Rivista Anarchica Online
Il leggendario Machno
di R. Brosio
La rivoluzione libertaria in Ucraina tra la reazione bianca e la controrivoluzione bolscevica
La rivoluzione russa, nonostante gli sforzi della storiografia ufficiale per
presentarla come un fenomeno
di marca esclusivamente bolscevica, non fu in realtà una marcia disciplinata ed univoca verso il
socialismo
di stato. L'attuale sfruttamento tecnoburocratico non è stato, come ancor oggi molti sembrano
credere,
il frutto di una degenerazione, successiva e non prevedibile, ma costituì fin da principio il
carattere del
regime sovietico e fin da principio dovette esser imposto con la forza, contro le aspirazioni
e le tendenze
che le masse rivoluzionarie naturalmente esprimevano. I galoppini di partito dei nostri giorni amano
dimenticare che la costruzione del nuovo stato, all'inizio, dovette fare i conti non solo con la reazione
bianca, ma anche con l'opposizione spesso violenta degli operai e dei contadini che non si sentivano
rappresentati dal nuovo potere e non intendevano rinunciare al diritto, ormai a portata di mano, di
decidere da sé la propria esistenza. Queste lotte per una reale emancipazione furono, tra l'altro,
particolarmente attive in Ucraina, dove lo spirito rivoluzionario delle masse contadine (l'Ucraina aveva
un'economia agricola) era molto forte, e dove antichi e mai sopiti sentimenti autonomistici rendevano
odiosa l'autorità del governo centrale. Qui, negli anni tra il 1917 e il 1920, i veri interessi degli
sfruttati
ebbero un difensore eccezionale, contro le vecchie e le nuove oppressioni: l'anarchico Nestor
Machnò.
Egli ebbe un'importanza storica e rivoluzionaria immensa, eppure le sue imprese di guerrigliero e di
libertario sono oggi accuratamente cancellate dai testi ufficiali o relegate al rango di squallide manovre
banditesche. Ricordarle nella loro verità non vuol dire solo rendere omaggio all'esattezza storica,
ma
dimostrare una volta di più il carattere antiegualitario e controrivoluzionario del regime
sovietico.
Nestor Ivanovic Machno Nestor Ivanovic Machnò nacque
in Ucraina da contadini poveri, il 27 ottobre 1889, nel villaggio di Guliai
Pole, distretto di Aleksandrovsk, provincia di Ekaterinoslav. Ancora adolescente entrò nel
movimento
anarchico e ne divenne attivo militante. Aveva solo vent'anni quando conobbe di persona la violenza della
repressione zarista: accusato di terrorismo, fu condannato a morte e quindi, in considerazione della
giovane età, alla pena "più mite" della galera a vita. Venne rinchiuso nella famigerata
Butyrky di Mosca
e vi rimase, apparentemente senza speranze, fin quando l'insurrezione del '17 non gli rese
inaspettatamente la libertà. Tornò a casa. La prigione, dove aveva conosciuto altri
anarchici più maturi
ed esperti, aveva affinato la sua ideologia invece di spezzare la sua volontà rivoluzionaria, l'aveva
resa più
cosciente e ferma. A Guliai Pole fu uno dei protagonisti dell'esproprio delle terre dei kulaki (contadini
ricchi) e della loro ridistribuzione in senso egualitario. Su iniziativa di Machnò, presidente del
locale
consiglio rivoluzionario dei contadini e degli operai, le proprietà dei kulaki vennero inventariate
e
confiscate, lasciando ai vecchi padroni solo una "giornata" di terra ciascuno. Erano giorni di grandi
speranze, in cui sembrava davvero di iniziare la costruzione di una nuova società senza classi e
senza
sfruttamento. Ma l'illusione durò poco. Nel 1918 i bolscevichi conclusero con l'impero
austroungarico
il trattato di Brest Litovsk, lasciando l'Ucraina alla mercè della controrivoluzione. I nuovi padroni
misero
in piedi il governo fantoccio dell'ataman Skoropadsky e reintegrarono nei loro "diritti" gli antichi
possidenti. Le terre vennero tolte ai contadini poveri e le conquiste rivoluzionarie cancellate.
