Rivista Anarchica Online
Anarcosindacalismo come?
a cura della Redazione
Come annunciato sullo scorso numero, pubblichiamo la trascrizione di una tavola
rotonda sull'anarcosindacalismo e sulla presenza organizzata degli anarchici e dei
libertari nelle lotte sociali. La composizione differenziata (geografica, professionale e
analitico-strategica), ha permesso di passare in rassegna le differenti posizioni
all'interno del movimento anarchico su un tema di così scottante attualità. Hanno
partecipato Giovanni Biagioni di Firenze, insegnante; Aldo Olivieri di Napoli,
ferroviere; Enzo Ferrero di Milano, ospedaliere; Pippo Guerrieri di Bardonecchia,
ferroviere; Mauro Pappagallo di Torino, operaio; Franco Melandri di Forlì, operaio.
La questione al centro del dibattito, lungi dall'essere esaurita, risulta però posta
nelle sue linee essenziali. Il dibattito è aperto.
Ci troviamo oggi in una situazione difficile e complessa;: da un lato la crisi economica
sta restringendo di fatto l'azione rivendicativa che è stata portata avanti sino ad oggi,
dall'altro e proprio in risposta a questa situazione, i sindacati hanno approvato un
documento che segna una svolta all'interno della loro strategia. Questo documento
sostanzialmente prevede il riconoscimento della mobilità del lavoro, la messa in cassa
integrazione della manodopera esuberante. Come contropartita a questo nuovo
atteggiamento ragionevole e di fatto cogestionale, i sindacati chiedono un maggiore
intervento, un peso maggiore nella direzione non solo delle imprese ma dell'intera
programmazione nazionale. Come interpretate la situazione?
FRANCO - Il cambiamento di rotta del sindacato è un cambiamento solo in termini
relativi. Già negli anni passati il discorso della maggior presenza sociale del sindacato si
era delineato abbastanza chiaramente anche se con l'ultimo documento è resa molto più
chiara la volontà di entrare direttamente nella gestione delle aziende come controllori della
manodopera. Di fronte a tutto questo, almeno per la situazione che vivo io, che se
vogliamo è una situazione abbastanza anomala trattandosi di una cooperativa in una
regione rossa, ci sono due cose da notare: innanzitutto la grossa disinformazione che c'è a
livello di base. Moltissima gente non legge i quotidiani e ascolta superficialmente la
televisione, per cui non sa neppure cosa dice il documento e cosa ha detto Lama e quindi
c'è indifferenza fintanto che non si viene direttamente toccati dal processo che può avviare
questo documento. Invece nella parte più cosciente, che è una ristretta minoranza, vi sono
diverse posizioni. C'è chi si oppone a questo tipo di discorso e comincia a porsi il
problema di fare delle azioni al di fuori del sindacato poiché il sindacato non tutela più
niente e c'è chi critica queste scelte ma ritiene ancora il sindacato come una forza
essenziale: quella che in fondo può ancora garantire gran parte delle conquiste.
Ora a me sembra che oggi è assurdo pensare che il sindacato possa garantire anche i livelli
contrattuali raggiunti negli anni passati, basta pensare al problema dell'orario per cui fino a
qualche tempo fa veniva portata avanti l'istanza di diminuzione dell'orario di lavoro,
mentre ora (la Fiat insegna) nel 90% delle fabbriche il sindacato accetta tranquillamente lo
straordinario da un lato e la messa in integrazione o il licenziamento dall'altro. Certo che
riuscire a rompere la convinzione esistente nelle teste dei lavoratori dell'utilità dei sindacati
è estremamente difficile, soprattutto quando si tratta, come nella mia fabbrica, di operai di
oltre quarant'anni, iscritti al sindacato da moltissimi anni e con anni di lotta alle spalle. Per
cui il sindacato, con la pratica che gli è congeniale, viene in fabbrica, ascolta le critiche ma
non cambia niente.
I sindacati ufficiali, anche per favorire l'entrata del PCI nell'area governativa, si sono posti
come uno dei punti forza della ristrutturazione e riescono abbastanza bene a portare avanti
la loro strategia nonostante i dissensi perché il dissenso che c'è all'interno delle fabbriche
non riesce innanzitutto a coagularsi e in secondo luogo è un dissenso estremamente vago.
Inoltre in molti casi il dissenso non vuole colpire la struttura sindacale in sé, ma è una
critica verso alcune scelte sindacali, spesso con critiche di tipo corporativo. Ad esempio in
Emilia Romagna dove i disoccupati esistono ma il fenomeno viene assorbito tramite il
doppio lavoro, il lavoro nero e stagionale, e quindi non è visibile come a Napoli o a Roma,
la gente è portata a difendere le conquiste acquisite infischiandosene abbastanza del
problema dell'occupazione e delle lotte dei disoccupati.
