Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 27 nr. 241
dicembre 1997 - gennaio 1998


Rivista Anarchica Online

L'anarchia della comunità
di Franco Melandri

I complessi rapporti tra individuo e società analizzati da una prospettiva libertaria

Non vi è dubbio che questa fine di secolo e millennio, non fosse che per quel residuo di millenarismo che ancora pervade in vario modo la nostra cultura, costringa chiunque senta l'esigenza di cambiamenti del mondo in cui viviamo e della vita che conduciamo ad interrogarsi su questa stessa esigenza e su quanto la motiva. Meno di tutti possono quindi sfuggire a tale compito gli anarchici, i quali, proprio per la radicalità della loro proposta e della volontà trasformativa che li anima, non possono che interrogarsi non solo, e non tanto, sul significato dei cambiamenti storico-sociali cui assistiamo, quanto sui fondamenti stessi del loro anarchismo. Lo scopo di tale
interrogazione dovrebbe essere, innanzitutto, rendere l'anarchismo quanto più possibile "inattuale" in senso nietzscheano, cioè quanto più possibile indipendente dai sussulti dell'"attualità". Una indipendenza dall'attualità che, fra l'altro, gli permetterebbe di depurarsi dalle scorie positiviste, hegeliane, storicistiche o beceramente illuministiche che, pur se rivelatesi utili in certi momenti storici, oggi fanno velo alla radicalità della questione che l'anarchismo, nel suo stesso darsi, pone. E' solo facendo tale necessario lavoro di continua chiarificazione e interrogazione che l'anarchismo può trovare un modo di "stare" nel presente che non significhi un banale "addolcimento" o una, apparentemente contrapposta, "radicalità", di fatto residuale. Ambedue questi modi di porsi, infatti, non solo sono figli di quei "modi" del pensiero di cui l'anarchismo si deve liberare, ma sono proprio il maggior freno alla possibilità che l'anarchismo riscopra se stesso e "diventi quello che è sempre stato", cioè "apertura" di una civiltà realmente altra rispetto a quelle storicamente compiutesi. Una "civiltà altra" che non significa tanto "contrapposta" all'esistente o a un aspetto di questo elevato architrave (come, banalizzando, quasi sempre avviene), quanto possibilità di "abitare" continuamente e interrogativamente quell'"accomunamento originario" che ci fa "esseri umani".
In questo cammino di ricerca e interrogazione uno dei primi "luoghi" del pensiero su cui investigare non può che essere quello del "essere in comune", cioè di quanto ci fa "individui" così come fa la "società", senza il quale la
stessa idea di libertà, che dell'anarchismo è architrave, non avrebbe senso alcuno. E' questo il tema della conversazione con Rocco Ronchi, un saggista e filosofo che al tema della comunità ha dedicato molte delle sue riflessioni e uno dei suoi ultimi libri: Luogo comune.

Il termine "comunità" è da sempre usato con significati diversi, spesso opposti. Questo probabilmente succede perché, quando ci si interroga su "che cosa" sia la comunità, ci si trova di fronte al paradosso per cui quanto più si tenta di definirla tanto più essa sembra imprendibile...