La guerriglia partigiana Fu in quest'epoca che nacque la leggenda di
Nestor Machnò. Egli creò una brigata partigiana, con compiti
di propaganda e di guerriglia, che divenne ben presto il terrore dei kulaki e degli austrogermanici, e, per
contro, la speranza di tutti gli sfruttati della regione. Machnò era un uomo duro, forgiato
dall'ambiente
e dalle circostanze a non chinare la testa di fronte alla prepotenza, fiducioso solo di se stesso e della sua
gente, abituata dall'asprezza della repressione ad usare sciabola e pistola senza troppi complimenti, per
difendere la sua vita e il suo buon diritto. La brigata che lo seguiva era il riflesso del suo carattere.
Abilissimi cavalieri, dotati di una profonda conoscenza dei luoghi in cui operavano, i machnovisti
fungevano da giustizieri di tutti i torti commessi contro gli sfruttati nei pochi mesi di vita del regime
dell'ataman. Attaccavano le case padronali, i distaccamenti della guardia nazionale, i villaggi presidiati.
Si travestivano da militari tedeschi, cacciandosi tra le braccia del nemico per ingannarlo con false
indicazioni e sopraffarlo al momento opportuno. Impedivano le requisizioni militari, liberavano gli
incarcerati, rubavano armi e munizioni per armare nuovi insorti. "Senza paura e senza compassione",
dice
Pietro Arscinov, biografo di Machnò e suo amico personale. Tutti gli ufficiali, i proprietari
terrieri, i kulaki e gli aguzzini che capitavano nelle mani dei machnovisti
venivano ammazzati senza indugio: era una lotta senza esclusione di colpi ed entrambe le parti la
conducevano come tale. Ma, mentre i tedeschi uccidevano indiscriminatamente, Machnò
lasciò sempre
andare liberi tutti i soldati semplici che faceva prigionieri e, in genere, tutti i poveracci, sfruttati come lui,
che erano costretti dall'autorità e dall'ignoranza ad opporglisi. Questa condotta dimostrava
chiaramente
il carattere rivoluzionario della brigata machnovista, ed ebbe un gran peso nel creare quei rapporti di
solidarietà ed aiuto che esistevano tra i partigiani ed i contadini ucraini, e che durarono per tutto
il tempo
in cui Machnò fu attivo combattente. Perché, oltre al genio guerrigliero, alle doti naturali
di coraggio e
resistenza, questo fu il segreto del successo di Machnò, l'origine dell'alone leggendario che
aleggiava
intorno alle sue imprese: il legame che egli seppe sempre mantenere con le popolazioni per cui
combatteva. E inoltre, tanto aspro era Machnò contro i suoi avversari, quanto affabile, umano
e
accattivante nei rapporti con la sua gente. Gran bevitore, donnaiolo, pronto al riso e allo scherzo (almeno
fintantoché le circostanze glielo permisero), i contadini vedevano in lui non un estraneo, ma uno
di loro,
un prodotto (come era) della loro stessa classe. E così aiutavano lui e i suoi uomini, rifornendoli
di cibo
e di cavalli freschi, curando di nascosto i feriti, dando informazioni preziose sui movimenti del
nemico. Spesso gli uomini stanchi e troppo provati dagli scontri, dalle battaglie, dagli inseguimenti
e dalle ritirate,
tornavano ai villaggi di origine, mentre altri, validi, lasciavano momentaneamente la terra per prendere
il loro posto. La meravigliosa mobilità della brigata machnovista, la sua spietata efficienza, la sua
imprendibilità, erano rese possibili da questa fitta rete di aiuti e di
solidarietà. Nell'ottobre-novembre 1918, Machnò condusse l'attacco decisivo contro
il regime dell'ataman, nella sua
regione. Liberò completamente Guliai Pole e si spinse fino a Ekaterinoslav, spazzando via ogni
forma di
potere controrivoluzionario. Intanto gli austrotedeschi avevano incominciato ad evacuare le loro truppe
anche dal resto dell'Ucraina, privando Skoropadsky di quella forza militare che era stata, fino ad allora,
l'unico motivo della sua esistenza. Nel dicembre 1918, l'ataman abbandonò ignominiosamente
l'Ucraina.