Personalmente non vedo grosse possibilità di scontro con la linea sindacale che sta
passando. Esiste questa opposizione e il problema che io mi pongo è come intervenire
all'interno di questa opposizione, cioè come far sì che essa assuma un carattere che non sia
corporativo e di semplice critica al sindacato.
GIOVANNI - La piattaforma programmatica delle tre federazioni sindacali e il discorso di
Lama, che ha contribuito a chiarire ulteriormente la piattaforma, hanno ormai dimostrato
che i sindacati sono disposti ad andare verso un patto sociale. Stiamo quindi andando
verso un sindacalismo di integrazione della classe operaia nel sistema capitalistico. Le basi
di questo attacco alla classe operaia sono il discorso della mobilità, quello del costo del
lavoro e tutti gli altri.
Il discorso della mobilità e quindi anche della licenziabilità del personale cosiddetto
esuberante sottintende una accettazione totale da parte del sindacato alla logica del
profitto. In sostanza si abbandona la lotta di classe e ci si muove verso forme di cogestione
e addirittura di gestione dei margini che il sistema capitalista permette. Sappiamo come
funziona il discorso della mobilità, sappiamo cos'è l'agenzia di collocamento che con la
partecipazione sindacale dovrebbe venirsi a creare e sappiamo che questo sarebbe lo
strumento attraverso il quale il sindacato finirebbe per gestire la disoccupazione. Un'altra
volta quindi per gestire dei margini che il sistema capitalista lascia. Altro aspetto
importante è che rinunciando a lottare contro i licenziamenti collettivi il sindacato
abbandona una delle sue armi classiche, cioè cercare di influire dal di fuori sulla politica
economica. In cambio il sindacato ha scelto di discutere la politica economica non da
posizioni di classe ma da alti vertici, da posizione di collaborazione politica, quindi di patto
sociale.
Il discorso del costo del lavoro incide nella stessa direzione. Parlare di tenere congelati i
salari senza parlare di congelare nello stesso tempo come minimo anche i prezzi significa
ancora una volta entrare nella logica di collaborazione capitalistica che è la base di tutto il
documento.
Parliamo brevemente di altri aspetti. Tutto il discorso del sindacato sulla disoccupazione
giovanile si impernia sulla richiesta ai padroni e allo stato di applicare una legge, la 285,
che se all'inizio aveva creato qualche speranza adesso ha dimostrato di essere una
turlupinatura. Infatti i dati che stanno apparendo in questi giorni sulla stampa dicono che
sui 770 mila iscritti nelle liste speciali nei primi mesi di applicazione della legge hanno
trovato occupazione 1.442 giovani. Evidentemente al sindacato interessa molto poco la
disoccupazione giovanile, l'unica cosa che lo preoccupa è che questa disoccupazione
giovanile possa convertirsi in un elemento di destabilizzazione del sistema. Infatti il
sindacato non solo mobilita i giovani su un falso obiettivo come quello dell'applicazione
della legge 285 ma addirittura ha istituito quelle famose leghe dei disoccupati che non
sono altro che valvole di sfogo per evitare che lo scontento o la disperazione degli
emarginati scoppino.
Potremmo continuare ad analizzare altri punti, ma la sostanza non cambierebbe. E la
sostanza sono sacrifici per i lavoratori senza nessuna contropartita. Che cosa è successo a
livello di movimento operaio di fronte a questo documento? Risposte ce ne sono state,
soprattutto da parte dei lavoratori rivoluzionari. Abbiamo casi in cui il documento non è
passato come all'Italsider di Bagnoli, i portuali di Genova, l'Unidal, ecc..
Per limitarci al caso di Firenze, se sei assemblee inter-categoriali cittadine il documento è
stato respinto in tre e bisogna dire che in due di queste assemblee le motivazioni vittoriose
sono uscite dall'ambito libertario.
Quindi, malgrado tutti i trucchi del mestiere utilizzati dai sindacati (dalle assemblee
convocate di soppiatto, al presentare in assemblea solo i punti significanti della
piattaforma, ai brogli sul numero delle votazioni, ecc.) una risposta c'è stata. Del resto
bisogna tener presente che la maggior parte dei lavoratori non ha neanche letto il
documento e che il 60-70% non ha neppure partecipato alle assemblee. Quindi è
estremamente falso dire, come fa il sindacato, che la stragrande maggioranza della classe
operaia ha accolto il documento.