Il problema della comunità è un problema di antropologia filosofica, cioè di definizione dell'uomo in quanto tale. Porre il problema della possibilità della comunità significa evidentemente presupporre che la comunità non sia un dato, una evidenza, ma qualche cosa da raggiungere. Ma ritenere che la comunità sia un obbiettivo da raggiungere denuncia di per sè una pre-comprensione dell'essere umano di tipo individualistico: si dà per scontata una concezione atomistica dell'uomo e su questa base si pone il problema dell'essere insieme, dell'essere in comune. Occorre chiedersi, però, se tale impostazione sia fondata, o se, all'opposto, non si debba rovesciare questa prospettiva assumendo l'"essere in comune" come dato originario. La conseguenza di questo rovesciamento è che la comunità, da problema che era, diventa una evidenza, ma è una evidenza che si è occultata e che va riattivata. Una possibile strada per riattivare questa evidenza è quella fenomenologica, la quale mostra come non sia pensabile alcun comportamento intelligente, alcuna forma di pensiero, se non nell'orizzonte di uno spazio comunitario. Infatti c'è comportamento intelligente, c'è pensiero, solo nel momento in cui appare una relazione di rinvio, nel momento in cui, cioè, c'è un dito che indica qualcosa a qualcuno. Per dirla con Heideggr, il linguaggio, invece di essere uno strumento utilizzato dall'intelligenza, è l'accadere stesso dell'intelligenza, ed è soltanto là dove accade il linguaggio, soltanto là dove accade l'indicazione originaria, che accade anche l'uomo, il quale, quindi, si dà sempre in un "essere in comune" perché è all'altro che si indica. La comunità è quindi, in primo luogo, lo spazio aperto dall'accadere del linguaggio, dal darsi di quelle distanze che pongono in relazione. Per questo essa è un dato sostanziale e non accidentale. Stiamo ribadendo un concetto antico: l'uomo è costitutivamente un essere sociale. Va però ancora sottolineato che quando diciamo che l'"uomo è un essere sociale" stiamo già parlando di uno degli oggetti che vengono indicati nello spazio aperto dal linguaggio. L'uomo come animale sociale è già uno dei risultati, una delle interpretazioni, di questa indicazione originaria.

Dire che l'essere umano è originariamente "in comune"mi pare porti a due questioni. 1) L'mpossibilità di distinguere fra una comunità "naturale" e una società "costruita", e quindi l'illiceità di questa distinzione, che pure è alla base di molte teorie storiche e sociologiche; 2) l'infondatezza delle teorie basate sulla concezione dell'uomo come individuo, cioè di tutte le teorie su cui si fonda la modernità politica...

Affermare l'originario "essere in comune" dell'uomo vuol certo dire contrapporsi radicalmente alla tradizione giusnaturalistica, a quella contrattualistica, alla finzione dell'individuo libero e sovrano e quindi alle tradizioni che sono alla base del liberalismo classico, il quale parte dalla finzione dell'individuo libero, che esisterebbe di per sé e che solo in un secondo momento, per ragioni eminentemente utilitaristiche, entrerebbe in rapporto con l'altro uomo per fondare la società politica al fine di garantirsi quella sicurezza che non ha nello stato di natura. Allo stesso modo la celebre distinzione proposta da Ferdinand Tönnies fra comunità e società va ripensata. Certo essa è lecita dal punto di vista descrittivo, in quanto effettivamente sul piano storico o antropologico possiamo classificare le modalità in cui gli uomini vivono insieme. Conseguentemente, per esempio, possiamo stabilire che si dà comunità nel momento in cui il legame che unisce è di tipo affettivo, organico, è la condivisione di indiscutibili valori, mentre invece si dà società quando il legame è meccanico, basato sull'interesse e sull'utile. Dal punto di vista teoretico, invece, se la comunità nel senso prima accennato è il dato originario, la società altro non è che una modalità della comunità.

Si potrebbe forse dire che quanto viene indicato quando si parla di società altro non è che la consapevolezza del proprio essere in comunità?

