Rivista Anarchica Online
Il mito della lotta armata
di Andrea Papi
Pubblichiamo l'articolo del compagno Andrea Papi di Forlì, precedentemente rifiutato
dalla redazione della rivista "Anarchismo". I problemi che questo articolo solleva sono
di estrema attualità e riteniamo che vadano ripresi, per cui sollecitiamo l'apertura di un
dibattito.
L'articolo di Alfredo M. Bonanno "Verso la generalizzazione dello scontro armato"
pubblicato sul numero 18 della rivista Anarchismo, mi ha fatto meditare e mi ha spinto a
proporre sulla stessa rivista alcune riflessioni in merito all'argomento trattato, non tanto
per dare una risposta a considerazioni e affermazioni che non condivido, quanto per
polemizzare in senso critico e costruttivo con alcune posizioni espresse, di cui non
condivido la apparente cristallina validità.
Le questioni affrontate non sono soltanto di attualità, ma a mio avviso rivestono una
importanza vitale per gli anarchici in particolare, per il movimento rivoluzionario in
generale. La scelta strategica proposta da Alfredo, quella della lotta armata, coinvolge in
modo diretto e globale tutti i compagni, per cui sarebbe un grave errore prenderla sotto
gamba senza sviscerarne a fondo tutta la problematica. In questo senso ritengo che il
movimento anarchico abbia grosse lacune, dal momento che non ha ancora cominciato a
dibattere seriamente un problema che diviene ogni giorno più impellente e che, nella fase
attuale, occupa più o meno intensamente la mente di tutti noi. Soltanto la rivista
Anarchismo mi sembra che fino ad oggi abbia dedicato molto spazio al problema dello
scontro armato, anche se l'ha fatto in modo unilaterale, al fine di portare avanti la linea di
tendenza in cui si riconosce, almeno da quello che ci è dato di capire, e la propria proposta
strategica, le quali, con l'articolo di Alfredo in questione, hanno cominciato ad assumere
chiari caratteri d'identificazione. È appunto finito il tempo di indulgere e di scegliere di non
dire perché non si hanno le idee chiare e si aspetta di avere la soluzione pronta da
spiattellare al momento opportuno: bisogna cominciare a parlare fuori dai denti e rompere
con la logica delle posizioni non dette che possono apparire ambigue. Compagni,
personalmente non ho assolutamente le idee chiare né tanto meno una soluzione da
proporre, ma ciò non mi spinge a chiudermi nel ghetto delle mie elucubrazioni mentali.
Anzi ritengo importante, ai fini del dibattito e della chiarezza rivoluzionaria che ci
distingue, proporre i dubbi e le riflessioni, anche se non sono seguite dalla scoperta della
verità o da una formulazione logica onnicomprensiva e autosufficiente. Penso di averne
tutto il diritto.
Su un punto mi trovo totalmente d'accordo col compagno Bonanno, cioè quando scrive:
"Il mito svolge il suo ruolo (pensiamo al mito del partito, al mito della grande madre, al
mito della violenza, al mito dello sciopero generale), ma quando cade non significa che
non svolga più nessun ruolo, significa, al contrario, che comincia a svolgere un ruolo
diverso, appunto il ruolo della caduta del mito". Mi sembra che in queste parole sia
espresso uno dei concetti base di ogni struttura, più precisamente dei rapporti individuali e
collettivi che sono alla base di ogni struttura: l'aderenza o no al mito, la suggestione che il
mito esercita sui singoli e sul gruppo, la possibilità che ha il mito di determinare scelte,
analisi, visioni prospettiche. Mi sembra implicito tra anarchici che si tenda al superamento
del mito per riuscire a comprendere la realtà in modo spregiudicato e avere così la
possibilità di determinare le nostre scelte senza condizionamenti mentali, senza adesioni
mitiche o costruzioni cerebrali predeterminate.
Benissimo, liberiamo le nostre menti da ogni forma di preconcetto. Ma allora, perché "in
quanto anarchici l'insurrezione resta il nostro elemento privilegiato"? Perché questo
presupposto deve essere alla base del nostro intervento nel sociale e quindi determinare le
nostre scelte? Buttare questa affermazione come data per scontata, senza prima
dimostrarne la validità nel concreto, non rappresenta l'adesione a un mito? Sorge
spontaneo il dubbio che bisogna liberarsi di tutti i miti che non si collocano in questa
affermazione per aderire ed essere condizionati da un unico mito, l'insurrezione.
Personalmente non escludo che il momento insurrezionale possa essere il momento
risolutivo e che dobbiamo, in quanto rivoluzionari e anarchici, prepararci a una simile
evenienza, ma non mi sembra né utile né veritiero che la nostra azione debba essere
esclusivamente impostata nella direzione insurrezionale, perché si afferma miticamente che
è "il nostro elemento privilegiato".