Di fronte a tutto questo la risposta dei lavoratori rivoluzionari è stata estremamente
limitata ed ha posto in risalto le contraddizioni. Sappiamo che esistono due categorie di
intervento all'interno della classe operaia. Da un lato abbiamo la cosiddetta sinistra
sindacale secondo cui il sindacato è recuperabile dal di dentro cambiando determinati
burocrati, e questa linea è stata perdente come lo è stata nelle ultime battaglie all'interno
del sindacato. Chi ha letto Lotta Continua avrà visto che dopo l'analisi abbastanza precisa
del sindacato si finisce per dare come unica soluzione e alternativa in termini organizzativi
di dirottare Lama sulla Confindustria come se Lama fosse causa e non una delle
manifestazioni di una strategia sindacale che si va imponendo da decenni. L'altro versante
della opposizione operaia è costituito dai vari collettivi e comitati. In sostanza da coloro
che non considerano più recepibile il sindacato e quindi ne sono usciti organizzandosi in
collettivi, ecc.. Anche questa linea, secondo me, ha contribuito al fatto che la risposta dei
lavoratori rivoluzionari alla manovra sindacale sia stata estremamente frammentaria,
ghettizzata e quindi povera in termini di risultati reali. In sostanza il grosso difetto che
vedo in tutte queste forme di organizzazione è quello dell'autoghettizzazione, poiché tutti
questi collettivi si sviluppano all'interno di un settore e quindi perdono quella visione
complessiva del problema e non riescono a dare delle risposte complessive. Ben diverso
sarebbe stato il risultato se la classe operaia avesse disposto di una organizzazione e di una
ipotesi organizzativa in alternativa a quella del sindacato. In sostanza non hanno ragione
né coloro che pensano di recuperare il sindacato né coloro che si emarginano dal sindacato
e agiscono al di fuori di esso. Bisognerebbe a mio avviso trovare una forma che ci porti a
prendere quanto di positivo c'è in un senso e nell'altro. Quindi prendere dai collettivi il
discorso che il sindacato è irrecuperabile e prendere dall'altra tendenza che nel sindacato
c'è la classe operaia, e quindi noi non possiamo estranearci ma dobbiamo rimanere al suo
interno cercando però di capitalizzare il dissenso che si crea e si creerà soprattutto ora con
il patto sociale per dare una ipotesi organizzativa alternativa.
PIPPO - Secondo l'analisi del mio gruppo di ferrovieri questa è solo una accentuazione
della linea socialdemocratica che ha sempre caratterizzato le strutture sindacali italiane.
Oggi, l'avvicinarsi del PCI al governo, la gestione di una fetta di potere economico e
politico da parte dei partiti di sinistra significa per i sindacati gestione sia di quanto di
gestibile vi è all'interno delle strutture stesse (consigli di amministrazione, proposte alle
aziende, ecc.) sia gestione del malcontento e quindi attuazione della socialdemocrazia,
della germanizzazione. Il lavoratore si trova quindi stretto fra un potere economico e
politico che lo condiziona e lo costringe alla passività e fra il sindacato che gli impedisce di
organizzarsi autonomamente e che lo ingabbia. Lo possiamo vedere nel caso specifico dei
disoccupati. I sindacati da un lato cercano di mobilitare i disoccupati e dall'altro gestiscono
gli uffici di collocamento a tutti i livelli.
Per quanto riguarda noi come ferrovieri, proprio perché lavoriamo in una azienda
pubblica, dove non esiste la figura fisica del padrone, possiamo vedere fino a che punto sia
giunto il processo di cogestione sindacale. Noi abbiamo avuto esempi in cui addirittura il
sindacato ha scavalcato l'azienda in quanto a proposte di ristrutturazione, di snellimento
della struttura aziendale, di rilancio delle ferrovie dello stato, ecc. proposte che dopo un
po' di tempo sono riuscite a vincere la resistenza del consiglio di amministrazione. Così per
la mobilità, che per noi è un discorso molto duro perché l'azienda copre tutto il territorio
nazionale e porterebbe a uno sfasamento ancora maggiore. Il potenziamento della struttura
del trasporto previsto dai sindacati significa rendere meglio il servizio ai vari Agnelli,
Pirelli, Alfa Romeo, ecc., tutte aziende che si servono già della ferrovia, seppure a livelli
ridotti per l'inefficienza di una azienda con metodi di lavoro antichi, ma che sempre di più
se ne serviranno. Questa ristrutturazione, significa entrare ancora di più all'interno del
contesto aziendale, il sindacato si fa stato e quindi azienda: le organizzazioni sindacali e
l'organizzazione aziendale, cioè le due burocrazie si fondono in un'unica cosa per gestire il
potere.
