Rivista Anarchica Online
I nuovi padroni
di Emilio Cipriano
Il potere dei dirigenti nelle imprese multinazionali
Berle e Means, due economisti americani, nel 1933, in pieno New Deal
Roosveltiano, formularono delle
ipotesi sull'indirizzo che la forma della proprietà andava assumendo che a quei tempi sembrarono
perlomeno avventate o irreali. Essi dicevano che il capitalismo negli U.S.A. nella sua forma classica
andava sparendo e adesso si andava
sostituendo un altro assetto economico-sociale dipendente dai nuovi rapporti di produzione che
progressivamente andavano instaurandosi. Berle e Means facevano parte della classe dirigente (Berle
era consigliere del presidente Roosevelt), non
proponevano alternative rivoluzionarie, ma analizzavano la realtà sociale ed economica per
fornire mezzi
operativi alla classe padronale. Purtroppo le loro analisi sarebbero servite, qualora lo si fosse voluto,
anche ai rivoluzionari, ma questi
non ne tennero conto e continuarono a basare le loro azioni sua analisi vecchie di un secolo. Oggi
ci troviamo quindi nella assurda situazione di dover recuperare il tempo perduto (nel frattempo la
classe dirigente ha affinato e aumentato le sue conoscenze) e di cercare, finalmente si spera, di indirizzare
in modo correttamente rivoluzionario la nostra lotta contro gli sfruttatori.
Le imprese multinazionali Il mondo produttivo "occidentale"
è oggi dominato da alcune grandi imprese che regolano e determinano
i consumi di due terzi del globo; alludo alle cosidette imprese multinazionali. Per imprese
multinazionali si intendono quelle società che operano in più paesi e che, articolandosi
in
varie forme produttive sia a carattere orizzontale (sviluppo massiccio di una stessa produzione) sia a
carattere verticale (insieme di più processi produttivi), sono in grado di controllare il mercato (1)
non
secondo le necessità che questo esprime bensì secondo i loro programmi di vendita o di
espansione. Questo tipo di impresa, prefigurazione dell'impresa di domani, nasce inizialmente in
paesi particolarmente
dinamici economicamente e ad alto livello di sviluppo capitalistico ma con mercato nazionale ristretto:
Svizzera e Olanda. Queste imprese che stanno soffocando oggettivamente il mercato, nascono
paradossalmente da esigenze tipicamente liberistiche creando nei paesi stranieri (ove si vorrebbe
indirizzare l'eccedenza produttiva, ostacolata però dalle restrizioni e difficoltà doganali)
imprese affiliate
che si inseriscono, dall'interno, nel mercato estero. È il caso della Nestlè, della Unilever,
della Philips. Negli anni '50 e '60 assistiamo allo sviluppo delle multinazionali statunitensi, dirette
a creare filiali
soprattutto in Europa e nell'America latina. Le imprese americane in molti casi divengono
multinazionali per sfruttare appieno, in modo massiccio
ed esteso geograficamente, le nuove tecniche produttive messe a punto grazie alla concentrazione
oligopolistica avvenuta nel loro paese. A volte problemi di ordine fiscale, legislativo (legge anti-trust),
di politiche di intervento inducono alla
multinazionalità. Le ragioni iniziali sono molteplici, complesse, derivanti dal combinarsi di
più fattori, l'importante è
comunque il dato di fatto oggi esistente: un numero relativamente piccolo di imprese controlla mercati
di ampiezza mondiale e i bilanci di queste sono in molti casi superiori, come valori, a quelli di moltissimi
stati.