Era la fine del regime, e le brigate machnoviste avevano contribuito non poco a determinarla. Ma cessata
una minaccia, ne sorgeva, nel frattempo, un'altra: il movimento nazionalista borghese di Petliura, che
tentava, sotto la falsa bandiera del separatismo ucraino, di conquistarsi la fiducia delle masse e prendere
sotto il suo controllo il paese. Cosa che in effetti riuscì a fare, se pur temporaneamente, ma non
nella
regione dove operava Machnò. La brigata partigiana, che ormai poteva contare su forze notevoli,
diventò
Esercito Insurrezionale Rivoluzionario e bloccò Petliura alle soglie di Ekaterinoslav. In tutto
questo
periodo, dal novembre 1918 al giugno 1919, la zona protetta dai machnovisti restò libera e
nessuna forma
di autorità statale, né bianca né rossa, riuscì a penetrarvi. Gli sfrattati
ucraini poterono così iniziare la
costruzione di una vera società libertaria, almeno nelle premesse. Sorsero diverse comuni
agricole, basate
sul principio del mutuo appoggio, e i Liberi Consigli dei Lavoratori, come forma organizzata di
autogoverno dei vari villaggi. Tutto ciò, soprattutto a Guliai Pole, fertile centro di propaganda
anarchica
e rivoluzionaria. L'esercito insurrezionale, che era il principale portatore di queste idee e di questi
principi,
vegliava su tali realizzazioni ma non interferiva. Machnò ebbe a dichiarare più volte che
esso aveva
compiti di difesa militare ma non rappresentava alcuna autorità.
L'Armata rossa contro la rivoluzione Del resto, questi compiti
tornarono ben presto a farsi nuovamente pressanti. Da nord, marciavano sulla
regione le truppe dell'Armata Rossa e i rappresentanti del nuovo potere statale, da sud-est avanzava la
controrivoluzione denikiana. Giunse per prima quest'ultima, con l'esercito del generale Shkuvo, contro
cui la lotta dovette essere intrapresa fin dal gennaio 1919. In quest'occasione il talento militare di
Machnò
ebbe modo di rivelarsi in pieno. L'Esercito Insurrezionale contava a quel tempo più di ventimila
uomini
e consisteva di alcuni reggimenti di fanteria e cavalleria. La cavalleria era giustamente famosa, formata
di uomini simili a quelli che avevano combattuto contro Skoropadsky, coraggiosi e resistenti, capaci di
percorrere grandi distanze senza tappe, abituati a caricare all'arma bianca, esperti nelle tattiche di
guerriglia. Ma anche la fanteria era particolare, del tutto diversa da quella tradizionale, creazione della
genialità di Machnò: essa si muoveva non a piedi, ma sopra specie di carrozze leggere
tirate da cavalli,
dette "tacianke" in Ucraina, e poteva procedere così di pari passo con la cavalleria, protetta negli
spostamenti da altre tacianke equipaggiate con mitragliatrici. Il risultato era una rapidità di
movimenti
eccezionale, che nessuna armata a quel tempo possedeva. Anche l'organizzazione dell'esercito
insurrezionale era diversa dalla norma. Pur avendo, nonostante tutto, alcuni dei caratteri negativi propri
di tutti gli eserciti, esso si basava su tre principi fondamentali che lo distinguevano dagli altri: la
volontarietà, in quanto era formato solamente di rivoluzionari delle classi sfruttate che
vi erano entrati
per libera scelta; l'elettività delle cariche, il che significava che i soldati si
sceglievano i propri comandanti
e potevano revocarli in qualunque momento; l'autodisciplina, cioè regolamenti non
imposti, ma approvati
nelle assemblee di tutti i reparti. Tutto questo, unito alle doti naturali di valore e audacia, in uomini che
sapevano di combattere per sé stessi e per la propria libertà, faceva dell'armata
machnovista uno
strumento dotato di un'efficienza senza pari.
L'alleanza tattica Nel marzo 1919 il comando bolscevico giunse nella
regione e si incontrò con Machnò, proponendogli
di entrare con i suoi uomini nell'armata rossa per combattere uniti Denikin. Era chiaramente una manovra
per assorbire e rendere inoffensivo lo spirito rivoluzionario che l'esercito insurrezionale rappresentava,
ma Machnò era troppo preoccupato dall'incombere dei bianchi per rischiare di dover dar
battaglia su due
fronti, e accettò. Questa ingenuità nei rapporti con i bolscevichi, che pure non venivano
affatto considerati
come dei rivoluzionari dai machnovisti, sarà, in seguito, fatale al movimento, come vedremo. Ma
tutto
sommato, bisogna riconoscere che essi non potevano ragionare col "senno di poi", come noi oggi
possiamo fare. Così, l'esercito insurrezionale entrò nell'armata rossa, conservando
però il proprio nome
e le proprie bandiere nere, e iniziò la lotta comune contro i denikiani. Ciononostante,
l'instabilità e
l'equivoco di quel rapporto furono ben presto evidenti, quando la stampa bolscevica dette l'avvio ad una
campagna di calunnie e menzogne contro gli alleati, inaugurando un sistema di trattare con gli avversari
politici tipico del comunismo, non solo sovietico. Come se non bastasse, i rossi presero a interferire
autoritariamente nell'organizzazione rivoluzionaria della
regione: il 10 aprile di quell'anno ebbero la pretesa di dichiarare fuorilegge e controrivoluzionaria (!)
