Rivista Anarchica Online
A più di due anni dalla strage di stato
a cura di E. M.
Fra un mese il processo
Valpreda in clinica L'11 gennaio 1972 il
presidente della corte d'assise Rolando Falco dopo aver esaminato la relazione
inviatagli dall'ispettore sanitario di Regina Coeli Giovanni Armaleo, ha disposto il trasferimento di Pietro
Valpreda nella clinica medica dell'Università di Roma. Stupisce tanta premura, la
realtà è che la decisione è tardiva e strumentale. Quando fu arrestato, Valpreda
fu descritto come un relitto umano a tal punto corroso dal morbo di Burger, da essere costretto a
prendere il taxi per un percorso di 135 metri. Fu descritto come un uomo disperato, dilaniato dal male,
privo delle dita dei piedi (da una a cinque, secondo le versioni). Così insiste Cudillo nella S.I.,
per
giustificare la incredibile storia del taxi di Rolandi. Inspiegabilmente però, quando Valpreda a
Regina
Coeli comincia a soffrire di reali disturbi e chiede di essere ricoverato e curato, gli si risponde che non
ve ne è bisogno, che sta benissimo in cella. A nulla valgono le richieste della difesa, documentate
da
relazioni cliniche che non lasciano dubbi sull'aggravarsi continuo delle sue condizioni. Secondo i medici
di Regina Coeli il "relitto umano" è in piena salute, e solo dopo 16 mesi nell'aprile del '71, viene
trasferito
nella fetida e sotterranea infermeria del carcere, dove le sue condizioni non accennano a migliorare e le
"cure" sono del tutto inadeguate. Il morbo di Burger è una malattia a decorso progressivo,
quando
Valpreda entrò in carcere il "morbo" era in forma latente e non comportava nessuna limitazione
fisica,
dopo 2 anni di "cure" in carcere, la malattia si è fatta molto grave, tanto da rappresentare un
pericolo
mortale. Questa è la verità che i rapporti clinici documentano, ed è esattamente
il contrario di quanto si
cerca di far credere. Volevano un relitto umano colpevole di strage, hanno preso un innocente in buona
salute e lo hanno ridotto in due anni di "trattamento" psico fisico. È una storia che evoca sinistri
ricordi
degli interrogatori e dei processi della Russia di Stalin.
L'aula inagibile Ora siamo vicini al 23 febbraio, e il giudice Falco non
vuole lasciarsi sfuggire il più bel processo della sua
carriera, quello dove dimostrerà ai "sovversivi" di tutti i colori e alla Nazione affamata di ordine
che i
sacerdoti in ermellino comandano ancora in Italia. Il processo si svolgerà (forse) nell'aula Magna
del
palazzo di Giustizia in piazzale Clodio cioè nell'aula che per la sua ristrettezza era stata scartata
per prima.
L'aula è stata definita, da chi l'ha vista, un bunker (sbarre alle finestre e porte murate), pericolosa
per
l'incolumità pubblica e contraria a tutte le regole vigenti per i pubblici locali. L'aula è una
vera trappola,
al minimo incidente si trasformerà in un serraglio, è un'aula che sembra fabbricata
apposta per la
provocazione. Il sistema si premunisce in anticipo. Al processo, in queste precarie condizioni,
parteciperanno i giudici, gli imputati, parte degli avvocati della difesa (se vengono tutti non ci stanno),
18 giornalisti (anziché i 150 prevedibili) che si scriveranno reciprocamente sulla schiena in quanto
hanno
a disposizione 18 sedie e nemmeno un tavolo. Il pubblico (la costituzione stabilisce che ai processi
partecipa il popolo) sarà composto da 50 poliziotti in borghese (di più non ci staranno)
e i compagni
staranno fuori, probabilmente fuori dal quartiere dove è situato il palazzo di Giustizia, che
sarà
trasformato in un accampamento di poliziotti e relativi mezzi gommati e cingolati sul tipo del "castro
romano". In queste condizioni la Giustizia si accinge ad eseguire il suo mandato. A meno che alla prima
udienza l'aula non venga considerata inagibile (ed in effetti lo è) e tutto venga rimandato nella
speranzosa
attesa che la "terapia di Corelli" a cui Valpreda sarà sottoposto non funzioni. Rimandare non
è una buona
politica e sappiamo che i nodi verranno al pettine, ma quello che ci preoccupa sono le condizioni di
Valpreda. Un uomo non può resistere chiuso in una cella, con il terrore dell'ergastolo con lo
stillicidio dei
rinvii, nella confusione politica dove l'omertà, le menzogne, la strumentalizzazione e il baratto
trova tutti
disponibili e compromessi, dove il sospetto e la provocazione serpeggia anche nelle espressioni della
solidarietà più sincera filtrate attraverso la censura del carcere. Chi vuole che Valpreda
e i suoi compagni
siano degli eroi deve stare molto attento. Sacco e Vanzetti, fuori dalle mura della prigione sentivano
l'appoggio e la solidarietà reale di milioni di persone, di tutta la sinistra politica e di un movimento
realmente di massa. Valpreda, Gargamelli e Borghese, contano su pochi compagni e la sinistra ufficiale
li ha già venduti. Facciamo pure il processo sotterrati in un bunker. Se la pressione
dell'opinione pubblica, del popolo e
degli sfruttati ci sarà, quello non basterà a salvarli, se non ci sarà, sarà
stata una precauzione inutile.