In verità Alfredo si sforza di non fare solo e semplicemente un'affermazione di fondo,
tanto è vero che è inserita alla fine dell'articolo, per cui può anche apparire come una
logica conclusione di tutto il discorso precedente. Però il problema rimane, in quanto, a
ben vedere, tutto lo scritto dipende di fatto da quella affermazione, anche perché è
proposta più che altro come affermazione di principio, come qualificazione indispensabile
per essere anarchici, non come induzione conseguente di una analisi che la precede.
Allora, come sempre avviene in simili casi, nell'analisi anche involontariamente si cercano
gli elementi che possono confermare la tesi che abbiamo in testa prima di cominciare ad
analizzare.
Leggendo l'articolo in questione, si ha l'impressione che l'insurrezione sia a portata di
mano, per cui il lettore viene coinvolto emotivamente e, giunto alla fine, non può che
essere d'accordo sull'affermazione che abbiamo criticato. Una serie di affermazioni, non di
dimostrazioni, concorrono a determinare quest'impressione: "Lo scontro armato
generalizzato è lo sbocco naturale di una situazione che diventa ogni giorno più grave.
Gli sfruttati cominciano ad avvertire questa necessità, a farla propria, in una serie di
comportamenti anti-istituzionali che finiscono per dilagare. (...) Non c'è dubbio che oggi
il movimento degli sfruttati, nelle sue varie forme, pur con tutte le contraddizioni che
presenta, è in grado di attaccare il capitale e le strutture statali che lo difendono. Non
c'è dubbio che quest'attacco è in corso di realizzazione.", "Le disillusioni, recenti o meno
recenti, stanno spingendo un gran numero di gente verso un comportamento illegale
generalizzato. Questo comportamento si realizza sia sui posti di lavoro, sia sul fronte
della disoccupazione e della criminalizzazione.". Conseguenza logica di questa situazione
di presunto intensissimo attacco contro lo stato e il capitale, portato avanti
spontaneamente dagli sfruttati, è che noi dobbiamo soffiare sul fuoco il più possibile per
far scoppiare l'insurrezione generalizzata di massa che, a quanto sembra, è alle porte.
Ovviamente però con alcuni distinguo nei confronti di chi da tempo persegue la lotta
armata, cioè B.R., N.A.P., Prima Linea, ecc. La nostra azione non può essere concepita
all'interno del partito armato che ha tutto l'interesse a gestire gerarchicamente lo scontro di
classe, ma tende ad aprirsi, è libertaria, è fondata in definitiva "sulla strategia anarchica".
Ebbene, secondo il mio modo di vedere, le cose non stanno esattamente in questi termini.
Se da una parte è possibile notare una generalizzazione di comportamenti anti-istituzionali,
dall'altra non sembra che questi manifestino nelle masse una volontà di cambiamento
rivoluzionario. Più che altro danno l'idea di manifestazioni di insofferenza e di sfiducia nei
confronti delle istituzioni che spesso rischiano di cadere nel qualunquismo più becero. Se è
vero che le scelte fatte dai partiti e dai sindacati hanno disilluso molta gente, è anche vero
che ciò non ha determinato una tensione innovatrice di tipo emancipatorio, ma più che
altro uno scoglionamento generale, un senso di rilassamento scettico, e in molti casi una
chiusura in se stessi, un disinteressamento delle questioni sociali. In definitiva, se è un
errore non indifferente sottovalutare una serie di comportamenti di rifiuto delle istituzioni
che sono effettivamente in atto, una loro sopravvalutazione è altrettanto e ancor più
errata, perché può portare facilmente a scelte strategiche pericolose e irreversibili.
Ma più di ogni altra cosa vorrei sottolineare che mi sembra oltremodo difficile che la
situazione che sta maturando sbocchi necessariamente nello scontro armato generalizzato.
Il compagno Bonanno afferma categoricamente che non c'è dubbio che è in atto un attacco
generalizzato contro lo stato e il capitale; io mi permetto invece di porre molti dubbi su
questa visione troppo ottimistica, troppo facile nelle sue enunciazioni di fondo, la quale,
come ho sopra sostenuto, ha tutta l'aria di voler sostenere a tutti i costi una tesi
preconcetta. Un dissenso voluto e radicale c'è, ed è portato avanti da coloro che
effettivamente attuano sistematicamente l'attacco armato contro uomini e cose legate alle
istituzioni e dichiarano nei loro proclami di perseguire una strategia di lotta armata; li
conosciamo, sono alcuni gruppi minoritari ed elitari. Ma, per dirla con le parole dello
stesso Bonanno "Le B.R., i N.A.P., Prima Linea, e tante altre organizzazioni, non hanno
più nulla da dire, salvo la propria autocritica".
