Rivista Anarchica Online
Scusandomi per l'intrusione
Cara redazione, in "A" 222
(Epistemologia - Varietà e discordanze), Giuseppe Gagliano istruisce un garbato processo
a carico dell'amico Francesco Ranci (Estremizzazione del dogmatismo, in "A" 220). Ranci - con il
quale già mi ero a suo tempo lagnato per l'infelice titolo - risponderà o non risponderà
come gli pare
ma, a me, le questioni sollevate sembrano invero di rilevanza cruciale. Riassumo molto in breve: Ranci aveva sostenuto che nel relativismo non si può trovare alcuna
"base
epistemologica che possa sostenere coerentemente i valori espressi dal movimento anarchico"; che lo
scetticismo "altro non è che una forma di conoscitivismo mistico, nel senso che ipotizza una
'realtà' per
principio inafferrabile"; e che "l'unica strada davvero percorribile, invece, è quella della consapevolezza
procedurale". Gagliano si stupisce un po' per l'espressione
"inconsueta" riguardante la "consapevolezza procedurale",
ritiene che essa non designi altro che il "benemerito realismo" e sostiene che sia ormai stata comprovata
"la giustezza e la inevitabilità del relativismo". Di passaggio precisa che "la vanificazione del
relativismo è venuta dalla cultura di destra" e chela tolleranza "è la conseguenza della presa di
coscienza
che non esistono accessi diretti alla realtà". Andando
con ordine, comincerò con il dire che, forse, Ranci confonde qualche suo desiderio con i
risultati della sua analisi. Non so se i valori espressi dal movimento anarchico siano incompatibili con
il relativismo - perché non ho una competenza storica adeguata -, ma so che il movimento anarchico
dal relativismo dovrebbe stare alla larga. Il perché è presto detto ed è detto in qualche
modo anche da
Ranci: ogni forma di scetticismo radicale è una forma di dogmatismo (la "realtà" è
"inconoscibile",
l'impresa scientifica è vana, tutto va bene o, come dicevano a Milano "se la va, la g'ha i gamb") e il
movimento anarchico, per il principio di tolleranza di cui si nutre, dovrebbe star ben lontano da ogni
forma di dogmatismo. Fatto è che, dalle
contraddizioni e dall'inconsistenza delle due visioni del mondo che, a turno, servono
il potere - il realismo e l'idealismo -, nasce e cresce, parassitariamente lo scetticismo. Da ciò quella
sorta di legittimazione con cui sopravvivono tra noi le religioni, i vescovi esorcisti, i parapsicologi, le
medicine alternative, la lettura dei tarocchi coniugata con la fisica quantistica e altre amenità. Tutta roba
che, dall'aura di sacralità di cui si ammanta la scienza figlia del "benemerito realismo", trae giovamento
e buoni auspici per il proprio futuro. Nel combatter l'idea
di una "inevitabilità" dello scetticismo, Ranci si preoccupa anche di proporre una
soluzione in positivo e accenna alla Scuola Operativa Italiana (Ceccato, Somenzi, Vaccarino al termine
degli anni Quaranta, poi, via via, altri) di cui, con il sottoscritto fa parte. Invece di parlare di una
"consapevolezza operativa", come fa Ceccato, preferisce - come credo di aver fatto anch'io in più di
una occasione - parlare di "consapevolezza procedurale", anche per non confondersi con
quell'operazionismo tanto in voga nella psicologia di cinquant'anni or sono con la quale nulla ha a che
spartire. In due parole, vuole sottolineare l'opportunità di poter ricondurre ogni nostro risultato alle
operazioni che l'hanno costituito - da cui l'indispensabilità di un modello dell'operare mentale. Il che,
al minimo, si guadagnerebbe il merito di vanificare ogni forma di trascendenza - e, di passaggio,
liquiderebbe la filosofia, l'epistemologia, l'aura sacrale della scienza, la pratica impositiva dei valori e
chi ha più nefandezze pestifere ne metta. Gagliano
sospetta Ranci di realismo ma, a ben guardare, si dimentica che Ranci ha anche scritto che
"le opzioni che mantengono il presupposto di una 'realtà' precostituita all'attività mentale (...) sono
tutte
esiziali". Affermazione perentoria che, a dire il vero, fino a quando non venga specificata la natura di
quel "costituire", potrebbe, più facilmente, come di fatto è stata in passato da parte di lettori
malevolmente distratti, essere tacciata di idealismo. Infine
mi sia lecito un cenno di carattere storiografico. Sulla prima pagina del Popolo d'Italia, il 22
novembre 1921 - in epoca, dunque, in cui il puro marxismo era andato a farsi benedire -, Benito
Mussolini scrisse "Relativismo e fascismo" dove saluta festoso la "fine dello scientificismo" e, con il
notorio entusiasmo, dichiara che la dottrina fascista è "super-relativista". Il contesto era quello della
teoria della relatività einsteiniana, ma nonostante che il Ministro della Cultura Popolare (in arte
Minculpop) in data 26 dicembre 1936 abbia poi ordinato di "non interessarsi mai più di qualsiasi cosa
che riguardi Einstein", per evidenti motivi, mi pare molto significativo. Capisco che l'argomento è vasto e che andrebbe ben approfondito, ma se poi mi rammento
che anche
Berlusconi si è subito dichiarato relativista - e se mi rammento di altre questioni che qui sarebbe lungo
dettagliare -, si può comprendere come possano sorgermi dubbi circa le certezze di Gagliano sulla
strenua opposizione fra relativismo e cultura di destra. Scusandomi per l'intrusione, ringrazio per l'ospitalità
Felice Accame (Milano)
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