Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 27 nr. 236
maggio 1997


Rivista Anarchica Online

Noi, Veltroni e gli albanesi
di Carlo Oliva

Nessuno è tenuto per principio a trovare simpatici gli albanesi (o gli zingari, i marocchini o...), ma quando si tratta di rapportarsi con costoro è tenuto, se alla sinistra vuole ancora riferirsi, a cercare nel suo patrimonio storico quei valori che possono consigliarlo di superare quell'eventuale antipatia. Per esempio, quello della tolleranza

Brutti tempi, per la sinistra, quelli della crisi albanese. Non solo per lo sgradevole senso d'impotenza da cui ci siamo sentiti prendere tutti di fronte a quanto accadeva dall'altra parte del Canale di Otranto e sulle nostre coste
inevitabilmente si riverberava. Non solo perché il soggetto principale di questa impotenza è sembrato essere a molti proprio quel governo che della sinistra avrebbe dovuto essere l'espressione, e che altro non ha saputo fare che cacciarsi nell'alternativa, ideologicamente un po' fastidiosa, tra blocco navale in difesa dell'ordine pubblico italiano e intervento militare in difesa dell'ordine pubblico albanese, che non è cosa che da un governo "di sinistra" ci si dovrebbe aspettare, per quanta poca fiducia nei governi in genere si sia abituati a nutrire. Non solo perché nel vuoto di iniziative che così drammaticamente si evidenziava si sono affrettate a inserirsi, secondo una logica del tutto prevedibile, le autorità militari, in cerca, come sempre, di una funzione e di una visibilità in base a cui giustificare la loro esistenza. Non solo per i disastri cui tutto questo ha portato, a partire dal tragico speronamento del venerdì santo. Ma soprattutto perché quella crisi è stata l'occasione di una specie di sgradevolissimo esame di coscienza. Perché dalle file stesse dello schieramento progressista si sono levate voci e opinioni che non avremmo voluto sentire.
Eppure le abbiamo sentite tutti, o almeno ne abbiamo sentito riferire. I sondaggi di opinione. I servizi giornalistici. Le telefonate a "Italia Radio". I microfoni aperti di "Radio Popolare". La quantità di interventi di persone che tutto autorizzava a sentire, almeno in senso generico, dalla nostra parte e che richieste di dire la loro in tema di solidarietà e assistenza ai profughi albanesi, dichiaravano in presa diretta che loro di albanesi fra i piedi proprio non ne volevano. Che di aiutarli o di solidarizzare con loro proprio non ci pensavano. Che ogni paragone con gli emigranti italiani del passato era improprio e fuorviante, perché i nostri maggiori raminghi per il mondo erano bravissima gente, lavoratori seri e coscienziosi, pronti a integrarsi nella società che li accoglieva e ben lieti di contribuire al suo sviluppo, mentre gli albanesi, in genere, sono una banda di lazzaroni assai trucidi con cui meno si ha a che fare meglio è (e non parliamo, naturalmente, delle albanesi). Onde una disponibilità diffusa, e neanche tanto inespressa, ad accogliere con entusiasmo gli inviti che da tutt'altre parti si levavano a ributtarli tutti in mare.
E come si reagisce di fronte a dichiarazioni del genere? Le si lascia cadere come qualcosa che non ci riguarda, perché chi le esprime, al di là delle etichette e delle definizioni correnti, con la sinistra non ha evidentemente niente a che fare, o le si assume come prova del fatto che la sinistra, oggi, non si lascia più condizionare dai vecchi tabù, anche a costo di lasciar spazio anche al razzismo e all'intolleranza? La domanda può sembrare ingenua (nel
senso di troppo facile), specie su queste colonne, ma è un fatto che, da un po' di tempo a questa parte, la tendenza a lasciar cadere come zavorra i vecchi valori e le vecchie certezze è talmente diffusa, nella sinistra, che non si capisce perché non allargarla a queste manifestazioni estreme. Non ha scrupolo di farlo, per esempio, il leggendario Walter Veltroni, ulivista doc e vicepresidente del consiglio (almeno alla data della consegna di questo articolo), che in un dotto articolo in prima pagina del Corriere della Sera (giovedì 3 aprile ) non si perita a considerare anche quelle voci come interne al suo schieramento.