Di Cola sfida Occorsio Il compagno Enrico Di Cola, rifugiatosi in
Svezia dove ha chiesto l'asilo politico, ha indirizzato una
particolareggiata lettera-denuncia, in data 10 gennaio c.a., all'ambasciata italiana di Stoccolma. Copia di
tale lettera è stata anche inviata al consolato italiano di Stoccolma e alle procure di Roma e di
Milano. In tale lettera, il compagno Di Cola dopo aver ricordato che i carabinieri di Roma il 12-13
dicembre 1969
già erano a conoscenza dell'accusa che poi sarebbe stata elevata a carico di Pietro Valpreda (cfr.
"A 9"
"Parla l'ultimo latitante"), ricordato inoltre che il commissario di P.S. Umberto Improta si vantò
che i
poliziotti italiani in certe situazioni possono avere il grilletto facile, sfida la magistratura italiana
a
chiedere la sua estradizione. Infatti, perché l'estradizione possa venir concessa, la magistratura
italiana si
vedrebbe costretta a far giungere alla magistratura svedese competente gli atti del processo istruttorio per
la strage di stato. Il compagno Di Cola nella sua lettera-denuncia fa rilevare che purtroppo la
magistratura italiana si trova
nella disgraziata situazione di non poter richiedere la sua estradizione. La magistratura italiana non
può
permettersi il lusso di far conoscere alle magistrature di altri paesi i falsi che sono alla base dell'accusa
elevata contro gli anarchici. La lettera-denuncia del compagno di Cola è stata integralmente
pubblicata nel nr.2 del settimanale
anarchico "Umanità Nova". Compagni svedesi hanno provveduto a tradurre integralmente
in svedese tale lettera che è stata poi inviata
a tutti i quotidiani periodici svedesi politicamente impegnati. Il compagno Di Cola si è poi
recato personalmente al palazzo del governo di Stoccolma, per consegnare
tale lettera al primo ministro svedese Olof Palme.
Dov'è Udo Lemke Udo Lemke sembra essere scomparso.
Il suo avvocato ha dichiarato di avere avuto solo rapporti scritti
con lui e che un anno fa, essendo la sentenza diventata definitiva, ha troncato anche questi. Arrestato a
Roma nel marzo 1970 sembra sia stato rinchiuso nelle Carceri giudiziarie di Perugia dove però
attualmente non risulta detenuto. La stessa ambasciata tedesca, interpellata, non ha saputo o voluto
fornire spiegazioni. Nel marzo prossimo
dovrebbe essere scarcerato avendo ottenuto un anno di condono. Udo Lemke comparve sulla scena
della strage di stato, il 12 dicembre 1969 presentandosi volontariamente
come teste alla legione dei carabinieri di Roma. Lemke aveva riconosciuto in un fascista uno degli
attentatori al monumento al milite ignoto. La sua deposizione viene rapidamente archiviata dai carabinieri
inquirenti, ma in compenso si provvede, in maniera veramente romanzesca a rinchiudere il Lemke in una
sicura prigione di stato. Il 12 gennaio l'autista romano Walter Palazzi si presenta al commissariato di
Castro Pretorio affermando che un capellone da lui intravisto in un bar di piazza Navona, deve essere
arrestato per furto. Secondo le dichiarazioni di Walter Palazzi, il capellone in questione si chiama Udo
Lemke e commercia in stupefacenti. Il Walter Palazzi è anche a conoscenza dell'albergo nel quale
il
Lemke alloggia, e di quante persone dormano nella stessa stanza del Lemke. Il Lemke viene arrestato il
giorno dopo, durante la perquisizione effettuata nella stanza abitata dal Lemke. Durante la perquisizione
difatti, vengono rinvenuti, a detta dei poliziotti, dieci chilogrammi di hashish. Nel processo che ne segue
il Lemke viene assolto dall'accusa originaria di furto, e condannato a tre anni per possesso di materiale
stupefacente. Di notevole, oltre al fatto che non venne mai dimostrato come il Lemke potesse entrare in
possesso di merce del valore di dieci milioni di lire, il valore dei dieci chili di hashish, va notato che il
pubblico ministero al processo Lemke si chiamava Vittorio Occorsio, e che agli atti del processo non
è
mai stata depositata una perizia che dichiarasse che quello che i poliziotti romani qualificarono per
hashish, fosse veramente hashish e non cenere cristallina di nessun valore. In ogni caso, la persona che
sul caso Lemke ne doveva sapere in anticipo tanto quanto il volenteroso Walter Palazzi, è un
certo
Wolfang, l'unico che ebbe la possibilità di introdurre nella stanza del Lemke il famoso pacco di
hashish.
