che
arrivava nei campi e massacrava gli indios sospettati di essere ormai dei complici e degli attivisti.
Questa fu un'esperienza che fu molto discussa in quell'epoca nei circoli guerriglieri dell'Avana,
e molto conosciuta oggi dai dirigenti guatemaltechi, dinnanzi alla guerriglia nel loro paese,
eppure tutto ciò si è ripetuto e anche con conseguenze più devastanti che in
Perù venticinque
anni prima. La totale assenza di memoria storica è una costante in campo rivoluzionario
latinoamericano, al punto da sembrare di volersi convertire in vocazione per la tragedia. Fra le conclusioni di gran rilevanza, vi è quella di dover constatare che
l'incontro tra la guerriglia
e la comunità indigena è stato un male. Favorita dalla contrazione del potere latino, nemico
intrattabile, fece la sua irruzione con tutta la forza e la crudeltà di cui sono capaci gli usurpatori
davanti al terrore di poter perdere piccole parti di ciò che a loro, di fatto, non dovrebbe
appartenere; e tale cecità potrebbe portarli, un giorno, a perdere tutto. L'integrarsi alla guerriglia ha significato, per le comunità indigene, un
ultimo mezzo davanti alla
violenza dell'esercito, cosa possibile grazie alla teologia della liberazione, il mediatore religioso
necessario per qualsiasi azione, anche la più quotidiana nell'universo indigeno. Presentata come
"la giusta violenza", formò di fatto una "teologia della rivoluzione", nel momento in cui si
innestava in un movimento di emancipazione etnica; l'obiettivo della guerriglia era quello di
canalizzare un obiettivo comunitario al servizio di un progetto di Stato. Ma, niente di "più
lontano dalla comunità indigena, era la logica della guerriglia, figlia del Giacobinismo del Secolo
Illuminista, che aspirava ad uno stato centralizzato, che considera le lotte degli indios solo
rivendicazioni sociali che si inseriscono nel generale quadro della lotta di classe". A volte, come
nel caso del Guatemala, viene riconosciuto e concesso un certo margine di legittimità alle
rivendicazioni culturali ed etniche, ma si tratta di un atteggiamento puramente strumentale e
tattico, subordinato alla teoria dell'avanguardia leninista, che per questi gruppi è l'unica idea della
Storia che abbia senso. Mentre la complessità della situazione guatemalteca esige che si
impostino non solo riforme di tipo sociale in relazione al possesso della terra, ma anche la
profonda riforma dello Stato coloniale, che determina i destini del paese dalla sua indipendenza
e che rappresenta solo una minoranza; uno Stato che dovrebbe essere plurietnico, pluriculturale
e plurireligioso. Se il settore oligarca-militare-latino non comprende la necessità di questo
processo, possono essere terrificanti le conseguenze e le predizioni di ciò che si sta avvicinando,
in un paese dove tanto odio si è accumulato e ha fatto spargere tanto sangue, non sono poi così
premonitori vaticinii.
Feroce repressione Yvon Le Bot non pretende di dare risposte al complesso problema della
società guatemalteca.
Il suo desiderio è quello di comprendere e ciò lo porta a porsi quelle domande che ogni persona
sensata e preoccupata per la sorte di questo paese dovrebbe farsi. Quello che certamente ci
sembra di poter dedurre dalla sua analisi è che l'ora dei patriarchi, detentori di verità congelate
-
anacronismo storico tipico di tutto il continente - sembra essere giunta alla fine. Favorire oggi
scontri, in vista di un'ipotetica, ogni giorno più improbabile, presa del potere, in grado di
risolvere gli squilibri sociali, una volta raggiunto questo obiettivo, è nelle attuali circostanze
"peggiore che un crimine: è un'idiozia". Ma in Guatemala non ci sono ancora le premesse come
nel El Salvador, dove bene o male la situazione ha subito spiazzamenti, favorendo un'azione
politica, uno sblocco della situazione. La posizione
inflessibile dell'esercito non dà garanzie alla guerriglia tali da poter far sì che questa
abbandoni la propria posizione; la violazione dei diritti umani più elementari (un esempio: la
repressione nei confronti dei giornalisti e dei giornali, in cui timidamente ci si comincia ad
esprimere), portano ad un vicolo cieco. E' come se di fatto ciò che si cercasse fosse una
situazione di complementarietà fra guerriglia/esercito, che di fatto esiste. La guerriglia è oggi
una
forza minore che non rappresenta una minaccia di destabilizzazione, né attenta al potere
