Rivista Anarchica Online
L'architetto e il potere
di Giancarlo De Carlo
Giancarlo De Carlo, redattore negli
anni '50 di "Casabella", con Zanuso e Gregotti, fonda e
dirige (dal 1976 ad oggi) "Spazio e Società". Docente nelle facoltà di
architettura di Venezia e Genova, è ideatore ed animatore del
laboratorio Internazionale di Architettura ed Urbanistica (ILAUD). Sua è stata la seconda
relazione introduttiva al seminario "Urbanistica: approcci
libertari". La pubblichiamo qui in una nostra
trascrizione.
Ancora non mi capita spesso di
riguardare il passato. Questa sera Colin Ward mi riporta con il suo
intervento alle mie radici, anarchiche un po' per caso e un po' per
convinzione e sensibilità.
Così al caso devo l'incontro con
alcuni amici - ma si sa che gli amici che si incontrano sono anche
quelli che si cercano - e le convinzioni risalgono al periodo della
Resistenza, quando mi sono occupato di politica e ho voluto ragionare
su alcune questioni di fondo che si ponevano allora. Ricordo che
contestavo tanto al marxismo, quanto ad alcune teorie liberali, che
fondamento della società umana fosse l'economia, convinto
piuttosto che il meglio di ciò che accade nel mondo derivi
dalle passioni.
L'altro punto che in nessun modo mi
sentivo di accettare era che ci si dovesse organizzare per poter
vincere, che il nuovo non potesse essere portato se non attraverso
forme organizzative rigide, perché sono convinto che i
rapporti tra gli uomini diventano positivi quando non sono ingabbiati
dentro strutture gerarchiche precostituite.
Questo lo si vedeva chiaramente
soprattutto nel periodo della Resistenza, quando i fatti avvenivano
aldilà delle schematizzazioni gerarchiche e le persone
incominciavano ad esprimersi ed a valere per quello che erano.
Persone eccezionali
Durante una di quelle estati conobbi
vari amici, come Carlo Doglio, Delfino Insolera ed altri che
condividevano queste mie stesse idee, alcuni in modo militante, altri
per simpatia intellettuale.
Ho conosciuto profondamente il gruppo
editoriale della rivista "Volontà" e, intorno a quel
gruppo, tutta la miriade dei gloriosi anarchici italiani, persone
eccezionali, devo dire le migliori che abbia incontrato nella mia
vita. E le ho incontrate subito dopo la Liberazione, al Congresso
anarchico di Carrara (settembre 1945), al quale sono andato da Milano
insieme con Doglio, facendo un viaggio di tre giorni perché
non c'erano comunicazioni. Quando siamo arrivati, Carrata era
presidiata dagli anarchici: avevano chiesto ai carabinieri di
andarsene, perché c'era il congresso anarchico e quindi non
dovevano essere disturbati. E i carabinieri se n'erano andati.
L'anno dopo andai a Canosa di Puglia e
successe lo stesso: anche lì gli anarchici avevano chiesto
alle autorità di allontanarsi per qualche giorno, per la
durata del convegno anarchico, e le autorità si erano
allontanate.
I rappresentanti di questo anarchismo,
che avevano fatto la guerra di Spagna, che avevano un'esperienza
straordinaria, che erano stati dipinti come bombaroli, distruttori,
cattivi, sanguinari, erano delle persone eccezionali, le più
aperte, le più gentili, intimamente gentili, che avessi mai
conosciuto.
E Canosa aveva vissuto momenti unici
durante i giorni del convegno anarchico, perché si era
instaurato il "governo" pacifista degli anarchici, basato
sui rapporti umani e sulla reciproca comprensione.
Contemporaneamente conobbi il gruppo
inglese che a Londra ruotava intorno alla rivista "Freedom".
Conobbi così Colin Ward, che rivedo ora dopo tanto tempo,
anche se mi sembra che ci si sia visti continuamente, che si sia
stati sempre in qualche modo in contatto.
Urbanistica e/o architettura
A questo punto io mi chiedo: sono
anarchico?
Ecco, io credo di non esserlo. O
meglio, credo più esattamente che sia una domanda vana. Forse
per Colin è diverso, perché lui ha sempre militato.
Ad ogni modo, credo che l'anarchismo
sia un limite verso il quale si tende e che non si raggiunge mai.
Credo, che si debba accettare questa condizione, perché
altrimenti si evita di rientrare nei canali normali: e allora, come
fa uno a definirsi anarchico?
È molto difficile, se non ha
mai raggiunto questo limite. Lo può dire nel senso che lavora
nel movimento anarchico, ecco questo è un modo. Ma essere
anarchici intimamente credo sia molto difficile, credo sia una
tendenza, non uno stato.