l'assemblea regionale dei contadini operai e insorti, che si teneva con lo scopo di fissare i compiti del
momento. I machnovisti non si lasciarono intimidire, replicarono duramente alle accuse sulla loro stampa
e intensificarono la propaganda libertaria. I rapporti diventavano più tesi. La pressione delle
bugie bolsceviche e delle provocazioni cessò improvvisamente con l'ammutinamento
dell'ataman Grigoriev. Era costui un controrivoluzionario dello stesso calibro di Petliura, poco più
che
un bandito, nazionalista sanguinario e massacratore di ebrei: insorse con le sue bande contro i bolscevichi
sperando di potersi unire a Denikin e prendere sotto il suo controllo autocratico la zona. I bolscevichi
temettero che continuando a provocare Machnò, questi si sarebbe alleato a Grigoriev per
combatterli, e
decisero, spudoratamente, di passare dagli insulti alle lodi, come se nulla fosse. In realtà, i timori
erano
del tutto infondati: Machnò era cosciente del fatto che Grigoriev era un reazionario e non gli
passò mai
per la testa di accordarsi con lui. Anzi lo combattè aspramente. Quando i bolscevichi si
accorsero che non avevano nulla da temere, le accuse e le calunnie
ricominciarono. Trotzky arrivò in Ucraina e mise tutto il suo impegno di statolatra ipocrita nella
campagna
denigratoria: i machnovisti venivano fatti passare per un movimento di kulaki, per banditi da strada e
assassini di ebrei. Venne messo in atto un vero e proprio blocco di tutta la regione: l'invio di viveri,
medicinali e soprattutto di armi e munizioni era sospeso, cosa tanto più criminale se si pensa alla
pressione
continua dei bianchi. Ma Trotzky preferiva cedere l'Ucraina alla reazione denikiana, piuttosto che lasciare
in vita il movimento machnovista, portatore di idee rivoluzionarie assai pericolose per la stabilità
del
nuovo potere.
Trotzky dirige la repressione Nel maggio 1919, Denikin
iniziò un nuovo attacco contro la regione di Guliai Pole.
Contemporaneamente, Trotzky passò alla liquidazione fisica dei machnovisti. Mentre le truppe
degli
insorti, prive di armi e munizioni, cominciavano a cedere alla valanga dei cosacchi del generale Shkuro,
nelle retrovie del fronte giunsero i reggimenti bolscevichi, irrompendo nei villaggi, uccidendo sul luogo
i lavoratori rivoluzionari, distruggendo le libere comuni esistenti. Un congresso indetto, per il 15 giugno,
dal consiglio militare rivoluzionario di Guliai Pole venne vietato tirannicamente da Trotzky e molti di
quelli che l'avevano organizzato vennero presi e fucilati. Inoltre venne dato l'ordine segreto di cercare
Machnò e ucciderlo, insieme al suo stato maggiore. Di lì a poco i bolscevichi
ritirarono alcuni reggimenti dalla zona di Griscino: proprio da quella parte le
truppe cosacche penetrarono nell'interno. Ci furono combattimenti sanguinosi, lo stesso Machnò
venne
ferito più volte, Guliai Pole venne presa e persa ripetutamente. La situazione era indubbiamente
grave.
I bolscevichi, con la consueta faccia tosta, dimenticarono un'altra volta la loro avversione per i
machnovisti e inviarono rinforzi per fronteggiare i denikiani, in ipocrita armonia con gli avversari di un
tempo. Ma Machnò non si fidava di tale situazione, indubbiamente falsa, e decise di abbandonare
il
comando (in apparenza), rassegnando le dimissioni. Fu una manovra per rimandare per il momento lo
scontro con i rossi, in attesa che la questione Denikin si risolvesse. La maggior parte dei machnovisti
venne integrata nell'armata rossa, ma la tacita intesa era di riunirsi nel momento opportuno con
Machnò.