La società è infatti l'"essere in comune" reso possibbble dalla interrogazione rivolta all'accomunamento originario, una interrogazione che non è possibile se non sul fondamento della consapevolezza di tale accomunamento. Ma la comunità consapevole di sé è una comunità già segnata dalla "crisi", dal momento che la dimensione della consapevolezza rende oggetto del pensiero, del dibattito e, quindi, della decisione (della krisis, che in greco significa appunto decisione, giudizio) ciò che come tale non esisteva prima: non si dà infatti una comunità immediata, irriflessa, naturale. Questa sarebbe la comunità degli insetti e non degli uomini e solo per omonimia si potrebbe dire ancora comunità. La comunità umana è invece storica e come tale essa è il dato originario di un essere storico. Questo significa che su di essa da sempre pende l'ipoteca della possibile crisi, dal momento che è proprio la crisi ad istituirla, a renderla visibile, ad inaugurarla. Tale crisi può arrivare fino ad una completa alienazione della comunità in una società di atomi legati soltanto da rapporti di scambio, ma non può arrivare ad annullare definitivamente il riferimento dell'esistenza umana ad una dimensione comunitaria, perché questo significherebbe semplicemente l'annullamento dell'umano. Se la comunità rappresenta la "terra" su cui cresce un'esistenza umana allora il riferimento alla comunità sarà necessario fintanto che ci sarà "uomo". Questa comunità potrà mostrarsi nella forma della nostalgia, dell'angoscia per qualcosa che è andato perduto, ma non può scomparire, perché se scomparisse l'uomo sarebbe sradicato e quindi morirebbe. E' per tutto questo che parlare di comunità non può significare il rinvio ad un insieme solido di certezze, valori, principi condivisi, vale a dire alla comunità in senso sociologico o antropologico. Parlando di comunità come radice intendo piuttosto qualcosa che, nell'oscillazione tra l'essere e il nulla, afferisce più al nulla che all'essere, cioè rimanda di più allo spazio e alla distanza che permette il rapporto, piuttosto che ai termini, ai "pieni" (certezze, valori, principi) che sono istituiti da questa distanza. Ciò di cui stiamo parlando è, in un certo senso, il problema del relativismo culturale, il quale sostiene che vi è una incommensurabilità tra le varie culture, ognuna delle quali sarebbe chiusa in se stessa, nel suo insieme di valori, nella sua specificità. A me pare che questo discorso sia valido solo parzialmente, perché la condizione di possibilità di ogni cultura è la stessa. Quando parlo di comunità, infatti, non intendo questa o quella comunità data, ma la radice che è alla base di esse, il loro fondamento, perché quel vuoto che rende possibile il rapporto è lo stesso, anche se storicamente è stato "riempito" in vario modo. Con questo si torna al discorso fatto prima: quando parliamo di comunità non parliamo di qualcosa che viene dopo l'uomo, ma della sua radice, della sua stessa essenza. Per questo, alla fine gli uomini sono "uno"...

Anche la nostra civiltà è fondata sull'idea che l'uomo sia "uno", quindi che via sia una universale "umanità" definita dal cartesiano "cogito ergo sum" e dalla potenziale articolazione razionale di tale "cogito", tuttavia tale "umanità" non l'abbiamo mai trovata nelle civilizzazioni diverse dalla nostra...

Questo accade perché la logica universalistica è un modo, indubbiamente efficace, di abitare quella distanza costitutiva che mette in rapporto con l'altro. Lo spazio logico in rapporto non è altro, infatti, che un modo di articolare e di abitare la comunità come dato originario, come radice. Questa radice, che è trascendentale, che è cioè condizione di possibilità e che attraversa tutte le varie culture, non va intesa in senso logico, bensì in senso