Il Wolfang, alla presenza dei poliziotti che lo avevano fermato, scomparve senza che nessuno cercasse
di fermarlo.
Epidemia di giudici popolari Francesco Paparozzi, 56 anni
funzionario e attivista di un sindacato apolitico (?) è fino ad ora, l'unico che
ha accettato la nomina a giudice popolare per il processo Valpreda sebbene ciò lo lasci "un po'
disorientato". Luigi Albano, 41 anni, tarantino, si dichiara affetto da "una grave forma di
esaurimento nervoso", mentre
Renzo Parma, "terrorizzato da questo scherzo della sorte", si è tappato in casa, tattica seguita
anche da
Carlo Mauro, 48 anni di Pomezia. Quanto agli altri, quelli che non stanno preparando certificati medici
e scuse varie, si sono praticamente resi latitanti e facendo orecchie da mercante evitano perfino di
rispondere in qualche modo alla chiamata (obbligatoria). Il popolo ha il naso fino, i prescelti giudici
popolari probabilmente non hanno letto "La Strage di Stato"
e non sanno chi è Delle Chiaie, ma la puzza di marcio si sente da lontano... A questo punto
sarà necessario cercare altri giudici, ma la cosa si presenta complessa: chi non si occupa
di politica, preferisce darsi ammalato; tra chi se ne occupa, gli anarchici e quelli di sinistra difficilmente
entrano negli elenchi dei cittadini tra i 30 e i 65 anni di provata onestà e integrità morale,
con diploma di
scuola media e senza precedenti penali, restano gli altri... Ma di che si preoccupano? Non è forse
la
Giustizia libera e imparziale?
Anarchici e questori: le radici storiche della provocazione poliziesca in Italia
"Primieramente fu tosto inteso dalli dipendenti che a venire od a crescere in estimazione presso i
superiori
o, soprattutto, ad ingraziarseli, era mestiere zelare di continuo la delazione politica, tracciare sospetti,
discoprire trame e macchinazioni... Di lì ad inventarle di sana pianta non fu gran passo e non
guastò che
anzi il festiere si fe' profittevole". (L. Zini, Dei criteri e dei metodi di governo nel regno
d'Italia, Bologna, Zanichelli, 1876, p.69).
"... Organizzare attentati, provocarli oltreché attribuirli agli "elementi sovversivi" e
specialmente agli
anarchici, fa parte di una triste, antica tradizione. Sono espedienti che, come tali,
appartengono alla cronaca, non alla storia. Il falso, spesso perfetto sul
piano della cronaca e su quello giudiziario, difficilmente passa alla storia. A distanza di anni, non di
rado, la montatura cade e mostra tutta la turpitudine dell'abuso cinico del potere, tutto l'orrore della
calunnia e dell'ingiustizia subita dai calunniati. Una metodologia sempre usata perché sempre
fruttuosa, struttura portante di un certo tipo di politica nazionale preservatasi intatta attraverso periodi
storici per altri versi tra loro assai differenti. 1870-1970: da questo punto di vista ben poco è
cambiato:
quel tipo di provocazione reazionaria giunge fino a noi attraverso schemi resi ormai consueti, anche
se un po' meno efficaci, dalle periodiche sperimentazioni..." (A. Coletti, Anarchici e
questori, Marsilio Ed.).
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Noi accusiamo
Vincenzo Nardella, l'autore del libro "Noi accusiamo" (Ed. Jaca Book, novembre 1971), ha condotto
una
"contro-istruttoria" sulla strage di stato, leggendosi l'istruttoria di Occorsio, rilevandone le più
grossolane
inesattezze e contraddizioni e proponendo qualche sua interpretazione alternativa. Pur nei limiti di un
lavoro fatto quasi completamente a tavolino e a parte talune inesattezze (che pare saranno eliminate nella
seconda edizione), il libro di Nardella è di utile e "gustosa" lettura. I tre paragrafi che seguono
sono
ricavati da alcune pagine di "Noi accusiamo".
