Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 27 nr. 233
febbraio 1997


Rivista Anarchica Online

La Straniera
di Marc de' Pasquali

Un anno per l'elaborazione del lutto di uno dei massimi poeti del Novecento italiano, purtroppo pochissimo conosciuta, trascurata, dimenticata, che solo nella morte famelicamente sbanca invendute edizioni Garzanti tipo Documento 1966-1973 nello spazio di una settimana.
Amelia Rosselli è nata a Parigi il 28 marzo 1930, esule figlia di Carlo fondatore della brigata Giustizia e Libertà (a cui aderì anche Lalla Romano) accoltellato dai fascisti con il fratello Nello. Sua madre, inglese, la portò all'obitorio a vedere i cadaveri del padre e dello zio sventrati. Aveva sette anni. Coi due fratelli fugge in America passando per l'Inghilterra. A tredici anni le muore la madre. Torna in Italia nel '46, viene aiutata da Carlo Levi. Con il cugino Aldo (oltre all'iniziale del nome composto da un suono emesso dal petto), condivide traumi scrittura povertà, e dal '92 il miserando sussidio della legge Bacchelli.
La Rosselli si distingueva innanzi tutto per generosità e disponibilità cavalleresca. Esile e stanca, trovava comunque l'energia di presentare poeti nuovi, di partecipare a letture senza compensi e rimborsi, seppur in apnea, a disagio, nervina, dolcemente mai appariscente o indifferente, al contrario delle teatrali furberie e follie quasi arroganti all'Alda Merini, per esempio.
Pier Paolo Pasolini la conobbe al Gruppo '63 (e l'll febbraio di quell'anno Sylvia Plath si suicidava, e in quello stesso giorno, in quello stesso mese, la sua traduttrice Amelia Rosselli, inseguendola, la segue nel 1996). Ammirato la presentò a Vittorini che la fece lavorare a Il Menabò, dopo la pubblicazione dell'opera prima Variazioni belliche. Seguono Diario ottuso, Serie ospedaliera (1963-1965), la collaborazione a Il Verri che già fu nel destino di un'altra suicida trascurata: Antonia Pozzi.
Per la Rosselli la scrittura, quanto la musica, è ereditaria; nel suo caso scrivevano la nonna paterna, lo zio, il padre che stese dei saggi di economia per Einaudi. «Con la malattia in bocca» e la potenza di un dio composito, lei leggeva «deciso e conciso» tanti blu blu «verde saliva», tante poesie senza titolo frammiste ai misteriosi gialli di Van Gogh. Suoni dodecafonici dall'accento strano, mezzo straniero, dalle erre accavallanti come i suoi denti... Sognava di diventare un'organista, aveva studiato da direttore d'orchestra, disegnava cerchi e triangoli, forme geometriche colorate, su lucidi, o segni astratti e vivaci, su carta. Ha viaggiato soprattutto all'Est, prima della caduta del muro di Berlino. Apprezzava Antonio Porta che tradusse il suo Sleep. L'hanno codificata ermetica, alla Montale. Le similitudini servono a rassicurare o acquietare pigrizie, nel caso della Rosselli è però irritante. Lei era coltissima, sagace, speciale, prodiga nell'atto coraggioso dello scrivere, introvabile in altri poeti, anche tra i grandi. Come già per la Cvetaeva, anche per lei la parola era suono, e i suoi versi erano concepiti con ritmo senza metrica, una prosodia di dolce e aspra interrogazione in un soffiare idiomatico, nervetto, esclamativo, che controllava con la sua voce (che porteremo sempre in cuore), rigo dopo rigo nella spavalderia del suo trilinguismo (componeva sia in inglese che in francese che in italiano). Una «testa purtroppo troppo chiara», correlata da occhiali ovaloidi o squadrati, da uno sguardo allarmato, che scuoteva insieme a delle manone artritiche, alle due rughe verticali tra le sopraciglia.
Trasparente è una sua foto divenuta copertina in un'edizione SE che contiene il poema La libellula, un tragico girotondo dal sottotitolo Panegirico della libertà (1958). Esiste anche un documentario (che Raitre trasmise in aprile alle due di notte, con molto seguito suppongo). «La mia stralunata morte» vibra «in celle di torture in tutto il mondo»... Lei stando sempre chiusa e isolata, sentiva tutto. E allora, se proprio, l'ossessione della classificazione me la fa avvicendare in qualche paradiso perduto all'oracolare Emily Dickinson.
Libertaria discreta, buffa, simpatica, piena di humour e self control nelle sue rare uscite mondane, nel suo autoricoverarsi in clinica, pativa la malattia degli sbalzi umorali, delle crisi d'ansia, delle depressioni che la facevano ricorrere a cure mediche, depauperandosi e smorzandosi con psicofarmaci (che l'addormentavano anche alle cene), abituandosi ad esistere tra una crisi e l'altra, tra sofferenze isolate e dinamismo vitale. «Essere come voi non è così facile; sembra ma non lo è sembra» (da Appunti Spari e Persi). Poi furono più forti i ricordi, i dolori, le voci persecutorie, le visioni e le alterazioni, l'iterata sensazione di sentirsi ostaggio dei servizi segreti della Cia. E i suoi ultimi dodici anni si riempirono sempre più di silenzi e tormenti, di tentati suicidi, di richieste di aiuto, pure di notte, non solo al ristretto giro di amici (che per lei facevano anche la colletta per il kerosene). Il freddo dei poeti.
«La violenza fa male perché è benevola». E un giorno d'un febbraio bisestile, le urla mentali, l'acre buio delle minuzie ciondolanti, via tutto - davvero, pure la forza di gravità all'ora in cui sempre meno usciva per prendersi un tè e una fetta di torta... Stava per buttarsi dal ballatoio della sua mansardina tapezzata di libri dietro piazza Navona; una vicina, vedendola, la prega di non farlo. Allora lei - gentile, si trasferisce in cucina, accosta una sedia. E dalla finestra del regno dei mestieri, senza dover sentire le sirene dei pompieri o dover badare a scomposizioni in fieri, scende «tra le grandi vie» del quinto piano accompagnata dalle foglie d'un albero lontano.
«Il mondo è sottile e piano: pochi elefanti vi girano, ottusi».