esistenziale. Un'idea di quanto intendo dire potrebbe darcela il fatto che, a ogni latitudine, gli uomini muoiono e il pensiero dà voce, in modi diversi, alla mortalità dell'uomo e alla conoscenza che deriva da questa esperienza. Per cui quando si dice che il pensiero è per definizione comunitario in quanto indicazione e che quindi l'"essere in comune" per l'uomo è radice e non accidente, si sta dicendo una cosa banalissima, vale a dire che bisognerebbe pensare l'essere in comune come la stessa cosa dell'essere mortale. E' chiaro che poi ogni cultura elaborerà le sue interpretazioni della mortalità dell'uomo - quindi elaborerà degli specifici sistemi di valori e significati che giustificano e danno valore a questa mortalità -, la quale però resta assolutamente comune. Ed è la consapevolezza di questa finitezza, questo "essere per la fine", ad essere la radice trascendentale, quindi non empirica, di ogni evento culturale, di ogni cultura, la quale poi riempie quel vuoto, quello spazio, con i propri sistemi simbolici. L'ipotesi del relativismo culturale è basata sul presupposto dell'incommensurabilità e della totale autonomia dei "giochi linguistici", come li chiamava Ludwig Wittgenstein. Per Wittgenstein il significato di un qualsiasi termine è dato dal suo uso all'interno di un determinato gioco linguistico. In un altro contesto, in un'altra pratica di vita, esso assume un altro significato irriducibile al precedente. La parola libertà, ad esempio, nella prosa di un filosofo cristiano del V secolo dopo Cristo non ha lo stesso senso che ad essa potrebbe dare un sostenitore del liberismo economico ed è inutile tentare di rintracciare un significato generale che li comprenda in estensione entrambi. La possibilità di una comunicazione tra giochi linguistici radicalmente dissimili come lo possono essere culture lontane resta così preclusa (bisognerebbe limitarsi a una descrizione). Ora io credo invece che ci sia un punto di fuga da tutti i giochi linguistici, un punto di fuga che ci permette di parlare di essi e di porli in rapporto tra di loro. I1 paradosso del relativismo culturale, che è ancora una forma di sguardo eurocentrico, sta, infatti, proprio nel fatto che il relativismo si dà solo ad un occhio che coglie il relativo, quindi ad un occhio che non può essere relativo, mentre se il relativismo fosse teoreticamente fondato non si potrebbe nemmeno parlare di relativismo. Se non ci fosse questo evento di un singolare/plurale - singolare nel suo accadere, plurale nelle interpretazioni, cioè nelle varie culture, nei vari modi di vita - non sarebbe poi nemmeno pensabile quello che è un dato di fatto quotidiano, cioè il dialogo tra le culture. Anche se, infatti, interpretiamo le varie culture e le varie comunità come giochi linguistici tra di loro separati, non possiamo negare che abbiamo assistito alla occidentalizzazione del mondo, una occidentalizzazione che non è stata solamente lo sterminio degli altri popoli, ma anche l'assimilazione e la riformulazione di determinati giochi linguistici. Ma se l'occidentalizzazione non è stata solamente lo sterminio dell'altro, se è stata anche l'"assorbimento" dell'altro, vuol dire che non era vero che le culture erano impermeabili tra di loro. C'è quindi un dato innegabile: la comunicazione accade ed il suo accadere presuppone il darsi di un luogo comune che non può essere collocato all'interno di un ambito, ma deve essere un luogo di transito, una "soglia". Questa soglia non può essere un valore, un significato, una pienezza, ma deve essere un "vuoto", una mancanza, perché, come dicevamo prima, solo la mancanza permette il rapporto, l'articolazione, l'indicazione. Ma qual è questa mancanza agente in ogni latitudine e in ogni epoca? Per quanto sia funebre, quale altro nome si può dare a questa soglia se non l'"essere per la morte", cioè il darsi della consapevolezza di un inconoscibile - della morte, infatti, sappiamo che accade, ma non possiamo dire "cosa" essa sia -, un inconoscibile che costituisce l'umano come tale? Non è forse lì, nell'apertura di una consapevolezza senza nome, che si trova il punto di fuga da ogni gioco linguistico? Non si trova lì la fessura attraverso la quale si sfonda il proprio gioco linguistico? Ecco perché, secondo me, ha senso quel percorso che afferma l'esistenza di un rapporto strettissimo tra morte e comunità (un rapporto che, fra l'altro, è anche quanto fonda la filosofia come tale, cioè come ricerca di una "sapienza"). Se, infatti, la comunità che è radice non è quella comunità che viene spacciata come tale da chi, come accade con i nazionalismi o i comunitarismi, la intende nel senso di una interpretazione di questa soglia, è allora chiaro che la comunità/radice non può abitare che quell'indicibile che è la mortalità dell'uomo. E' nella mortalità dell'uomo che si trova la sua radice comunitaaria, anche perché, come dice il vecchio detto, la morte rende tutti uguali.