Venendo all'urbanistica e
all'architettura (non faccio molta distinzione tra le due), è
possibile individuare delle componenti anarchiche nel loro sviluppo
moderno, ovvero dalla fine dell'Ottocento in poi.
Fondamentalmente l'architettura e
l'urbanistica sono autoritarie da sempre, perché architetti ed
urbanisti hanno fornito le loro prestazioni al potere ed hanno quindi
elaborato teorie, proposto soluzioni, studiato progetti, in linea con
i committenti. Sono esistite, però, anche delle divergenze,
dei modi diversi di essere e di concepire il rapporto degli esseri
umani con il territorio. È sempre esistita una corrente
importante, che ha un suo filo, una sua continuità, che è
sempre stata messa da parte dalla critica ufficiale e dalla
celebrazione storiografica dell'architettura moderna. È una
corrente che ha in Kropotkin e nelle sue idee i fondamenti di
un'urbanistica libertaria e che si manifesta attraverso esponenti di
grande rilievo quali Patrick Geddes, libertario per formazione e
dotato di una personalità poliedrica e umanamente assai ricca
- tanto che lo si potrebbe definire sociologo, antropologo,
urbanista, architetto, ecc...
Esistono poi altre persone del filone
americano, neanche lontanamente vicine all'architettura. Parlo, per
esempio, di Withman e del suo pensiero profondamente anarchico. Una
caratteristica di questo pensiero consiste nel non specializzare
l'ambiente umano, nel non dividere il grande territorio dalla città,
dal quartiere, dall'edificio, ma di vedere tutto insieme, come un
luogo dove la vita umana si svolge, e di riconoscere naturalmente
delle scale diverse, riconoscendo loro la comune appartenenza ad un
fenomeno dal quale non vogliono separarsi.
Esistono poi altre persone, anche in
Italia, che sono sicuramente all'interno di questo filone. Ne vorrei
citare almeno due.
Uno è stato un mio grande amico
ed abbiamo avuto lunghe discussioni su questo argomento: è
Carlo Doglio. In tutti i suoi libri, soprattutto ne "Le città
del mondo", si percepisce questo pensiero ricco, libertario,
questa visione ricca della città.
L'altro è stato Italo Calvino.
Perché non si potrà mai dire che le città
invisibili - ciascuna delle città invisibili - sono il
prodotto dell'autorità, dal momento che sono sempre il
prodotto della gente che le abita, sono il prodotto di
stratificazioni infinite. I fili che Calvino tesse, da una torre
all'altra, sono i fili dell'uso della città, non i fili di chi
l'ha ordinata, né di chi l'ha disegnata; sono i fili di
quell'uso che li propone e li produce.
Una fase abbastanza negativa
In questo sta la grande differenza tra
il considerare l'ambiente, la città, i quartieri, la casa come
manufatti e il considerarli fenomeni che comprendono l'esperienza
umana. In effetti, l'architettura e l'urbanistica esistono non
soltanto perché si configurano ed hanno una loro
strutturazione, ma perché vengono esperiti. Se non venissero
esperiti, non esisterebbero. La loro qualità deriva dalla
qualità dell'esperienza che se ne può fare.
Questa, secondo me, è una
discriminante fondamentale tra quello che potremmo chiamare, in modo
molto generale, un punto di vista anarchico sulla città e
quello che invece potremmo definire un punto di vista autoritario, che
non ha alcun interesse a discutere dell'esperienza degli esseri
umani.
Gran parte della critica è
proprio in relazione a questo punto, cioè intorno alla
partecipazione dell'esperienza nella costituzione dell'evento urbano
o dell'evento architettonico. Ci sono stati periodi in cui la
discussione è stata più intensa e periodi in cui lo è
stata meno: oggi sicuramente siamo in un periodo in cui la
discussione è in grave crisi.
Durante la fase iniziale di quel
periodo che va dal '66 al '73, quando la rivoluzione degli studenti e
subito dopo dei sindacati era ancora creativa, le idee hanno
circolato e anche opinioni diverse e diverse correnti di pensiero si
sono sviluppate sul territorio dell'urbanistica e dell'architettura.
Adesso viviamo una fase abbastanza
negativa, bisogna riconoscerlo: ci sono fenomeni ed esperimenti
incominciati allora, che si sono decisamente arrestati. Non mi sembra
però interessante concludere semplicemente che l'autorità
ha ripreso il comando ed ha schiacciato quelle esperienze prodotte
dal '68, quanto cercare di capire quali erano le insufficienze delle
proposizioni che venivano fatte.
Vorrei pertanto riesaminare il concetto
di partecipazione, che è stato un elemento importante nel
dibattito degli anni '70. Lo si è schematizzato in modo
deleterio. Ad un certo punto si pensava che la partecipazione fosse,
da un lato, soltanto che la gente diceva che cosa voleva e poi lo si
sarebbe fatto; e, dall'altro lato, che l'architetto designato,
delegato o "unto" per fare questo lavoro, lo avrebbe fatto
in modo indiscutibile e tutti l'avrebbero accettato.