La bomba in transito Nessuno ha mai capito perché sia
l'istruttoria sulla strage che il processo a Valpreda e gli altri debbano
avere come sede naturale Roma e non Milano, dal momento che il fatto più grave della catena
di attentati
e l'ultimo episodio (quello che secondo il codice definisce la "sede naturale") sono avvenuti a Milano,
cioè
l'attentato alla banca dell'Agricoltura e quello, fallito, della Banca di piazza della Scala. Il motivo
vero, che non si deve dire, è che a Roma tutto è più facile da "gestire" essendo
là la stanza dei
bottoni e delle manovre. Il motivo giuridico è invece frutto di un'interessantissima e arguta trovata
di
Ernesto Cudillo. Come è noto la bomba di piazza della Scala fu rinvenuta tra le 18,30 e le 19
di venerdì
12 dicembre, e quindi costituisce inequivocabilmente "l'ultimo episodio" della catena. Cosa fa allora il
diabolico Cudillo? Per avvalorare il trasferimento dell'inchiesta a Roma l'illustre magistrato afferma che
esiste il sospetto che la bomba di piazza della Scala sia stata deposta non con l'intento di farla esplodere
ma così, semplicemente deposta. Quindi, unica eccezione nelle cinque bombe del 12 dicembre,
la bomba
di piazza della Scala non è una bomba, ma solo esplosivo che passeggia per la città,
senza la particolare
autorizzazione. Non essendo una bomba ma semplice "esplosive in transito" non costituisce un episodio.
E non fate i furbi, è proprio così.
L'artificiere sgradito Il maresciallo di artiglieria Guido Bizzarri
è l'uomo che da solo ha disinnescato 12.000 bombe al di sopra
del quintale, e probabilmente il più abile artificiere nella zona di Milano. Tutte le volte che,
prima di piazza Fontana, un ordigno esplosivo era stato rinvenuto in città o negli
immediati dintorni la polizia aveva provveduto ad inviare un automezzo per prelevare il maresciallo
Bizzarri. Quando seppe del ritrovamento della bomba inesplosa alla Commerciale di Piazza della Scala,
Bizzarri si mise a disposizione e attese. Quando, stanco di attendere si mise in viaggio con i propri mezzi,
arrivò in piazza della Scala per constatare che il solito Teonesto Cerri l'aveva fatta scoppiare
senza
nemmeno tentare di disinnescarla. Con la bomba (ora "esplosivo in transito" vedi sopra) erano scoppiate
prove, indizi ed impronte digitali. Teonesto Cerri sostenne che la bomba era troppo pericolosa e non
poteva essere disinnescata. Bizzarri
dichiarerà: "farla saltare è stato un grosso sbaglio. Non si ha idea della potenza
dell'esplosione e si fa
saltare la bomba al centro della città. Aprirla per me sarebbe stato uno scherzo". Teonesto Cerri,
il perito
del Tribunale di Milano specializzato in attentati anarchici, è dunque un incapace?
