Rivista Anarchica Online
Colore appassionato
di Marc de' Pasquali.
«Egli credeva che nulla cambia, anche se tutto sembra mutare, e che certe epoche climatiche nella storia
dei popoli ripropongono invariabilmente fenomeni analoghi." Baudelaire su Delacroix
Ferdinand Victor-Eugène Delacroix nato dal cielo di Charenton-Saint-Maurice (Seine) il 26 aprile
1978, fu
legato a Balzac e a Hugo (ritenuto suo equivalente letterario anche se mi pare poco convincente), a
Merimée
e a Dumas padre, fu allievo di David, e fu uno degli uomini più romantici e più aristocratici con
le più belle
ispirazioni che gli fecero eseguire opere fulgenti: un migliaio dipinte, 1500 pastelli acquarelli inchiostri, 700
disegni e schizzi, 24 incisioni, un centinaio di litografie, e a Parigi il soffitto centrale della galleria d'Apollo del
Louvre, il ciclo murale nella sala dei Re e nella biblioteca di Palazzo Borbone, la biblioteca a cupola del
Lussemburgo, il soffitto e le pareti della prima cappella a destra della chiesa di Saint-Sulpice, e infine (distrutto
nell'incendio della Comune del 1871) il soffitto circolare della sala della Pace all'Hotel de Ville. Opere
influenzate dagli studi su Michelangelo e Rubens (e sul Tintoretto della scuola di San Rocco a Venezia), dal
maestro Guérin, dall'amico Géricault (per il quale posò nella Zattera della
Medusa, a Louvre), e dalla lingua
degli Dei parlata da Mozart. Ha colorato il pianeta con l'autunno delle sue pennellate sgocciolanti rosso di
Kassel dionisiaco, in un'estetica del diverso, in un'utopia dell'uguaglianza del benessere, insofferente ai dogmi,
ironico e rivoluzionario (davvero! fu guardia nazionale nel sanguificato 1830, esperienza che rigettò
poi nel
viscerale La libertà che guida il popolo al Louvre, una piramide di pelurie
puberali e ascellari, di mammelle
sguscianti e smostaccianti, di cadaveri senza brache con una calzetta, di frastuono, di piccoli eroi armati
d'ingegno masochismo alla Hugo, e d'ignoranza, di sciocca speranza). Da leggere sono i suoi diari
(un'antologia fu tradotta e curata da Lalla Romano nel 1945), le lettere e gli articoli
(uno su Prod'hon), i saggi e gl'interventi, alcuni raccolti da Elena Pontiggia in Scritti sull'arte (SE,
13.000 lire):
«La contemplazione delle belle opere di tutt'i tempi dimostra che il bello non si trova, non si tramanda
né si
concede in eredità come una fattoria; è il frutto di un'ispirazione costante, di una somma di
ostinate fatiche; esce
dalle viscere con dolore e strazio, come tutto ciò che è destinato a vivere; costituisce l'incanto
e la consolazione
degli uomini e non può essere il frutto di un impegno incostante o di una tradizione banale. Allori
volgari
possono incoronare sforzi volgari; un consenso passeggero può accompagnare, finché dura il
loro successo,
opere nate dal capriccio del momento; ma la ricerca della gloria richiede ben altri sforzi; ci vuole una lotta
caparbia per strappare un suo sorriso; e questo ancora non basta: la sua conquista richiede l'unione di mille doti
e il favore del destino.» Questo uomo bello intellettuale affettuoso filosofo e funebre, sensibile alle piante
al mare agli animali e a Byron
- teso di nervi, che legge Dante Petrarca e Tasso, ammira il sud e Alessandro, cita Kant, conosce la chimica,
ricerca i colori più esaltati, scruta Goethe, viene musicato da Weber, ha alimentato la fantasia
più fervente di
un secolo coi suoi cavalli saltatori, i suoi vasellami e le sue scimitarre, i suoi interni (basti per tutti la
Stanza
nell'appartamento del conte di Morney al Louvre), le sue donne nobili e ginandre (La Grecia
spirante sulle
rovine di Missolungi a Bordeaux), le sue matrone dalle calze bianche o incoronate alla contessa di
Castiglione,
i suoi sultani e i crociati e i turchi, le sue movimentate tragedie tra lussi predati, e le sue morti, e i suoi duelli,
gli sfinimenti; ci erudisce con la sua melanconia fegatosa, così luminosa e acuta ... dinnanzi alla
gigantesca
voragine delle sue ardite opere dalla luce folgorante (tenute ben strette dal Louvre) ci si commuove: La
barca
di Dante fu un boom al Saloon del 1822 (Baudelaire aveva un anno), Ingres (che Delacroix amava)
poveretto,
ballonzolò assieme alla propria metodica matita, al suo obsoleto classicismo borghesotto e sonnolento,
alle
apparenze, e fu uno scandalo, come lo fu cinque anni appresso il «negligente» (cose da pozzi!) Morte
di
Sardanapalo, quel barbuto re assiro dalla leggendaria dissolutezza che assediato ordinò d'essere
ucciso (lasciati
i domini dell'Egitto) nel suo palazzo di Ninive cullato dal Tigre, assieme alle sue amanti, alle sue bestie, ai suoi
possedimenti, e di distruggere col fuoco le migliaia di tavolette cuneiformi della biblioteca, le sue spade
gemmate, eccetera; forse ispirato al dramma di Byron che a sua volta si rifece a fonti greche; Delacroix allora
scrisse «Il primo pregio d'un quadro è d'essere una festa per gli occhi», con Sardanapalo va oltre,
l'ondosa strage