I presupposti del nuovo potere L'articolarsi in campo internazionale
dell'attività imprenditoriale ha creato, con l'aumento delle esigenze
finanziarie (aumento progressivo del capitale sociale) una complessità di rapporti interaziendali
e di
vendita che hanno richiesto un ampliamento smisurato delle conoscenze. Il problema della dirigenza
dell'impresa è divenuto il cardine dello sviluppo o della sua sopravvivenza. Importante
è allora determinare chi, e in nome di quale interesse, domina la vita delle imprese
multinazionali. Istituzionalmente il potere nelle società è detenuto dai proprietari,
cioè dagli azionisti. Ma nelle dimensioni
assunte dalle grandi imprese il detentore di azioni quale reale capacità ha di influire, oggi, sulle
scelte
operative? Bisogna a questo riguardo considerare l'entità del possesso azionario di un
individuo, una famiglia o un
un ristretto gruppo nelle grandi imprese; vediamo allora una tendenza alla polverizzazione della
partecipazione azionaria e conseguentemente una progressiva incapacità degli azionisti a
governare la
propria società. Quando la polverizzazione raggiunge gradi elevati, e le duecento maggiori
imprese U.S.A. ne sono un
esempio tipico, il potere sulla società passa ai dirigenti di questa, e non solo perché gli
azionisti non hanno
voce sufficientemente valida in capitolo, ma anche perché il potere nell'impresa è
detenuto da chi prende
le iniziative operative (i dirigenti) e non da chi ha un potere formale di sanzione o di veto (capitalisti
azionari). Il processo di polverizzazione della proprietà merita, data l'importanza strategica
che ne deriva, una
giustificazione quantitativa. Prendiamo come esempio le duecento maggiori imprese U.S.A. (2). Nel
1929
presentavano questa situazione: 1. Società sulle quali un unico proprietario o gruppo ristretto
deteneva almeno l'80% del capitale: 6% 2. Società nelle quali un gruppo di controllo
deteneva una quota di capitale variabile dal 50% all'80%:
5% 3. Società nelle quali il gruppo di controllo deteneva una quota di capitale dal 20% al
50%: 24% 4. Società nelle quali il controllo era attuato attraverso speciali strumenti legali
(azioni privilegiate di voto,
società fiduciarie-holdings): 21% 5. Società nelle quali non esisteva una
partecipazione azionaria capace di influire sull'operato del consiglio
di amministrazione: 44% Dopo poco più di trent'anni la situazione si è evoluta a
favore del controllo da parte del consiglio di
amministrazione. Ecco i dati del 1963. 1. Società nelle quali un unico proprietario o un
gruppo ristretto detiene almeno l'80% del capitale:
nessuna 2. Società nelle quali un gruppo di controllo detiene una quota di capitale variabile
dal 50% all'80%: 2,5% 3. Società nelle quali il gruppo di controllo detiene una quota di
capitale dal 20% al 50%: 9% 4. Società nelle quali il controllo è attuato attraverso
speciali strumenti legali (azioni privilegiate di voto,
società fiduciarie-holding): 4% 5. Società nelle quali non esiste una partecipazione
azionaria capace di influire sull'operato del consiglio
di amministrazione: 84,5% A maggior chiarimento precisiamo che nel 1929 per le imprese
controllate dal consiglio di
amministrazione alla proporzione del 44% sul numero corrispondeva il 58% dell'attivo patrimoniale
complessivo. Nel 1963 la proporzione si è maggiormente sviluppata e contro l'84,5% delle
imprese troviamo che il
patrimonio attivo controllato assomma all'85% del totale. Questo significa che mentre nel 1929 le imprese
controllate dal consiglio di amministrazione erano solo le più grosse, nel 1963 il processo si
è esteso anche
a quelle relativamente piccole (relativamente si intende perché stiamo parlando di imprese, dalla
più
grande alla più piccola, di dimensioni gigantesche). Questi dati ci sembrano oltremodo
significativi; quando il controllo manageriale raggiunge tali livelli ha
ancora senso parlare di capitalismo? Il fenomeno fondamentale dell'economia occidentale è
la tendenza a relegare il capitalista dalla funzione
di imprenditore a quella di un detentore di un titolo di proprietà (l'azione) che gli assicura una
rendita,
ma che gli nega la possibilità di gestire l'impresa. D'altro canto il dirigente, da impiegato
subalterno del capitalista assume le funzioni imprenditoriali di
un'impresa che non è sua. Abbiamo anche casi che superficialmente sembrerebbero smentire
questa tendenza (anche se in fondo
i casi isolati non potrebbero inficiare l'aspetto generale) e cioè casi di proprietari che controllano
la loro
impresa (basti pensare ad una tipica impresa multinazionale italiana: la FIAT). Dobbiamo allora precisare
che per dirigere un'impresa non è sufficiente esserne il padrone assoluto di maggioranza, ma che
nella
impresa bisogna esercitare l'autorità, bisogna cioè trasformare la propria funzione da
quella di capitalista
a quella di dirigente e soprattutto suddividere la propria autorità con gli altri dirigenti non
proprietari. Agnelli per rifarsi all'esempio di prima, detiene il potere all'interno della sua impresa
non solo perché ne
è il proprietario maggioritario, ma soprattutto perché è il vertice
della piramide dei dirigenti della FIAT.
Ma a questo punto la funzione economico-sociale di Agnelli è ancora esclusivamente quella di
capitalista
o non già anche (forse prevalentemente) quella di un tecnocrate?