Esiste poi un altro aspetto, ed è quello del sindacato poliziotto che da noi assume una
veste particolare dal momento che il sindacato diventa sempre più azienda stessa. Un altro
aspetto ancora è che da noi il malcontento, la rabbia, sono stati gestiti in piccola parte da
organismi autonomi di lavoratori ma in massima parte dalla F.I.S.A.F.S., un sindacato
estremamente corporativo e reazionario che si è ingrossato recentemente grazie alle
delusioni provocate dai sindacati unitari. Questo sindacato per riuscire nella sua manovra
si è fatto portatore in diverse occasioni di parole d'ordine rivoluzionarie e
anarcosindacaliste: azione diretta, autonomia di base, ecc. ed ha gestito anche lotte dure.
In questo sindacato ci sono sia i reazionari, sia lavoratori in buona fede che ne
condividono le parole d'ordine sia anche rivoluzionari, come i militanti di L.C. di Napoli,
che lavorano al suo interno in mancanza di altri spazi.
Per quanto riguarda la sinistra sindacale, i vari collettivi sono confluiti nei sindacati
proprio per la crisi di tutti gruppi (L.C., A.O., ecc.) e quindi oggi i vari CUB, i vari
comitati, sono divenuti parte integrante della ristrutturazione in atto.
ENZO - Mi rifaccio alla situazione dell'ospedale in cui lavoro perché gli altri compagni
hanno già analizzato la situazione generale. Innanzitutto bisogna dire che il documento in
ospedale non è stato discusso nonostante il sindacato avesse programmato due ore di
sciopero per assemblea di discussione, e questo per due motivi: primo, perché al sindacato
preme soprattutto che il documento passi a livello di fabbrica e secondo perché in questi
ultimi tempi il sindacato esce dalle assemblee in ospedale con le ossa rotte. Inoltre nel
settore dei servizi e in particolare negli ospedali esiste una situazione tale per cui il
documento è già una situazione di fatto, dal momento in cui i sindacati hanno firmato
l'accordo per la riduzione della spesa pubblica e dal momento che i sindacati stanno per
firmare un contratto ormai scaduto dal dicembre 1976 che prevede tutta una serie di
aspetti negativi. I lavoratori ospedalieri subiscono già il discorso della mobilità, gli aumenti
salariali che non garantiscono nemmeno l'aumento del costo della vita, il discorso del
blocco delle assunzioni. Dal momento in cui l'amministrazione degli ospedali è diventata di
sinistra a questi aspetti negativi se ne sono aggiunti degli altri: il discorso della
ristrutturazione che poi vuole dire utilizzare al massimo il personale, l'attacco
all'assenteismo. Per tutti questi motivi all'interno dell'ospedale c'è un grosso rifiuto dei
sindacati in questo momento ma purtroppo non c'è una gestione alternativa di questo
malcontento.
ALDO - Io penso che dobbiamo andarci piano a parlare di svolta sindacale basandoci sulle
dichiarazioni di Lama perché si può trattare di una svolta per gli organi di stampa borghesi
che badano più alle dichiarazioni di forma che non alla sostanza. Noi lavoratori
giudichiamo il sindacato dal suo comportamento nella realtà quotidiana, un
comportamento che nel settore delle ferrovie Pippo ha descritto molto bene. Lui parlava di
fusione della burocrazia e quindi l'uscita di Storti dal sindacato per andare a occupare un
posto nel CNEL dimostra proprio questo, che lavorando per il sindacato sei riconosciuto
come al servizio dello stato e delle sue burocrazie. Del resto le funzioni che svolgono i
dirigenti delle industrie, i dirigenti sindacali e i burocrati statali sono le stesse, come è lo
stesso il rapporto intercorrente tra di essi e la base dei lavoratori.
Abbiamo fatto una panoramica abbastanza esauriente della situazione all'interno delle
fabbriche, delle amministrazioni statali o dei servizi e abbiamo anche individuato
l'esistenza di un certo dissenso all'interno della classe operaia, un dissenso che solo
raramente riesce a formulare proposte alternative alla linea sindacale. Il problema da
esaminare adesso è vedere, in quanto forza rivoluzionaria, come si pongono i militanti
anarchici all'interno di questo scontento esaminando anche le prospettive che il
movimento anarchico si sta dando quali la prossima ricostituzione dell'USI, la linea
definita in questi ultimi due anni di presenza anarchica all'interno delle fabbriche con la
creazione di nuclei. Un altro nodo da affrontare è l'individuazione dei nostri
interlocutori. La classe operaia così com'è oggi, quasi totalmente inquadrata
sindacalmente può essere ancora il nostro interlocutore privilegiato? Oppure si pensa
che la rivolta si possa innescare solo tra i non garantiti, tra coloro che sono emarginati
dai processi produttivi?