In questo abitare la mortalità, in questo darsi dell'umano alla luce della morte, possiamo leggere la radice del rito di passaggio praticato da molte culture. In questo rito devi simbolicamente morire perché solo misurandoti con la tua stessa mortalità, quindi costituendoti su di essa, puoi poi essere parte viva e attiva della comunità dei vivi, cioè di coloro che "sono" sapendo che non erano e sapendosi destinati a non essere più. Questo rapporto costitutivo, sempre presente e "abitato", fra morte e società si pone però in rotta di collisione con la concezione, fondativa per l'Occidente, per cui, invece, la comunità deve non tanto abitare/governare la mortalità che la permea, quanto scacciarla definitivamente. E' una concezione per cui la vita è il contrario della morte, e non ciò che si dà alla luce della morte stessa, ed è per difendere questa vita astratta - che quindi non è, ovviamente, la vita dei singoli esseri umani, ma la vita della comunità stessa - che diventa necessario creare un "oltre" della comunità, cioè una sorta di "quintessenza" della comunità intoccabile dalla morte, che della morte si faccia sovrana. Questo, mi pare, è in sostanza quanto dice Hobbes nel Leviatano: il potere può difendere la comunità dalla morte solo ponendosi fuori dalla mortalità che la innerva, cioè ponendosi come immortale, quindi essendo veramente quell'"assoluto che si fa storia" di cui parlava Bakunin...

E' così, infatti. Il riferimento a Hobbes è importante, perché il Leviatano è, da un certo punto di vista, la più perfetta teorizzazione della "macchina sociale", cioè della società senza comunità e del puro potere, di ciò che deve a qualsiasi costo eliminare la paura della morte. Il Leviatano di Hobbes, proprio perché è l'artificio contro la morte e contro la paura della morte, può anche dispensarla pur di liberare dalla sua paura. E' per questo che può uccidere l'oppositore: perché esso riporterebbe dentro la città il demone della guerra civile, cioè della morte generalizzata. Il Leviatano si costruisce tutto sul rapporto negativo con la morte, e non a caso l'immagine che Hobbes ha dell'uomo prima del Leviatano è l'immagine dello stato di natura, cioè della morte generalizzata, ma questo è un chiaro esempio di ideologia, di un movimento retrogrado del vero, cioè di una proiezione nel passato di quanto è divenuto possibile col Leviatano che è, appunto, il potere generalizzato di dare la morte.
Nel potere come lo ha inteso l'Occidente, c'è anche un altro punto critico: è qui, infatti, che un mezzo diventa un fine. Il potere, anche nella genesi teorizzata da Hobbes, nasce come mezzo, è ciò che mi permette di fare, quindi dovrebbe, logicamente, avere il suo fine fuori di sé, in quanto il potere permette di fare, ma il potere, per una sorta di alienazione, diventa un fine in sé, il mezzo diventa un fine. Questo processo, in forza del quale i mezzi diventano fini, è un modo abbastanza chiaro di sottrarsi al proprio destino, come una persona che si affanna a raccogliere denaro per vivere e poi, alla fine della vita, si rende conto che la vita è passata senza che lui se ne accorgesse. Come dice Elias Canetti in Massa e Potere, il potere, la ricerca del potere, la lotta per il potere, è una difesa ansiosa che, fondandosi sull'illusione di scacciare simbolicamente la morte attraverso l'opera, la monumentalità, la durata, permette di dimenticare, di accantonare, il problema fondamentale della morte. Non bisogna anche dimenticare, però, che in fin dei conti il potere è un puro differenziale: noi parliamo sempre del potere in senso positivo, come di una "cosa", di una istituzione, ma potere non è una "cosa", è una differenza di intensità. Nietzsche lo mostra bene: potere vuol dire "potere più di prima", quindi vuol dire volontà di potenza, cioè una volontà che non vuole solo perpetuare se stessa, ma accrescersi costantemente.