Il perpetuarsi della disuguaglianza Se i capitalisti stanno perdendo
o hanno perso potere, se questo è stato o viene assunto dai dirigenti delle
grandi imprese, visto però che formalmente il diritto di proprietà privata non è
scomparso, in nome di che
cosa comandano i dirigenti? La risposta a questo quesito è fondamentale, anche
perché ci troviamo di fronte ad una marea di analisi
marxiste (le più intelligenti, però) tutte tendenti ad affermare l'assurda proposizione che
"il capitale (e
quindi la sua funzione) sopravvive come istituzione alla scomparsa dei capitalisti"; ciò significa
affermare
che gli interessi sopravvivono ai rapporti sociali di cui sono espressione. Visione veramente idealista e
ascientifica, nonostante la presunta scientificità dei nostri "cugini" marxisti. Quindi i dirigenti
comandano nell'interesse del loro specifico gruppo sociale. E la società verso la quale
ci avviamo non è più capitalistica. La quantità diviene qualità, e se un
sistema può consentire fenomeni
atipici, oltre un certo livello certi fenomeni non fanno più parte della patologia del sistema, e ci
troviamo
dinnanzi un altro sistema economico, un altro assetto sociale: la società tecnoburocratica, dove
il privilegio
è determinato non dalla proprietà dei mezzi di produzione, ma dal possesso che di questi
si detiene grazie
alla posizione di potere occupata nel processo produttivo. Nelle grandi società, nelle imprese
multinazionali, questo passaggio di potere è già avvenuto; l'economia
cosidetta occidentale presenta ancora, è vero, numerosi esempi di capitalismo, a volte perfino
sacche di
pre-capitalismo, ma dato che la storia la fanno coloro che detengono la forza maggiore questa è
indiscutibilmente la tendenza generalizzantesi verso la quale ci avviamo. I gruppi dirigenti delle
imprese multinazionali, come tutti i gruppi di potere, hanno interesse ad ampliare
questo loro potere, e ottengono questo risultato ampliando l'area diretta od indiretta di influenza delle
imprese a cui sono a capo; nel contempo svolgono una funzione economica-sociale oggettivamente valida
(in conformità, beninteso, ai presupposti dell'attuale società gerarchica basata sulla
disuguaglianza) e
grazie alla posizione assunta come gruppo si assicurano attraverso il processo di aggregazione dei nuovi
dirigenti un meccanismo che assicura il controllo delle nuove leve, instaurando un sistema di difesa del
gruppo come elemento privilegiato. Questa è una delle forme di perpetuazione della
disuguaglianza così come nella società borghese il diritto
ereditario assicurava il perpetuarsi della disuguaglianza in una società in cui il potere era basato
sui
rapporti patrimoniali.
Emilio Cipriano
(1) Ammesso che si possa parlare ancora correttamente di mercato oggi. Infatti mancano quelli che
secondo l'economia classica sono i presupposti da cui esso trae origine e validità. Il mercato, per
essere
tale, (nella definizione che ancora si tiene generalmente valida) deve essere il momento di incontro tra
le molteplici forze produttive e la grande massa dei consumatori e soprattutto luogo di formazione del
prezzo a cui una quantità di prodotti viene venduta. Il concentramento delle imprese e la
conseguente eliminazione della concorrenza ha portato le grandi
imprese a considerare il mercato non più come momento di formazione del prezzo e della
quantità
vendibile, ma ad un enorme spaccio dove chi può o vuole compra ad un prezzo
predeterminato. (2) L'esempio delle duecento maggiori imprese U.S.A. è significativo
perché esse sono grandi imprese
a livello nazionale e contemporaneamente imprese multinazionali. Per convincersi della
significatività del
riferimento, basta puntare la nostra attenzione su tre di queste società (i nostri dati si riferiscono
all'anno
1965).
GENERAL MOTORS COMPANY |
Fatturato:
Attivo patrimoniale: Capitale sociale: Profitti: Dipendenti diretti: Azionisti: |
20.734 milioni di dollari 12.600 milioni di dollari 8.237 milioni di dollari 2.126
milioni di dollari 735.000 1.310.000 |
Presente pressocché in tutti i paesi del mondo,
la produzione viene distribuita attraverso 20.000
concessionari e distributori. |
FORD MOTOR COMPANY |
Fatturato: Attivo patrimoniale: Capitale
sociale: Profitti: Dipendenti diretti: Azionisti: |
11.500 milioni di dollari 7.600 milioni di dollari 4.500 milioni di dollari 703 milioni
di dollari 365.000 393.300 |
Presente pressocché in tutti i paesi del
mondo. |
STANDARD OIL COMPANY OF NEW
JERSEY |
Fatturato: Attivo patrimoniale: Capitale
sociale: Profitti: Dipendenti diretti: Azionisti: |
11.500 milioni di dollari 13.000 milioni di dollari 8.600 milioni di dollari 1.000
milioni di dollari 148.000 728.000 |
Presente con 275 affiliate in quasi tutti i paesi: U.S.A.
e Canada 114, Europa 77, America latina
43, Asia 14, Africa 9, altri paesi (tra cui Ungheria e Polonia!) 18. |
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