GIOVANNI - Mi sembra che siano problemi da affrontare a seconda delle situazioni in cui
ci si trova. Credo che l'esiguità della risposta che si è avuta da parte dei lavoratori
rivoluzionari sia dovuta alla ghettizzazione generale e complessiva in cui si trova oggi il
movimento rivoluzionario in Italia. Ghettizzazione della sinistra sindacale,
autoghettizzazione dei vari collettivi nei rispettivi luoghi di lavoro e ghettizzazione del
movimento anarchico per il suo prediligere sempre forme di aggregazione specifica a
forme di aggregazione più ampia, e quindi il suo prediligere l'ideologia rispetto alla pratica.
Io credo che se in una situazione come quella attuale noi avessimo disposto di strutture
adeguate i risultati sarebbero stati in parte diversi perché lo scontento che si è manifestato
all'interno delle assemblee è rimasto senza sbocchi. Questo rafforza la mia convinzione
favorevole alla ricostruzione dell'USI se e quando sarà possibile. Il discorso della
ricostruzione dell'USI è però estremamente complesso. Oggi all'interno del movimento
anarchico la tematica anarcosindacalista riscuote abbastanza interesse ma la mia
impressione è che ci sia molta confusione su cos'è l'anarcosindacalismo. Nei momenti di
discussione che ci sono stati sulla ricostruzione dell'USI si è visto che esistono modi
diversi di intendere l'USI: per alcuni l'USI deve essere il quarto sindacato italiano, il
sindacato dei rivoluzionari, ed io credo che questa concezione abbia ben poco a che
vedere con l'anarcosindacalismo; per altri è il sindacato di soli anarchici che ben poco si
distinguerebbe da una organizzazione specifica; per altri ancora è una organizzazione
ampia, alla quale si può dare il nome di sindacato semplicemente perché fa anche
dell'attività sindacale ma che dovrebbe essere soprattutto una organizzazione globale che
si occupi di tutti i problemi che la classe operaia ha sia nei luoghi di lavoro che sul
territorio. Infatti nel tipo di organizzazione anarcosindacalista che io vedrei avrebbe una
enorme importanza l'aspetto territoriale e inter-categoriale. La struttura portante di questa
organizzazione dovrebbero essere i comitati di quartiere o di zona, le federazioni locali, le
federazioni regionali, cioè giocare sulla struttura orizzontale e su quella verticale in un
modo che è tipico del sindacalismo spagnolo.
FRANCO - Vorrei farti una domanda. Secondo l'organizzazione da te prospettata, in che
modo si verrebbero a raccogliere gli aderenti? In base a quali discriminanti?
GIOVANNI - In base a una serie di principi statutari di contenuto libertario; sarebbe cioè
una organizzazione a prassi libertaria ma aperta a tutti coloro che accettano questa prassi
anche senza definirsi libertari. Naturalmente questo tipo di struttura dovrebbe avere una
serie di garanzie per evitare che diventi un'altra cosa.
In sostanza noi ci rendiamo conto che senza una struttura organizzativa, senza dare un
punto di riferimento al dissenso operaio, noi perderemo nuovamente una opportunità
storica.
ALDO - A mio avviso il problema della scelta dei nostri interlocutori è un problema
complesso. Oggi non è più sufficiente parlare di proletariato, oggi è difficile individuare
chi è obiettivamente in una posizione rivoluzionaria per condizioni di classe, a meno che
non si voglia ritornare ai classici schemi marxisti. Questa analisi supera le nostre
possibilità, è un'analisi dei nuovi sfruttati. Noi in quanto lavoratori siamo abbastanza
limitati in quanto viviamo in realtà già determinate, ed è lì che dobbiamo svolgere la nostra
azione, non possiamo scegliere un'altra categoria sociale. Esiste, io credo, la possibilità che
questo stato di malcontento vada aumentando, proprio perché credo che la prassi di
recupero sindacale del PCI non riesca a risolvere quei problemi che pesano sui lavoratori,
derivanti dalla istituzionalizzazione capitalista che essi avallano. Esistono secondo me dei
margini di intervento e noi dobbiamo cercare di individuare questo margine, dobbiamo
cercare un mezzo di comunicazione valido. Non credo che la nostra ghettizzazione sia
dovuta ad una concezione dell'anarchia come ideologia, credo invece che noi non siamo
stati capaci di trovare i mezzi adatti.
A proposito dell'USI devo dire che, pur non essendo contrario all'anarcosindacalismo, uno
dei pericoli che vedo è che l'USI svolga la funzione di compensazione della nostra
frustrazione: avere alle spalle una bella organizzazione che esiste sulla carta può essere un
meccanismo di autogratificazione, e, quindi ricostituire l'USI senza aver prima individuato
il nostro interlocutore ed i metodi di intervento in senso anarchico è, a mio avviso,
prematuro.