Ma questa volontà di potenza non è, in un certo senso, costitutiva dell'essere umano? Se infatti io sono già da sempre accomunato all'altro nella consapevolezza della morte comune, è pur vero che per me la morte resta un evento assolutamente singolare. Nessuno può sostituirmi. Questa è la molla che mi spinge a distinguermi dagli altri, quindi ad essere sempre più "me stesso". Se cos" è, la questione diventa come "giocare" questa volontà, cioè come il potere/differenziale viene agito. In molte delle comunità tribali studiate dall'antropologia, in molte tribù pellerossa ad esempio, la volontà di distinzione del singolo era "giocata" in modo che essa fosse una sorta di autorappresentazione della comunità stessa, motivo per cui i "capi" erano i "parlatori", cioè coloro che davano voce, quindi consapevolezza, ad un "essere" della comunità e dovevano quindi sempre stare, con le parole e le azioni, nel "luogo sorgivo" della comunità stessa. Tutto questo, però, non accade più nel momento in cui, come teorizza Hobbes, il potere viene posto come legislatore di una vita opposta alla morte, tant'è che, con la modernità, tale sovranità si nasconde, si diluisce in un astratto "corpo politico"...

La differenza più evidente fra l'attuale capo di uno stato liberale e il capo tribù, o il re medievale, è che il capo di stato di una democrazia liberale è dotato di un potere che ha la caratteristica peculiare di non potersi esercitare come potere. Il potere, in uno stato democratico-liberale, non si può presentare come tale, come esercizio arbitrario di una differenza e come esposizione a quell'esercizio, cioè come sovranità, ma deve presentarsi in modo neutro, deve risolversi soltanto nell'amministrazione di una funzione. Come dicevi, il potere, nella finzione democratica, non è di nessun individuo - è di tutti quindi di nessuno - e chi esercita il potere non può, di fatto, esercitarlo, perché deve sempre farlo in nome della legge, dell'altro da sé. E' per questo che nel mondo occidentale, nei sistemi democratico-liberali, l'esercizio del potere fa gridare allo scandalo: non ci deve essere esercizio del potere, perché questo esercizio rinvia in qualche modo alla presenza di una soggettività che si manifesta come tale, cioè come singolarità differente dalle altre. All'opposto, in una comunità tradizionale l'esercizio del potere è una esposizione di sé, è una testimonianza, un manifestarsi, un rivelarsi, un mettersi in gioco. Non è un caso che, nell'analisi della sovranità fatta, proprio sulla scorta di studi antropologici, da Georges Bataille, il sovrano è colui che deve essere messo a morte. Il re, cioè colui che deteneva la sovranità, per cui arrogava a sé la decisione sulla vita e sulla morte, coincideva anche con colui che, in certe condizioni, doveva essere sacrificato, proprio perché era quello che si metteva in gioco radicalmente. In questa messa in gioco c'è un aspetto che ha a che fare con quello che dicevamo prima sulla comunità, perché non c'è comunità, non c'è accomunamento, senza che questa messa in gioco coinvolga tutti i membri della comunità stessa. Non è che la comunità sia il paradiso, lo stato di natura roussoviano dove tutti gli uomini sono buoni: la comunità, proprio perché è la "terra originaria", è anche lo spazio di una messa in gioco radicale, uno spazio in cui la soglia della mortalità è continuamente frequentata.

La sovranità, quindi, è ciò che, nel momento in cui pone chiaramente il problema del potere, pone chiaramente anche la questione dell'infondatezza sia di questo che della comunità stessa. In tal modo, però, la sovranità altro non è che il modo di porre la comunità di fronte alla sua costitutiva "anarchia"...

La parola anarchia è infatti chiarissima: etimologicamente an-arché vuol dire "assenza di arché", cioè assenza di fondamento. Abbiamo visto come il luogo originario dell'accomunamento sia una soglia, un vuoto e non un pieno. Frequentare questa soglia, tornare al "caos" che precede l'ordine, significa rinsaldare il legame comunitario. Fintanto che la comunità ha la forza di confrontarsi con questa an-arché originaria essa resta libera e sovrana. Tale sovranità viene invece minacciata nel momento in cui si fonda la comunità su un arché, cioè sulla condivisione di un principio ideologico che trascende la comunità ed i suoi singoli componenti. La presenza di un valore fondante ha un valore rassicurante, ma proprio per questo tende ad alienare la possibilità di una condivisione radicale dell'unico luogo comune. E' invece nell'angoscia tragica, nell'esposizione alla morte e nel rapporto con essa - un rapporto che non esclude nessuno poiché ciascuno è chiamato ad esso nella propria singolarità -, che sta il fondamento, il cuore pulsante, di una comunità anarchica. E' questo il senso in cui ancora Bataille parla della comunità "acefala", quando, negli anni fra il '36 e il '39, cerca di indicare quanto possa contrattaccare il fascismo e il nazismo che stavano invadendo l'Europa.