Questi scomparve con un piccolo reparto dei suoi fidati cavalieri.
La disfatta di Denikin Alla fine di giugno l'Ucraina stava cadendo
sotto l'invasione di Denikin, mentre i sovietici, che non
l'avevano né saputa né voluta difendere, si preoccupavano più che altro di
evacuarla in fretta. E Machnò
divenne di nuovo il centro focale della speranza degli sfruttati, che presero a riunirsi intorno a lui sempre
più numerosi: pian piano l'armata machnovista si riformava. Ma per poter combattere
efficacemente i
bianchi, Machnò aveva bisogno di non correre pericoli sul fronte interno: il maggiore di questi
era
rappresentato dalle bande dell'ataman Grigoriev che potevano da un momento all'altro unirsi ai denikiani
e compromettere il contrattacco rivoluzionario. Con astuzia contadina, Machnò, sfruttando i
continui
inviti all'alleanza che l'ataman gli rivolgeva (peraltro senza ottenere risposta), indisse un congresso insieme
a Grigoriev. Qui, pubblicamente lo smascherò per quel controrivoluzionario che era. Grigoriev
mise
mano alla pistola per uccidere Machnò, ma questi, col suo aiutante Karetnik, fu più
svelto. Seguì una
terribile sparatoria, in cui oltre a Grigoriev furono liquidati tutti personaggi principali del suo stato
maggiore. Privato del suo capo, l'ammutinamento nazionalista dell'ataman era liquidato. Le masse al suo
seguito, che erano pur sempre formate di sfruttati ingannati con falsi miti, vennero integrate nelle truppe
machnoviste. Alla fine di luglio avvenne la riunione con i machnovisti rimasti nell'armata rossa.
Costoro organizzarono
una rivolta, uccisero gli ufficiali bolscevichi e i commissari politici, e si ricongiunsero, insieme a parecchi
reparti rossi passati dalla loro parte e con un ingente bottino di armi e munizioni, a Machnò.
Iniziò così
la riscossa contro i denikiani. Dopo i primi scontri, i machnovisti presero a ritirarsi tirandosi dietro per
giorni e giorni le truppe nemiche, allontanandole dai loro centri di rifornimento e costringendole a
sguarnire le retrovie. Era un gioco pericoloso, perché anche i machnovisti si indebolivano, in
questo
modo. Ma nel contempo si delineava la possibilità di battere il grosso dell'esercito avversario in
un colpo
solo. Le sorti vennero decise tra il 25 e il 26 settembre, a Uman, in una lunga, terribile battaglia,
combattuta con esito alterno e risolta, alla fine, dall'intervento della brigata speciale di Machnò.
Proprio
quando i machnovisti sembravano battuti e stavano ripiegando, Machnò era comparso coi suoi
uomini
su di un fianco del nemico, attaccando all'arma bianca. La vista del loro capo, che molti avevano
già dato
per morto, rincuorò improvvisamente gli uomini. La voce corse rapidamente tra le file degli
insorti:
"Machnò è là... Machnò combatte!... Guarda come lavora di sciabola!..."
Laceri, stanchi, feriti, tutti si
gettarono di nuovo avanti, con la forza della disperazione, in un terribile corpo a corpo. Di lì a
poco, per
incredibile che possa sembrare, i denikiani erano in fuga. Machnò lanciò al galoppo la
cavalleria e li
inseguì, vedendo l'occasione buona per farla finita una volta per tutte. Un secondo scontro
avvenne sulle
rive del fiume Siniucha, e fu una carneficina di nemici. Solo pochi riuscirono a salvarsi. Il grosso
dell'esercito denikiano era distrutto. Il ritorno di Machnò verso casa fu rapidissimo. Uno per
uno tutti i residui delle forze bianche vennero
liquidati, e nel novembre 1919 la reazione di Denikin era un capitolo chiuso, o quasi. Dopo un breve
periodo di tranquillità, verso il 20 dicembre, ritornarono nella zona le divisioni dell'armata
rossa. E ricominciarono i guai. Per allontanare l'esercito insurrezionale, a Machnò fu ordinato
di partire
per il fronte polacco. Egli rifiutò e a metà gennaio 1920 venne dichiarato fuorilegge con
tutti i suoi. La
lotta contro i nuovi padroni bolscevichi divampò nuovamente. Significativamente, prese lo stesso
carattere
di guerriglia spietata dei tempi di Skoropadsky. Come allora, "senza paura e senza compassione",
Machnò
ribatteva colpo su colpo la durissima repressione comunista. Si calcola che in questo periodo almeno 200
mila ucraini vennero uccisi in un modo o nell'altro dalle truppe rosse, e quasi altrettanti deportati in
Siberia o nella Russia Grande.