è aperta al tutto, completamente avvitata nella forza della luce dell'anima; è un quadro
ininterrottamente
rincorso, teatrale (pare attraversato da mille lepri elisabettiane); con pennellate afrorose d'incenso, di sangue
e sterco, di sudori calanti e di pianti, di sperma e urla, è un intrico di muscoli in estasi a mo' di santi
rococò e
un po' gay con le fattezze maschie di Michelangelo; è pieno di dolore duro, crudele, orge di barbara
sensualità
come nei sogni d'oniromanzia quando sono a colori, è un'opera che da sola basterebbe a glorificare una
vita. Egli
produsse sempre ritocchi suggestivi con fiocchi avvolgenti, neo impressionisti (si pensi all'andamento di
Le
moulin de la Galette di Renoir al d'Orsay), fiocchi cangianti in gocce di acqua, di terra, campi e marine,
in una
sua «legge generale: maggior contrasto, maggior splendore; e sono altri ritocchi, infiniti arancioni gallina,
deserto, bruno asino, amaranto; mattone, è sono nuvole gonfie, sfumate, gravide, babilonesi, e
trasparenze soavi
ovunque in ogni tela, nei destrieri rosa; «ritocchi assassini» che col tempo si assesteranno con l'insieme,
succulenze da succhiare seduti poiché la testa va in fiamme e il cuore - pure il più sgangherato
- si mette a
correre dietro il sangue e le vene danzano. Quest'uomo autentico, intelligente, sottopagato, generoso come ogni
parsimonioso, signore del gesto svelto, portato agli affreschi dove le leziosaggini saltano, è oro giallo,
lampi
sullo zinco quotidiano da elargire o incontrare al più presto, anche in rue de Furstenberg, a Parigi nel
suo atelier
tutto bianco e verde come un'abitazione meridionale, un tempo luminoso e ben riscaldato (lui era freddoloso),
oggi museo (biglietto d'ingresso con giardinetto lontano da perversioni edilizie) incantato: Nadar vi ha
fotografato, Stendhal vi ha scritto (su Il massacro di Sio - al Louvre - per il Journal de Paris),
Baudelaire che
riteneva Delacroix suo padre e non stava nella pelle (il genio!) ogni qualvolta gli si presentasse l'occasione di
celebrarlo (e non fece altro nei suoi fibrillanti Scritti sull'arte) vi ha tentato una catalogazione,
Chopin vi ha
posato innamorato assieme a George Sand (che come al solito fumava), e lui, il padrone di casa, labbra tirate,
colorito olivastro, dandy, terminata la colazione, lo lasciava per andare al Louvre in compagnia della sua
domestica (che lo accudiva da trent' anni). Dei viaggi nord africani di Delacroix (al seguito del conte di
Morney) che gli cambiarono la visione del mondo,
oltre alla meraviglia di Donne d'Algeri nelle loro stanze e l'inno "veronese" della Festa di
nozze ebraiche in
Marocco, restano degli appunti frettolosi su dei taccuini, ricordi illusori influenzati dalla luce e dal sole
lustro
di Tangeri (ora in mostra a Parigi all'Istituto del Mondo Arabo), e i bar alloggio che sopravvivono col suo nome,
immersi nell'attesa gracile e contemplativa fra tombe fenicie e marmellate di fichi, nell'aria azzurra, nelle piccole
striature sulle spiagge (simili alle pelli delle sue rampanti tigri), nell'insopportabile mestizia di città
piagata dai
colonialismi. Altri appunti li prese risalendo la Spagna (povera nazione sovrastata dalla maledizione della
cementificazione socialista e dalla volgarità) che percorse - con fatica e apprensione a causa del colera
epidemico - inseguendo i lasciati di Goya. Al rientro affrontò sette anni di disgrazie subendo persino
delle
materiali efferatezze alle sue opere, pagò caro non volere annacquare il proprio stile, ma d'altronde
«cos'è
comporre? È associare con potenza" .... Ritirato e selvaggio come una delle sue fiere dipinte
all'ultima convulsione, morì di congestione polmonare nel
1864, mano nella mano con la sua piangente domestica. I suoi lavori abbozzati e inimportanti furono venduti
all'asta dopo quarant'anni d'ingiustizie. Uno dei suoi tanti brani lungimiranti va aggiunto "La libertà
politica è la bella parola a cui si sacrifica proprio
la libertà più vera ( ... ), ma quanti possono godere della libertà di stampa, di fronte a
una falange di scrittori che,
spinti dalla fame o dall'ambizione, sbarrano ogni strada, diffamano chi li ostacola, e hanno trasformato questo
presunto strumento di libertà in un'arma terribile, invincibile, da usare a torto o a ragione per l'interesse
loro o
del loro spirito? Questa presunta libertà esiste dunque, soltanto per gli scrittori di professione. Con ogni
mezzo
ci impongono le loro opinioni e i loro pregiudizi. Per un uomo saggio e ponderato, ce ne sono altri mille
che
vedono solo con gli occhi dei portapenne. E costoro, a loro volta, hanno davvero la libertà di parola,
che è uno strumento di potere tanto efficace? No, sono dominati come gli altri dalla strategia del
loro partito e dai capi
che impongono loro il tono da usare; e questi capi, a loro volta, sono indifferenti a tutte le opinioni, pur di
arricchirsi tenendo in pugno le masse.»
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