FRANCO - Il problema che si pone a tutti, come anarchici, è quello di essere presenti in
tutti quei settori sociali nei quali, per tutta una serie di condizioni pratiche che vengono
vissute, per formazione culturale ecc.,il nostro discorso sia più facilmente recepibile, credo
che in base a questo discorso il movimento operaio rimanga, nonostante i limiti detti, uno
dei punti nei quali la nostra presenza deve farsi sentire. Rispetto agli anni scorsi, per
quanto mi risulta, è giusto mandare a quel paese il tipo di intervento cosiddetto "ai
cancelli", in quanto questo intervento ha dimostrato (sia che fosse portato avanti da
anarchici o da Lotta Continua ai tempi in cui era più rivoluzionaria) di non essere capito
dalla gente se non in modo superficiale. Il lavoro rispetto al movimento operaio rimane
patrimonio solo di quei compagni che bene o male si trovano all'interno di situazioni di
lavoro e all'interno di queste situazioni riescono ad essere costantemente presenti, non solo
a livello di attività organizzate quanto soprattutto a livello di attività personale.
Io, ad esempio, lavoro da anni in una fabbrica che poi è diventata una cooperativa e da
anni porto avanti un discorso libertario. Ora la situazione è quella che ho già descritto e ad
un certo punto sono stato eletto come delegato in quanto attorno a me si era creato un
nucleo di persone che cominciavano a fare una critica consistente ai sindacati. Credo
quindi che il movimento operaio rimanga uno dei punti di presenza anarchica, però mi
sembra suicida limitarsi a vedere come referente principale il movimento operaio, proprio
perché oggi nella società europea occidentale in genere e in specifico in quella italiana
stanno emergendo nuovi ceti che, pur contraddittoriamente, esprimono il maggior
potenziale di lotta: gli emarginati (anche se l'intervento in questo settore presenta notevoli
difficoltà, proprio per l'estrema frammentarietà), gli studenti futuri disoccupati, le donne, e
non intendo il femminismo come lotta sessista ma come problema della donna nella
società.
Secondo me un altro pericolo è la specializzazione dei gruppi anarchici nell'intervenire
solo in fabbrica e nella scuola; credo che tenendo conto delle nostre forze gli anarchici
devono cercare di essere presenti in tutte le realtà potenzialmente esplosive e che possono
più facilmente recepire il discorso anarchico. Fatta questa premessa vediamo di analizzare
come dovremmo muoverci in quanto rivoluzionari all'interno della fabbrica e più in
specifico in quanto anarchici. Non sono d'accordo con la formazione di organismi
specificamente sindacali per diversi motivi. Credo che nella situazione attuale le divisioni
sociali siano estremamente labili e difficilmente schematizzabili sulla carta, ma che siano
molto più facili da vedere nella singola realtà. D'altro canto penso che il nostro essere
anarchici non coinvolga uno specifico settore della società ma la società intera, credo che
il classismo che bene o male è di stampo marxista abbia fatto il suo tempo nel momento in
cui è nato; voglio dire che il fatto che uno sia operaio non vuol dire che possa più
facilmente di altri ricevere il nostro discorso, proprio perché esistono vari tipi di operai, e
io lo vedo all'interno della mia fabbrica. Esistono degli operai che costituiscono una certa
aristocrazia operaia e che sono molto più conservatori dei tecnici o addirittura sono
decisamente di destra, al limite votano PCI, ma non è questo il problema, è il discorso che
fanno. Quindi anche parlando di movimento operaio è necessario andare a vedere nella
pratica quali sono le persone, i gruppi che più facilmente possono muoversi. La
specializzazione in un determinato settore porta fatalmente ad una schematizzazione
negativa. Credo che nella situazione attuale una lotta rivendicativa sia di per sé deviante,
cioè corporativa in ogni caso, perché se si porta avanti un discorso di miglioramento delle
condizioni in fabbrica, dell'aumento del salario, della diminuzione dell'orario di lavoro
(tutti obiettivi giusti) credo però che siano tutti obiettivi facilmente recuperabili dalla
logica del potere, cioè io non credo che al potere dia fastidio un sistema mutato, più
razionalizzato ecc., che l'operaio faccia quattro ore al posto di otto, perché al limite è
riuscito a controllarlo nelle altre quattro ore di "tempo libero".
Riguardo al problema dell'USI ed alla funzione di un sindacato penso che le critiche che
vengono fatte non sono mai critiche che coinvolgono la struttura sociale nel suo
complesso ma sono critiche che si limitano a discorsi settoriali, di fabbrica ecc. Credo
quindi che il nostro compito sia quello di allargare questa prospettiva. Il nostro compito
all'interno delle fabbriche è quello di cercare (partendo dalle contraddizioni che vengono
espresse) di creare dei momenti di lotta anche su momenti specifici senza assumere di per
sé un'organizzazione statica, momenti di lotta che poi certamente vengano ad allargarsi e
che si configurino sin dall'inizio come momenti libertari. Organismi che terminata la lotta si
sciolgano, cioè una cosa estremamente fluida.
