Rivista Anarchica Online
Sentimenti e desiderio. Gay
di Cristina Valenti
A Bologna, in ottobre, i Teatri di Vita hanno ospitato in prima assoluta lo spettacolo The Last Century of
Desire,
presentato dall'Aids Positive Underground Theatre
Sono tornati in Italia gli artisti inglesi dell'Aids Positive Underground Theatre, il
gruppo di Brighton diretto da
John Roman Baker che nella passata stagione ha destato molto interesse con uno spettacolo, In One
Take, che è
stato presentato in esclusiva italiana ai Teatri di Vita di Bologna. La storia era quella di un triangolo amoroso
omosessuale, uno spaccato di vita disegnato con crudezza, che affidava alla scabrosità delle immagini
e dei testi
i contenuti di un universo di relazioni interpersonali teso a rivendicare la sua inconciliabile
"inaccettabilità": fra
Aids e pornografia , sadomasochismo e sopraffazione psicologica. Uno spettacolo che ha fatto parlare di "un Ibsen
interpretato da Derek Jarman" (G. Manzella, "Il Manifesto") e che ha colpito per la forza comunicativa degli
attori, in gran parte sieropositivi, capaci di contrastare con la verità della loro condizione l'immagine
romantica
del personaggio destinato a morire in un finale catartico attraverso il quale la società può
riconciliarsi con le sue
ferite in nome di un'astratta adesione alla sofferenza e di una sostanziale cancellazione dei contenuti collettivi
della malattia.
Pochi irriducibili L'Aids positive Underground
è nato a Brighton nell'88 all'interno del Sussex Aids Center, un gruppo di
volontariato gay impegnato sia sul fronte dell'assistenza ai malati di Aids sia sul piano della militanza culturale,
per sensibilizzare il contesto sociale rispetto al problema dell'Aids. L'impegno sociale e l'urgenza di una
circuitazione rapidamente rinnovata ha imposto al gruppo la necessità di una sorta di frenesia
produttiva. The Last
Century of Desire (L'ultimo secolo di desiderio), presentato negli scorsi mesi di ottobre e novembre in una
breve
tournée promossa nuovamente dai bolognesi Teatri di Vita e dal Teatro Rifredi di Firenze, è il
quindicesimo
spettacolo del gruppo e alla pressione produttiva paga forse il prezzo di un testo eccessivamente macchinoso e
di una regia un po' scolastica (i siparietti che si susseguono senza sorprese, gli stacchetti musicali). Eppure se ne
esce con il senso di uno spettacolo assolutamente debordante, incontenibile nei limiti del previsto, impensabile
fra i confini dell'accettabilità. La verità delle maschere tragiche, dei corpi che esprimono
un'energia che è forza
trasgressiva, violenza ribelle, sessualità non armonizzata dalle convenzioni sociali e dalle forme
istituzionali dei
legami sentimentali, tutto questo travalica i contenuti del testo, l'andamento della trama, la sequenza un po'
scontata delle scene e delle immagini per imporsi di per sé, tessendo un livello altro di comunicazione
e di
significati che corre parallelo alla drammaturgia testuale e che potrebbe tranquillamente prescindere dai contenuti
di questa. Contenuti, peraltro, nient'affatto "facili" e tutt'altro che riconciliati, seppure in qualche modo allontanati
dall'improbabilità dell'invenzione letteraria. Che citerò, intenzionalmente, di passaggio: la vicenda
è ambientata
agli inizi del ventunesimo secolo, in un'Europa federalista dominata dalla destra che è stata
sistematicamente
ripulita dall'Aids, dall'omosessualità e da altri elementi indesiderabili. Ma pochi irriducibili continuano
a sfidare
il nuovo ordine, e per questi funzionano cliniche di riabilitazione dove i "deviati sessuali" sono sottoposti a
terapie di recupero che dovrebbero indurli, fra violenze, torture sessuali e sopraffazioni, a provare disgusto e
vergogna per le pulsioni omosessuali. I personaggi sono: due giovani "malati" con storie molto diverse alle spalle
(uno, Anton, è un ex prostituto, al quale verranno mostrate le foto dei suoi ex amanti uccisi dall'Aids,
l'altro,
James, è un giovane di buona famiglia, già concupito dal padre e il cui amante è nella
lista dei desaparecidos);
un medico che alterna brutali interrogatori e pestaggi a sempre più espliciti tentativi di seduzione,
disegnando un
vischioso quadro di rapporti sadomaso leggibile come più generale paradigma del potere e delle sue
dinamiche
di assoggettamento; poi un sicario-violentatore, strumento del medico, al quale del resto è legato da una
segreta
e illecita relazione. E sarà proprio il violentatore a salvare le due vittime, commuovendosi di fronte ai loro
sentimenti e convincendo (col ricatto) il medico a liberarli. All'ultimo tentativo repressivo del medico risponde
l'elogio del desiderio, che si esprime con il pugno alzato di Anton proteso verso gli spettatori.
Pugno e sfida e resistenza Una trama che non ha
convinto, per didascalismo e involutezza, ma dalla quale emergono messaggi molto forti:
che un regime totalitario non può non controllare la vita sessuale degli individui; che il sesso non
irreggimentato
dalle regole sancite dalla società e consacrate dalla religione è potenzialmente trasgressivo e
costituisce una
minaccia latente per l'ordine che si vuole imporre; che un potere che non domini e censuri la sessualità,
ossia la
sfera più liberatoria degli individui, non ne avrà mai il pieno controllo; e infine, il messaggio
positivo dello
spettacolo: che al pericolo dell'Aids non si può rispondere con l'involuzione repressiva dei comportamenti
a
rischio, ma con l'affermazione di una sessualità gay che rivendica pienezza di sentimenti e
desiderio. Sarà facile, forse, il pugno alzato nel finale, ma come non esserne un po' emozionati e
totalmente partecipi?
Ci dice che i sentimenti sono rivoluzionari quando non accettati dalla società, che ogni mondo a parte
può
farsi laboratorio di libertà e di resistenza rispetto alla barbarie dell'omologazione, che la lotta contro la
cancellazione delle differenze deve essere lotta collettiva e rivoluzione sociale oppure non è. L'abbiamo
dimenticato? E' questo il significato del pugno chiuso: che è da prendere alla lettera, in uno spettacolo
dai
segni tutti molto espliciti e leggibili. Un manipolo di emarginati che si fa pugno e sfida e resistenza. Una
naïveté che non ha niente a che fare con la retorica accumulata in anni di svendita delle idee e delle
immagini
rivoluzionarie, le quali possono trovare nuova freschezza se pensate in una enclave di resistenza umana, o in
una nuova gioventù dell'idea, proiettata nel secolo a venire.
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