Tutto questo ciriporta un po' al punto da cui eravamo partiti: senza comunità non possiamo "essere" e tuttavia oggi quella comunità ci sfugge. Secondo te è possibile, e come, fare dell'"essere in comune", nel senso in cui ne abbiamo parlato, una pratica?

Forse è possibe nel senso che indica Gilles Deleuze quando parla di "farsi minoranza" come speranza rivoluzionaria, come modo di testimoniare a favore di un popolo a venire, cioè di un futuro possibile. Non si tratta tanto di proporre una visione delle cose alternativa al "potere", quindi una logica dell"'antagonismo" o della "resistenza", come spesso si sente ripetere, perché in tal caso ci si definirebbe ancora a partire dall'altro, al quale si resiste e ci si oppone. Si tratta piuttosto di attuare costantemente una specie di "esercizio spirituale", vale a dire una pratica di vita che prende inizio senza chiedere permesso a nessuno, che costruisce gli strumenti del proprio sapere nella propria esperienza ed è affermativa, non reattiva. Direi anche che una tale esperienza vive in una condizione di felice oblio, di ignoranza e indifferenza nei confronti del potere, della "realtà". Tutto questo è, in un certo senso, quanto fa un pensatore indubbiamente libertario come Ivan Illich quando parla di "comunità vernacolare". Non credo che Illich pensi a tale comunità come a una forma di resistenza o, peggio, di sopravvivenza, anche se è talvolta lui stesso a favorire questo tipo di lettura. Credo invece che intenda la "comunità vernacolare" come un modo orgogliosamente affermativo di esistere da parte di minoranze consapevoli, come una decisione di essere e, indipendentemente da quello che ci circonda, di iniziare un tipo di vita, di pensiero, di esperienza, di pratica. Si tratta, insomma, di fare la stessa operazione che fa chi diventa ateo. Egli scopre che, in realtà, tutte le cose in cui credeva "prima" e che lo intimorivano sono solo degli idoli. La "politica", il "potere", sono un insieme di idoli, non hanno nessuna consistenza reale. Certo sono idoli che ti possono uccidere, così come l'ateo può essere messo al rogo dalla Santa Inquisizione, ma se tu li frequenti come idoli non hanno più presa su di te ed anche se continuano in qualche modo a far parte della tua vita, perché non li puoi aggirare per un semplice atto della volontà, li puoi vedere in tutta la loro nullità e quindi puoi cominciare a vivere di conseguenza...

Bibliografia
Il Leviatano di Thomas Hobbes, Laterza l989
Luogo comune di Rocco Ronchi, EGEA l996
Massa e potere di Elias Canetti, Adelphi l98l
La sovranità di Georges Bataille, Il Mulino l990
Dio e lo stato di Michail Bakunin, RL l970
Nove pensieri sulla politica di Roberto Esposito, Il Mulino l993
Logiche e crisi della modernità di AA VV, a cura di Carlo Galli, Il Mulino l99l
Oltre la politica di AA VV, a cura di Roberto Esposito, Bruno Mondadori l996
Nello specchio del passato di Ivan Illich, Red l992
Conversazioni con Ivan Illich di David Cayley, Eleuthera l994
Che cos'è la filosofia? di Gilles Deleuze e Felix Guattari, Einaudi l996
Comunità e società di Ferdinand Tönnies, UTET l96l
Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein, Einaudi l967