Certo, dal suo punto di vista, l'affermazione è un po' interessata. Anche lui e i suoi colleghi di governo, in occasione dei provvedimenti presi per fronteggiare la crisi albanese, sono stati accusati con una certa energia di aver smarrito l'identità ideologica originaria e l'accusa evidentemente gli brucia. Lui di sinistra si considera ancora. Solo che adesso "la sinistra deve governare" e governando, si sa, si imparano tante cose. Si impara "la distanza tra le parole e i fatti". Si impara a dire delle "verità scomode", per esempio in tema di pensioni o di rigidità del lavoro. Si impara che non esiste più, anche per chi sta da quella parte, "una sola verità". Perché (attenti) "il popolo di sinistra che invoca sicurezza a San Salvario è diventato di destra? Lo sono diventati gli ascoltatori di Radio Popolare? Lo è Giuliano Amato, che vuole riconoscere i diritti dell'embrione? Lo è Livia Turco, che non vuole la liberalizzazione della marijuana?" E potrebbe - dice - continuare a lungo in quella che è una vera e propria esemplificazione a discarica (non troppo lontana da quella che in linguaggio processuale si chiama "chiamata di corrreità"), ma non è priva di interesse. Tanto che può valere la pena di dedicargli un minimo di analisi.
Lasciamo perdere, per l'occasione, Giuliano Amato e Livia Turco: il discorso ci porterebbe troppo lontano. E lasciamo perdere anche il problema di cosa sia diventato Walter Veltroni, che più di tanto non ci interessa. Ma il fatto è che il bravo giovane coglie, probabilmente senza rendersene conto, il cuore del problema, quando scrive che la ragione stessa della sua vita politica è la volontà di coniugare "il massimo di radicalità con il massimo di realismo". Vuol dire, naturalmente, che anche il più zelante rivoluzionario deve tener conto della realtà e che se lui di rivoluzioni ne ha fatte pochine è colpa della realtà che si è trovato davanti (sinistra intollerante compresa), che potrebbe anche sembrare una cosa sensata, ma forse lo è solo fino a un certo punto. Perché il poveraccio non si rende conto che quella di realismo, in politica come altrove, non è una categoria ovvia come sembra. In effetti,
il giorno che i Veltroni di questa terra si renderanno conto che la Realtà non è qualcosa di dato una volta per tutte chissà da chi, un dato a cui non si può far altro che sottomettersi con quanto più zelo si trova, ma qualcosa che va anch'esso definito e costruito, perché gli unici valori che ci si trovano sono quelli che ci abbiamo messo noi, sarà un gran giorno per tutti. In fondo chi vuole il cambiamento (e la rivoluzione è solo un tipo di cambiamento un po' più radicale di altri), vuole sempre qualcosa che non c'è, visto che se ci fosse non ci sarebbe motivo di darsi da fare per realizzarlo. E da questo punto di vista il vecchio slogan sessantottesco che esortava chi volesse essere realista a chiedere l'impossibile non era solo un paradosso. Ma Veltroni, si sa, all'epoca era ancora un bambino.
Il fatto è che la sinistra non è un contenitore in cui chi c'è c'è, qualsiasi idea gli apssi per il capo. "Essere di sinistra" è un impegno, non un'appartenenza (e il discorso, naturalmente, vale per tutti, compresi gli anarchici, cui finora nessuno ha pensato di chiedere cosa pensino degli albanesi, e speriamo bene).
E' un impegno difficile, certo, e anche contraddittorio, perchè è vero che su una quantità di problemi si finisce per avere delle opinioni diverse e per proporre diverse soluzioni. E', in sostanza, un tipico impegno di schieramento. Il che significa che su ogni problema ci impone di schierarci, e che quello che ci distingue dagli altri sono solo i valori su cui ci schieriamo. Nessuno è tenuto per principio a trovare simpatici gli albanesi (o gli zingari, i marocchini, i meridionali, i neri e via andare), ma quando si tratta di rapportarsi con costoro e di organizzare la propria convivenza con loro è certamente tenuto, se alla sinistra vuol ancora riferirsi, a cercare nel suo patrimonio storico quei valori che possono consigliarlo di superare quell'eventuale antipatia. Per esempio, quello della tolleranza, che non è una manifestazione di buonismo, ma è il concetto su cui, da Voltaire in poi, si è costruito l'edificio della democrazia occidentale. Se si trascura questo elementare dovere civico, si finirà sempre con il ridursi, stringi stringi, alla difesa della Realtà data. Quella in cui di albanesi e altri estranei tra i piedi non ce ne sono, ciascuno è libero di dar sfogo alla propria intolleranza e a dispiegare il suo egoismo, ma per fortuna i vari Veltroni sono (o potrebbero essere) vicepresidente del consiglio. Che, con rispetto parlando, non mi sembra poi un ideale così affascinante.