L'ultima campagna e la fine A metà estate 1920 un nuovo
tentativo controrivoluzionario: Vranghel, era già al bacino del Donetz e di
lì a poco, nel settembre, arrivò a Guliai Pole. Ancora una volta, con la spudoratezza di
sempre, i
bolscevichi interruppero le ostilità contro i machnovisti e proposero un'azione comune. E ancora
una
volta, come sempre costretti dall'urgenza delle circostanze, i machnovisti dovettero accettare. Verso
la metà di novembre, Vranghel fu battuto sull'istmo di Perekop, per merito dell'intervento
decisivo
di Machnò. Nel frattempo, la momentanea pace tra bolscevichi e anarchici machnovisti, dette
qualche
possibilità a quest'ultimi di iniziare un certo lavoro di organizzazione sociale rivoluzionaria, specie
nella
zona di Guliai Pole. Venne formato l'embrione di un libero consiglio di lavoratori, venne affrontato il
problema dell'istruzione e della cultura. Ma non poteva durare a lungo. Appena la minaccia di Vranghel
fu levata di mezzo, i bolscevichi dimenticarono improvvisamente l'accordo e, di sorpresa, colpirono i
machnovisti alle spalle, con un colpo di mano tra i più perfidi del regime sovietico. Il 26
novembre iniziò,
in varie parti dell'Ucraina sotto il controllo comunista, un terribile progrom antianarchico. Nello stesso
giorno, le truppe rosse attaccarono con forze preponderanti, Guliai Pole, dove si trovava
Machnò: il
villaggio era sguarnito, l'unica difesa era rappresentata dai 200 cavalieri del suo famoso squadrone
speciale. La tragedia della rivoluzione Ucraina era all'ultimo atto. Il movimento era ormai come un
animale braccato e ferito a morte. Eppure, anche nella disfatta, il nome di Machnò
continuò ad essere degno della leggenda che lo
circondava. Con i pochi uomini di cui disponeva battè un intero reggimento di cavalleria sovietica
e sfuggì
all'accerchiamento. Nella settimana seguente tentò di riorganizzare le sue forze e riuscì
a formare, con
le unità di insorti che si univano a lui, un piccolo esercito di quasi tremila combattenti.
Passò all'attacco
e per un momento sembrò che la partita fosse ancora tutta da giocare. Rioccupò Guliai
Pole, battè i rossi
ad Andreevka, a Komar e altrove. Ma era stretto da ogni parte: i bolscevichi avevano inviato contro di
lui un'armata di 150.000 effettivi.150.000 uomini contro 3.000. E la morsa del terribile inverno russo.
Eppure sopravvisse. Abbandonate le strade, Machnò marciava per i campi coperti di neve,
attraverso vie
che solo lui conosceva, combattendo tutti i giorni contro i reparti dell'armata rossa, in una
ridda di vittorie
e sconfitte, di ripiegamenti, avanzate, cambiamenti di direzione, vedendo morire ad uno ad uno tutti
compagni più cari, ferito egli stesso continuamente, e spesso in modo grave. L'agonia del
movimento
machnovista durò, atroce, oltre l'inverno 1920, fino all'agosto 1921. In quell'epoca,
Machnò passò il
Nistro e riparò in Romania. Era finita. Dopo miserabili peregrinazioni attraverso l'Europa,
Machnò giunse a Parigi. Qui, solo, tubercolotico,
tormentato dai postumi delle decine di ferite che portava in corpo, morì nel 1935, a soli
quarantasei anni.
Triste fine di un uomo eccezionale.
R. Brosio
N. Machno - La rivoluzione in Ukraina - Ed. La Fiaccola, Ragusa, 1971. P.
Arscinov - Storia del movimento machnovista - Ed. R. L., Genova, 1957 (di prossima
riedizione).
|