Il problema è molto più
complesso.
Partecipazione vuol dire...
Prima di tutto la partecipazione è
un fenomeno non programmabile, né sistematizzabile in una
serie di canoni, perché la diversità dei partecipanti e
dei momenti partecipativi implica la peculiarità degli stessi.
Inoltre non è assolutamente certo che la gente sa che cosa
vuole, altrimenti non ci sarebbero tanti problemi... La gente è
alienata tanto quanto lo sono gli architetti. Il processo della partecipazione deve
dunque coincidere in prima istanza con quello della disalienazione.
Bisogna ritornare alla radice dei problemi e non è facile in
un momento in cui i bisogni sono tutti artificiali e continuamente i
mass-media pompano per creare nuovi problemi a tutti. Ritornare ai problemi reali e
identificarli non è cosa semplice: richiede una partecipazione
complessa, faticosa, difficile. E non è detto che si attivi
immediatamente, anche perché spesso la partecipazione viene
rifiutata ed è comprensibile che sia così.
Un secondo errore fu quello di pensare
che attraverso la partecipazione si potesse fare a meno della
qualità, vale a dire che la partecipazione potesse esprimersi
anche con incompetenza. Gli architetti e gli urbanisti "unti"
dalla partecipazione pensarono che non occorresse ambire ai livelli
di qualità. La qualità stessa, anzi, fu considerata un
errore, perché il problema veniva considerato fondamentalmente
un problema quantitativo. Questa fu una spaventosa mistificazione,
perché solo le esperienze al massimo livello di qualità
possono diventare veramente trainanti per un processo di
rinnovamento. L'architetto e l'urbanista che perseguono questi
intenti devono essere molto più competenti di tutti gli altri,
altrimenti falliscono.
In questi ultimi anni se ne sono avuti
esempi infiniti, di gente che è fallita ed al contempo ha
fatto fallire il concetto di partecipazione. Nell'attività
degli architetti queste due colossali mistificazioni sono state,
secondo me, decisive.
Oggi siamo in una situazione piuttosto
grave, perché si applica sempre più il concetto che
architettura e urbanistica, o i loro prodotti, hanno una loro
intrinseca autonomia, vale a dire non devono rendere conto di niente,
non derivano da niente, sono prodotti dello spirito.
Passività e paura
Di fronte a questa posizione, riportata
su tutte le riviste di architettura, occorre reagire affermando che,
invece, qualunque cosa si organizzi nello spazio deriva dai rapporti
e dal corso dell'esistenza degli esseri umani e quindi è
inestricabile da loro. Non può esserci autonomia per
l'architettura e per l'urbanistica. Non ce n'è in generale,
non ce n'è neanche per le arti figurative, né per la
musica, neanche per i fuochi d'artificio. Ed anche per l'architettura
e l'urbanistica è proprio impossibile, perché
verrebbero proiettate immediatamente fuori dalla loro stessa
definizione.
Si registra tutta una passività
infinita, quasi una paura a ribaltare questo stato di fatto, anche
perché il discorso dell'autonomia è legato a quello
della specializzazione che è dilagata ed universalmente
legittimata. Specializzarsi vuol dire essere capaci di fare in modo
perfetto delle cose senza sapere a che cosa servono e che cosa
provochino. L'architetto e l'urbanista, oggi, rientrano in questa
categoria. Non occorre, cioè, che sappiano quali sono le
motivazioni e le conseguenze di quello che fanno: sono specializzati
ed hanno autonomia.
Io credo che si tratti di reagire a
tutto ciò. Sono molto ottimista perché la situazione è
arrivata ad un punto tale di contraffazione che d'ora in poi tutto
andrà bene. La gente si sta rendendo conto - e lo si sente da
infiniti sintomi - che bisogna cambiare le cose. Inconsciamente o
consciamente si comincia a riconoscere che non si può fare a
meno delle coordinate spaziali, perché sono le ultime difese.
L'ambiente è l'unica cosa in cui
riusciamo ancora a riconoscerci, perché il resto sta
diventando incorporeo, non ha più materia: solo lo spazio
fisico ha materia, solo la città, solo la campagna, solo
l'ambiente, solo le case hanno materia.
Allora io credo che d'ora in poi le
cose andranno meglio, perché tutto andrà peggio. E
dipenderà da noi se il lavoro di cui ci occupiamo potrà
essere trainante. E attraverso i suoi echi - non direttamente, come
si direbbe se si perseguisse un pensiero autoritario - influenzerà
il miglioramento di tutto il resto.
(trascrizione
a cura di Massimo Panizza)
|