Ecco allora che il castello teorico messo in piedi nell'articolo in questione comincia a
mostrare parecchie falle, le sue certezze possono essere smantellate e mi sembra
importante invitare a una revisione critica. Oppure la tensione verso l'insurrezione,
presupposto ideologico-strategico imprescindibile, deve sussistere a tutti i costi? O,
peggio ancora, deve essere per forza reale? Ma tutto ciò, oltre che ad essere un mito,
pericoloso come tutti i miti, rischia di essere un atteggiamento mistico, un presupposto
religioso. Allora, giustamente, la lotta armata oggi, subito, è l'esplicazione coerente delle
proprie tensioni religiose, la realizzazione esistenziale di tensioni interiori di tipo ascetico
le quali, se non hanno la possibilità di estrinsecarsi, procurano sofferenze psicosomatiche
poco sopportabili. Ma non credo sia il caso né l'intenzione del compagno Alfredo, il quale
si pone il problema di una strategia e di un confronto sulle proposte.
Vorrei proporre alcune riflessioni sull'insurrezione, intesa come strategia, come momento
privilegiato di un discorso e di un intervento rivoluzionario nel sociale. Quando non è
azione militare, preordinata e organizzata da gerarchie che sovvertono l'ordine esistente
per instaurarvi il proprio nuovo potere, in genere assume l'aspetto di rivolta generale delle
masse che, senza un piano preordinato né intenti di potere, armi alla mano scardinano lo
stato di cose presente, travolgendo con una rivolta totale e generale e con la violenza e la
volontà della propria disperazione tutto ciò che appartiene al passato che le ha sfruttate,
vilipese e oppresse. È un momento collettivo idilliaco, liberatorio e liberante che rende
felici tutti quelli che fino a ieri erano stati infelici, in cui si scopre la solidarietà umana e la
fratellanza.
Le insurrezioni del passato sono a testimonianza di ciò che ho detto sopra, non a caso
quando c'erano, gli anarchici hanno sempre partecipato generosamente con abnegazione
allo scontro in atto, pagando poi sempre per primi questa loro generosità. Solo che in
questa bella situazione esaltante esiste un neo non indifferente e che, a mio avviso è
necessario cominciare a considerare: la reinstaurazione del potere (che sia quello di prima
o che sia nuovo non ha importanza) e la brutale, sistematica, costante repressione del
popolo che aveva fatto l'insurrezione. Dalla rivoluzione francese, alla comune di Parigi,
alla rivoluzione russa, alla fallita rivoluzione spagnola, alla settimana rossa, all'occupazione
delle fabbriche del '20, sempre il potere più sadico e più brutale ha preso il sopravvento e
ha massacrato, trucidato, torturato, distrutto i compagni e le realizzazioni che erano state
approntate durante la fase insurrezionale e rivoluzionaria. Questa reazione susseguente alle
rivolte popolari, anche le più riuscite, le più compatte, è una costante della storia della
lotta per l'emancipazione e bisogna cominciare a tenerne conto.
Le ragioni per cui succede questo sono molteplici: il fatto che esistono sempre
organizzazioni ben strutturate pronte e decise a sfruttare la situazione di rivolta popolare
per mettere in atto i propri scopi di privilegio e di potere; il fatto che chi vuole
effettivamente portare avanti il discorso rivoluzionario fino alla sua realizzazione globale,
in particolare gli anarchici, nella sua eterna ingenuità, non vigili abbastanza per impedire ai
pescecani vecchi e nuovi di riuscire a reinstaurare la reazione; il fatto soprattutto che la
gente, il popolo, le masse agiscano con un'unica coscienza reale, quella della disperazione,
del rifiuto dello stato di cose che abbattono, senza nessuna idea, non dico concreta, ma
neppure teorica, di dove deve portare il momento insurrezionale e rivoluzionario che
hanno determinato. Allora chi ha le idee chiare e pochi scrupoli è in grado di approfittare a
suo piacimento.
Compagni, è ora di finirla di piangere sui nemici e dar la colpa a chi agisce per castrare la
rivoluzione, perché questo lo farà sempre, che noi lo vogliamo o no. Finora le insurrezioni
e le rivolte sono tutte fallite esattamente perché si basavano esclusivamente su una prova
di forza, sulla logica del fucile e tutto il resto veniva successivamente, tanto è vero che non
è mai venuto e, a mio avviso, se si continuerà a ragionare in termini di pura e semplice
insurrezionalità, momento privilegiato delle nostre azioni e della nostra propaganda,
spingendo quindi quasi esclusivamente sui sentimenti di vendetta e sulla voglia di scatenare
la violenza insita in noi da questa vita aberrante che siamo costretti a vivere, non potrà che
essere così anche nel presente e nel futuro. Se non si agisce sulla coscienza degli esseri
umani, perché la rivolta sia effettivamente un mezzo non solo per distruggere lo stato di
cose presente, ma anche e soprattutto per costruire una società effettivamente diversa, le
rivolte che susciteremo e organizzeremo saranno sempre destinate ad essere pasto di
famelici pescecani nemici nostri e di tutto il popolo.
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