D'altro canto sono favorevole ad un'organizzazione degli anarchici perché credo che
questa organizzazione per quanto porti sempre in sé il germe di una possibile
burocratizzazione, possa però proprio in forza del fatto che ci si unisce in base a certi
principi correggere se non sempre almeno in parte i nostri errori.
Un'ultima cosa. Prima tu, Giovanni, dicevi che l'adesione a questo sindacato dovrebbe
essere filtrata in base all'adesione a certi principi statutari o meno che ne garantiscano
l'effettivo libertarismo. Se la gente aderisce a questo sindacato perché il sindacato aderisce
a certi principi a me sembra fondamentale che sarà estremamente minoritario, se invece vi
aderisce perché gli vanno bene certi metodi di lotta e certi obiettivi, vi è una forte
probabilità che questo faccia la fine della C.G.T., che da sindacato rivoluzionario è
diventato riformista e con una continuità logica determinata dai moltissimi militanti che ne
hanno modificato la linea politica.
GIOVANNI - Effettivamente quello che tu dici è vero sia per la C.G.T. che per la C.G.L.,
per certi versi, proprio all'inizio nei suoi primissimi anni di vita; ma perché la stessa cosa
non si è verificata con la C.N.T. spagnola? Prima di tutto perché la C.G.T. e la C.G.L. e al
limite l'U.S.I. si basavano non sull'anarcosindacalismo ma sul sindacalismo rivoluzionario,
termine abbastanza ambiguo nel quale rientra anche l'anarcosindacalismo, ma anche il
sorelismo e via dicendo. Perché la C.N.T. spagnola non ha subito questo processo
degenerativo? Perché era una organizzazione non sindacalista rivoluzionaria ma
anarcosindacalista. Quando io parlo di anarcosindacalismo non mi riferisco a un quarto
sindacato che faccia attività rivendicativa con principi rivoluzionari, bensì mi riferisco a
una organizzazione che ha una pratica libertaria, di azione diretta, di non delega, di
democrazia diretta e di antiburocratismo, cosa quest'ultima che si può ottenere con una
serie di meccanismi che vanno dalle cariche non retribuite, alla rotazione delle cariche, alla
revocabilità dei delegati nel momento in cui cessano di essere dei semplici esecutori.
MAURO - Io ritengo che la nostra funzione oggi può essere estremamente importante. Lo
scontento di moltissimi lavoratori che si sentono gabbati dai sindacati e che non vedono
alcuna soluzione, le esplosioni di rabbia degli emarginati e dei disoccupati, la perdita di
credibilità delle "istituzioni" che tradizionalmente si sono occupate degli interessi dei
lavoratori, sono tutti fenomeni estremamente favorevoli a un nostro intervento.
Per quanto riguarda il problema degli interlocutori è difficile oggi definire gli sfruttati e a
chi si deve rivolgere il nostro discorso globale. Quello che è certo è che questo
malcontento non può durare e sicuramente sfocerà in uno scontro tra lavoratori e sindacati
ma noi non possiamo sostituirci ai sindacati con una organizzazione come l'U.S.I.,
dobbiamo partire direttamente dalle loro e nostre esigenze.
ENZO - Un compagno ha detto prima che l'opposizione non è stata significativa perché
non è stata propositiva e io sono molto d'accordo su questo e ritengo che sia anche uno
dei motivi per cui l'opposizione è ghettizzata. Secondo me non si tratta tanto di stabilire
quale tipo di organizzazione ci si dà, poiché questo è un passaggio successivo, ora il
programma reale sono i contenuti. Dobbiamo individuare dei contenuti estremamente
chiari e rivoluzionari da portare avanti con un metodo anarcosindacalista. Ad esempio nel
campo della sanità è chiaro che il nostro intervento è sempre faticoso e riformista fino a
quando il nostro discorso resta di tipo rivendicativo, fino a quando non svisceriamo fino in
fondo il discorso della sanità. Discorso della sanità che di fatto non è di categoria perché
nel momento in cui lo affronti in maniera rivoluzionaria diventa un discorso globale. Se
questo discorso di contenuti esiste ecco che tu aggreghi gli altri lavoratori al di là della tua
scelta ideologica.