Benito Bianchi ha perso il treno che non c'è Benito Bianchi
entra nella scena dell'inchiesta, dichiarando di aver incontrato Valpreda a Roma il 14
dicembre, al bar Jovinelli dopo aver assistito alla partita Lazio-Inter. Quando il Bianchi arriva davanti al
magistrato Ernesto Cudillo, ha fatto in tempo a sapere che la partita era stata giocata a fine novembre,
e quindi egli descrive al magistrato le movimentate sequenze della partita Fiorentina-Roma, partita alla
quale il Bianchi avrebbe assistito come spettatore pur essendo un patito tifoso non della Roma ma della
Lazio. Il Bianchi non fa in tempo ad uscire dal palazzo di giustizia e viene a sapere che la compagnia
teatrale presso la quale lavorava si sciolse alla fine di novembre. Nuova trafelata corsa del teste
Benito Bianchi davanti al magistrato inquirente Ernesto Cudillo. Ed il
Bianchi, "riconfermando tutto come da precedente deposizione", dichiara che andò a Firenze
a vedersi
la partita Fiorentina-Roma non perché era rimasto senza lavoro, ma perché si stava
annoiando a Chioggia
con la fidanzata, ed allora mandò la fidanzata a quel paese, prese il treno, si fermò a
Firenze, si guardò
la partita e finalmente arrivò a Roma. Il particolare che non torna nella versione corretta di
Benito Bianchi, è chi egli non ha assistito a nessuna
partita Fiorentina-Roma. Il Bianchi infatti, nella sua deposizione riveduta e corretta, afferma di essere
arrivato a Roma alle 20,30-20,45 e di essersi trovato allo Jovinelli verso le 21. E difatti dalla stazione
termini al bar Jovinelli, la distanza a piedi è di circa 20 minuti. Ma verso le 20,30-20,45 del 14
dicembre
1969, non arrivò nessun treno da Firenze nella stazione di Roma Termini. L'unico treno che
arrivò a
Roma Termini in un'ora imprecisata racchiusa tra le 20,30 e le 21,30 e proveniente da Firenze, era il
treno straordinario riservato ai tifosi della Roma al seguito della propria squadra, treno che il Bianchi non
poteva prendere perché privo del biglietto speciale per tale treno. Il Bianchi infatti, non
partì da Roma
per raggiungere Firenze non si munì di un biglietto di andata e ritorno valido per il treno speciale
che
doveva trasportare i tifosi della Roma a Firenze. Il Bianchi partì da Venezia con un biglietto
regolare e
secondo la sua versione si fermò a Firenze e se voleva essere presente al bar Jovinelli per poter
testimoniare contro Valpreda il percorso Firenze-Roma il 14 dicembre 1969 avrebbe dovuto compierlo
in taxi.
Aspettando il manichino
Rovesciate le parti al processo per la morte di Pinelli. Ora tocca alla difesa di Calabresi trovare il
modo
di adattare l'incrinatura riscontrata su una faccia dell'epistrofeo (seconda vertebra cervicale) alla tesi del
suicidio. La frattura a parere dei periti di Licia Pinelli, risale certamente ad una lesione provocata prima
della morte. I periti di Calabresi non si sono ancora pronunciati in merito e stanno probabilmente
scervellandosi per trovare una giustificazione decente. Molto prima della riesumazione avevano detto
"attento alle vertebre, commissario!". Appunto. La prova del manichino è stata per ora
rimandata (il manichino dell'Alfa Romeo, in acciaio, non andava
bene) ma un tecnico di Cinecittà provvederà a costruirne uno adatto e un uomo, forse
un acrobata,
verificherà se Pinelli può essersi buttato dalla finestra con le modalità descritte
nei rapporti della squadra
politica e nelle deposizioni troppo confuse o troppo precise dei poliziotti al processo Baldelli. La
proposta,
avanzata da taluno, di usare per la prova il corpo di un funzionario dell'Ufficio Politico della Questura
di età e dimensioni opportune, non è stata accolta. Il giudice D'Ambrosio, gli va dato
atto, sta conducendo l'indagine in modo molto più serio di quanto
hanno fatti suoi predecessori, a cominciare dal giudice Amati. D'Ambrosio si muove in molte più
direzioni, ma di ciò che fa non si sa molto perché a questo proposito, forse a ragione,
è muto come una
tomba. Non conosciamo le sue intenzioni né fino a che punto è deciso ad andare avanti.
È certo che
davanti a lui ci sono due scelte difficili: in primo luogo è evidente che allargare il campo delle
indagini
significa far confluire l'intero procedimento nel processo per la Strage di Stato ed è altrettanto
evidente
che i poliziotti tenteranno in tutti i modi di mantenere il caso Pinelli isolato dalla Strage. In secondo
luogo,
le "pressioni" su D'Ambrosio sono state o saranno molto pesanti ed il giudice Biotti che per aver osato
molto meno fu ricusato con l'accettazione della Corte d'Appello, sottoposto a processo disciplinare e
successivo procedimento finale affidato alla giacobina Procura della Repubblica di Firenze, sospeso dallo
stipendio e dall'Ufficio e infine dimenticato da tutti, è solo un esempio del grado di libertà
che la libera
Magistratura della Repubblica nata dalla liberazione consente ai liberi Magistrati in nome della
libertà
della legge. Il 22 novembre, per concludere, il procuratore generale della Cassazione ha chiesto il rigetto
del ricorso presentato dal presidente del Tribunale di Milano, dott. Carlo Biotti contro l'ordinanza che
accoglieva la sua ricusazione. A questo punto, a nostro avviso, se ci tiene alla carriera, allo stipendio
e alla coscienza è meglio che
D'Ambrosio continui con la massima rapidità e decisione perché al primo cenno di
debolezza (quale
potrebbe essere il rifiuto a sentire come testimone l'ex questore Marcello Guida) lo schiacceranno come
una pulce.
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