dell'esercito, però la sua esistenza giustifica il controllo e il potere assoluto che l'esercito
continua ad esercitare nel paese - nonostante oggi il Guatemala viva un periodo di pseudo-democrazia. E'
pertanto evidente che non c'è interesse affinché la situazione cambi, e perciò non
c'è spazio per la minima concessione. Atteggiamento questo che fornisce argomenti alla
guerriglia, che si riafferma nelle sue posizioni militariste e impone condizioni sproporzionate in
rapporto alla forza che realmente possiede. Quella
guatemalteca è l'unica guerriglia "guevarista" che sia sopravvissuta nel tempo (il caso
colombiano è un fenomeno a parte; anche se in certi periodi ha anch'esso sperimentato l'influenza
cubana, è un fenomeno più antico, un fatto ormai cronico che risale al 1948); tale sopravvivenza
si deve alla ferocia della repressione che obbligò il movimento rivoluzionario ad adottare misure
di stretta clandestinità, e si deve anche all'idiosincrasia guatemalteca, poco portata ad essere
estroversa e a dimostrazioni pubbliche, per cui qualsiasi esibizionismo pubblicitario così in voga
nei movimenti di guerriglia latinoamericani - direttamente influenzato dall'indirizzo cubano - in
Guatemala si rifiutò. Il suo successivo sviluppo, che non è assolutamente comparabile con
quello
conosciuto dalla guerriglia di El Salvador, è stato un fenomeno passeggero. Ma se oggi il
movimento di guerriglia non dimostra flessibilità e non approfitta del contesto internazionale,
che gli potrebbe essere favorevole, per guadagnare spazio politico, corre il rischio di diventare
un fenomeno cronico che avrà vita fino a quando non saranno scomparsi i suoi dirigenti, e col
passare del tempo potrebbe anche perdere di vista i suoi obiettivi e ridursi a semplici gruppi
armati più vicini e affini alla delinquenza comune che non alla Rivoluzione. La sinistra avrà
perso una volta di più; la chiusura in schemi ottocenteschi le impedisce quella flessibilità che
le
circostanze richiedono; sono errori che si pagano cari nel tempo della Storia.
Diritti umani Poniamoci quelle domande con cui si chiude il libro: come mettere in
rapporto comunità, società
e nazione? Come promuovere allo stesso tempo la diversità culturale, la negoziazione, la
partecipazione sociale e l'integrazione nazionale? Da
questo punto di vista le comunità indigene sono chiamate a dare il maggiore contributo. Le
comunità sono sì portatrici di modernità, ma dal punto di vista delle proprie norme
culturali,
dalla loro visione propria e specifica del diritto inerente alle norme e alla loro appartenenza
comunitaria. La divisione fra indios e latini continuerebbe, se non viene rispettata la sensibilità,
la differenza e la credenza che costituiscono l'essere indio. Ciò non significa l'idealizzazione del
mondo indigeno che, come qualsiasi altra società viva e in piena mutazione, è soggetta anche
a
conflitti e a divisioni interne. E' impossibile riassumere
un'opera così densa di contenuto, chiamata piuttosto a suscitare
dibattiti necessari quanto utili, soprattutto in tempi come questi, in cui i nostalgici e i
fondamentalisti di ogni tipo non hanno ormai più niente da portare al dibattito per il chiarimento
di problemi, che continuano comunque ad esserci come prima. Perché è vero che le ragioni che
hanno dato origine ai problemi, non solo non sono scomparse, ma anzi esistono oggi in maniera
molto più acuta che in passato. Di fronte all'obbligo di scelta che presenta il caso guatemalteco,
la comunità internazionale deve, oggi come non mai, operare per l'instaurazione di una
situazione in cui si rispettino i diritti umani e che favorisca l'esistenza di uno spazio di riflessione
e di dialogo, indispensabile nel momento in cui diminuisca la polarizzazione delle forze in
conflitto e venga meno il linguaggio delle armi. Mi resta
solo da desiderare che in tempi brevi l'opera venga tradotta, in modo che il lettore di
lingua ispanica possa accedervi, giacché viene trattato non solo il Guatemala, ma tutto il
continente; perché qui si tratta non di credere, ma di comprendere, come ben dimostra Yvon Le
Bot, perché si instauri il dialogo che renda possibile la venuta di una pratica nuova del far
politica.
(traduzione di Fernanda Hrelia da "Libre
pensamiento")
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