Che tipo di organizzazione ci si può dare? Secondo me è chiaro che bisogna partire dal
settore perché altrimenti partire dal discorso globale resta una cosa fatta a tavolino. A me
sembra inoltre che guardando in faccia la realtà per il momento l'unica organizzazione
possibile debba essere la nostra. Si pone per me il problema di mettersi insieme come
anarchici in modo che tutto un patrimonio di esperienze possa essere messo in comune per
arrivare alla definizione dei contenuti di cui parlavo prima. In una prospettiva più lunga è
chiaro che questo tipo di organizzazione deve essere tale da coinvolgere la maggior parte
dei lavoratori. Riassumendo, noi dobbiamo muoverci nella prospettiva di costruire una
organizzazione che sia l'organizzazione dei lavoratori rivoluzionari però dobbiamo vedere
anche che cosa possiamo fare concretamente adesso e qui si pone il problema del
collegamento tra gli anarchici. È evidente che questa organizzazione fra anarchici sarebbe
temporanea per arrivare al passo successivo. Ad esempio, alcuni lavoratori ospedalieri di
Milano e di altre città e il collegamento lavoratori anarchici che fa riferimento a via
Conchetta si stanno muovendo in questo senso e io credo che sia indispensabile
cominciare da qui.
PIPPO - Rispondo alla domanda sugli interlocutori, sia in quanto ferroviere sia in quanto
immigrato. Ritengo importante affermare che la classe operaia ha perso il suo ruolo di
principale interlocutore del movimento rivoluzionario non da quando ci sono state le lotte
dei disoccupati, i non garantiti, ecc., ma dal momento stesso in cui è stata teorizzata come
il principale interlocutore. Se infatti in alcune regioni o aree la classe operaia è l'unico
fattore considerato produttivo, in vastissime aree (tutto il sud, il Veneto, le aree depresse
del nord) l'interlocutore non è certo la classe operaia. Questo fatto dimostra sia come il
marxismo sia riuscito ad imporre una certa metodologia e una certa analisi, sia come
queste sono entrate nelle analisi degli anarchici.
Al meridione quindi i nostri interlocutori non sono gli operai, che non ci sono o se ci sono
sono dei privilegiati, ma sono i contadini, quelli che vivono delle rimesse degli emigranti,
quelle che vivono alla giornata, i precari, che sono la stragrande maggioranza della
popolazione. Ritornando al discorso generale della metodologia e delle nostre proposte
noi compagni ferrovieri del Movimento Autonomo di Base del compartimento di Torino
abbiamo abbozzato queste nostre proposte in un documento uscito circa un anno fa. In
esso teorizzavamo un tipo di organizzazione all'interno della quale non esiste la delega e
che sia un mezzo che la base si dà per raggiungere la propria emancipazione. Per questo
motivo la proposta di rifare l'U.S.I. non mi trova d'accordo, perché l'U.S.I. è una
organizzazione già ben definita che noi dovremmo portare dall'alto in moltissime
situazioni. Noi pensiamo che all'interno dei settori dobbiamo fare una immensa opera di
propaganda, e di lavoro. Quindi penso che oggi sia più importante agire da anarchici
all'interno dei posti di lavoro e preparare le basi per arrivare poi a una organizzazione di
tipo nazionale, una organizzazione che però deve essere voluta e sentita dai lavoratori in
prima persona.
FRANCO - Vorrei fare delle precisazioni. Se è vero che la C.N.T. rinata negli ultimi anni
del franchismo ha indubbiamente degli aspetti positivi, non bisogna dimenticare due cose
molto importanti: in primo luogo quello che è successo alla C.N.T. durante la rivoluzione
spagnola, e in moltissimi casi il comportamento della C.N.T. è cosa da far drizzare i
capelli. Basta leggere "la C.N.T. nella rivoluzione spagnola" di Peirats e "Rivoluzione e
controrivoluzione in Catalogna" di Semprun Maura per rendersi conto che in certi
momenti di anarchico o anche di libertario nella C.N.T. c'era ben poco. In secondo luogo,
per quello che so io della C.N.T. di oggi, non tutto funziona così bene: i problemi
all'interno sono grossi e una volta di più dal mio punto di vista sono riconducibili al
discorso dei mezzi e dei fini che limitano qualsiasi organismo che voglia continuare ad
essere libertario.
Vorrei poi spiegare meglio cosa intendevo dire prima nel mio intervento. Quando io dico
che dovrebbero nascere delle organizzazioni libertarie che in ogni situazione possono
prendere svariate denominazioni, credo che queste organizzazioni nascono da due cose: da
un lato dall'azione, dalla propaganda specifica in una data situazione che si aggancia ai
problemi che in quella situazione emergono; questi organismi nel momento in cui sarà
necessario si collegheranno anche a livello nazionale per portare avanti in maniera più
incisiva la lotta. Essi non raggruppano solo gli anarchici in senso stretto (in questo senso i
Nuclei Libertari di fabbrica, per quello che so, mi sembrano un po' restrittivi) ma
aggregano tutti coloro che si trovano d'accordo su un dato metodo di lotta, sull'obiettivo,
e sul nemico da combattere. In questo modo si viene a creare una grossa discriminante tra
l'area rivoluzionaria e tutti gli altri.
|