Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 26 nr. 228
giugno 1996


Rivista Anarchica Online

Come il topolino insegna
di Enrico Bellelli

"Ho lavorato per alcuni anni in un istituto di ricerche farmacologiche. Mi occupavo di sperimentazione animale. Facevo crescere tumori nei topolini." Un racconto che è una testimonianza

La neve scendeva a novembre sulle strade della piccola città, e Carletto la attraversò in un tempo che parve brevissimo. Ricordò che la cittadina gli era sembrata vasta per la sua infanzia, fino ai suoi diciotto anni, quando la attraversava per andare a scuola, o alla villa, a spasso, e quello era il suo tempo e questo il suo spazio, che ora percorso in un passo veloce di freddo in un tempo fermo e istantaneo per raggiungere l'unico distributore automatico di sigarette in cima al colle. Pochi passanti, e selciato nuovo.
- Se rinascessi farei le stesse cose. Tranne la droga. O forse anche quella. Forse è proprio quello il centro del problema. Se sia in qualcosa che apre le porte della percezione, che amplia le direttrici della conoscenza e il gusto della vita, o un «veleno sociale», come ho letto oggi in un libro di scienze per la scuola superiore.
Veleno: - «sostanza che, per le sue proprietà chimico fisiche, produce alterazioni più o meno gravi della struttura anatomica o dell'attività funzionale di un organismo animale con il quale venga a contatto, fino anche a causarne la morte.» - Dal dizionario della lingua italiana.
In questo caso l'organismo è la società. Il superorganismo, già molto malato, di molti cancri conosciuti troppo.
Ho lavorato per alcuni anni in un istituto di ricerche farmacologiche. Mi occupavo di sperimentazione animale. Facevo crescere tumori nei topolini, e simulavo trombosi e infarti nei ratti. Provavo farmaci su di loro, poi li sacrificavo, come si diceva, cioè li uccidevo con i gas, effettuavo le necropsie, prelevavo ed esaminavo organi e tessuti.
Allevavo io stesso i ceppi più delicati e preziosi di animali. Si tratta di animali allevati in cattività da decenni, che per queste specie a cicli biologici assai brevi equivalgono ai secoli o millenni della storia. Allevati in consanguineità, con incroci tra fratello e sorella per centinaia di generazioni, quindi quasi identici geneticamente. Allevati in ambienti barrierati, cioè quasi sterili, a temperatura costante di 22°C, umidità costante, ciclo luce/buio di dodici ore. Insonorizzazione, mangime sintetico unico e uguale per tutta la vita, ad libitum. In gabbie di plexiglass trasparenti, sistemate su scaffali metallici in file e piani. In condizioni e ambiente che sono il più lontano possibile dall'ambiente naturale. Ambiente naturale detto senza alcuna connotazione di valore, o ideologica. È solo un termine scientifico.
Tutti sanno cosa accadrebbe di uno di questi piccoli animaletti reintrodotti in natura. Inadatti e privi di meccanismi di difesa soccomberebbero in breve tempo alle malattie o ai predatori.
Suppongo che qualcuno avrà anche studiato scientificamente il problema.
Io mi sono chiesto cosa sarebbe accaduto nel caso contrario; cioè di topolini selvatici catturati con trappole messi a vivere con i loro fratelli di stabulario barrierato.
Ebbene, dopo un primo momento ovvio di paura, di stress e di adattamento, i roditori selvatici attraversavano un periodo di relativo benessere, con l'impianto di riscaldamento, il cibo a volontà, la mancanza di predatori, l'acqua depurata, l'accesso alle femmine senza dover combattere. Tentavano però sempre di fuggire, sempre come prigionieri, e portavano una ventata di selvaticità nelle gabbie e nelle famiglie con cui vivevano. La vita monotona dei topolini di allevamento era sconvolta da odori nuovi ed eccitanti, si muovevano di più, seguivano per settimane i nuovi arrivati di fuori, lottavano di più, si accoppiavano di più, tentavano anche essi la fuga. E i roditori selvatici insegnavano ai loro compagni di gabbia trucchi e giochi, destrezze mai immaginate per il cibo, rapidità, sconvolgimenti delle gerarchie tradizionali, tecniche di fuga. Tutto ciò durava per settimane, o mesi, durante i quali il selvatico indomito stupiva l'allevatore per energia, vigore, fantasia, capacità di conquistarsi un ruolo gerarchico trasversale, indipendenza. Ma contemporaneamente, impercettibilmente, iniziava a deperire. Ad ammalarsi. Tutti i topolini selvatici introdotti nell'ambiente esasperatamente artificiale sono morti in meno di un paio di mesi. Di malattia, di disturbi metabolici, forse di mancanza di fattori nutrizionali essenziali, uccisi dalla reazione di qualche grosso maschio dominante a cui avevano sconvolto la gerarchia, schiacciati nelle chiusure delle gabbie nel continuo tempestivo salto o nascondiglio per la fuga. O si lasciavano morire, morivano di malinconia. Di tutti i topolini selvatici rinchiusi nello stabulario prigione del benessere, solo uno riuscì a fuggire. Sparì dalla gabbia, non si sa come né da dove, e dalla stanza chiusa. Io spero che sia riuscito a trovare la strada, per i corridoi bianchi di linoleum, attraverso i filtri dell'aria condizionata, attraverso le porte e le finestre sbarrate. La strada della libertà.
E qui torno al problema della droga. Come veleno, o come panacea di tutti i mali dell'anima. Se il mio topolino selvatico nel sistema innaturale avesse assunto sostanze psicotrope, per alleviare le proprie sofferenze, avrebbe fatto a sé stesso bene o male? E i topi di allevamento, nel loro puro benessere materiale, in assenza di emozioni, privi di ogni visione e conoscenza, scevri da ogni desiderio di trasgressione, soprattutto lontani e ignari da ciò che chiamiamo natura, in cui e da cui e in funzione della quale sono stati generati, vivono bene o male? È il cibo, sono le calorie a determinare la qualità ottimale dell'oikos, la casa, la terra? In questo senso intendo bene o male.
L'elogio della fuga. La droga come fuga. Fino a quando non si trovino la fessura nella gabbia, la serratura nella porta, il buco nel muro. O anche se non si dovessero trovare mai, perché non ci sono (ma ci sono sempre, come il topolino insegna), per continuare a sognare, per non soffrire troppo, per immaginare nel plexiglass colori e crepe, per credere nei buchi, e cercarli con ostinazione. E morire.