Rivista Anarchica Online
El Salvador
di G. G.
È ancora notte in El Salvador. Una notte che dura ormai da anni, è la
stessa notte del Guatemala, dell'Honduras e di altri paesi del
Centroamerica. La violenza e il terrore che impregnano l'aria dei paesi
caraibici aumentano ogni giorno di intensità, tanto che la morte violenta
di un amico o di un familiare sembra essere diventata un'incombenza
quotidiana, alla quale non è possibile sottrarsi. Sono questi i pensieri che tornano in mente ogni qualvolta si
ascoltano i
quotidiani bollettini degli assassinii commessi dalla giunta filo-USA di
Napoleon Duarte. Ma si sa, un fatto sociologico non può essere spiegato
emotivamente. Tenteremo quindi di dare una pur schematica e frammentaria
interpretazione dei conflitti del Centroamerica, prendendo come punto di
riferimento gli avvenimenti di El Salvador. Quello che accade in El Salvador è cosa nota: da una parte una
dittatura
che, nel disperato tentativo di autoconservarsi, mette in atto una feroce
repressione torturando e assassinando chiunque sia in odore di
sovversione; dall'altra, troviamo un fronte di liberazione che in questi
giorni sembra intensificare la sua offensiva. Ma gli interessi che si
affrontano in El Salvador trascendono un semplice conflitto tra una
dittatura e la sua opposizione. I paesi del Centroamerica rappresentano infatti una delle ultime
roccaforti della politica reaganiana nel continente americano: gli USA
devono evitare con qualunque mezzo che esperienze quali Cuba o il
Nicaragua possano ripetersi. In questa chiave si può comprendere
l'insistenza con la quale l'amministrazione Reagan appoggia le giunte
liberticide dei paesi caraibici. Di contrasto assistiamo al sempre più
intenso interessamento che paesi quali Cuba o URSS prestano alle vicende
dei vari fronti di liberazione, tentando, attraverso l'invio di armi o
consiglieri militari, di condizionarne le scelte politiche. È evidente il
tentativo sovietico di creare una seconda Cuba in America Centrale, o
forse bisognerebbe dire una terza, vista la piega che stanno prendendo gli
eventi nel Nicaragua. Tragica realtà quella del popolo salvadoregno. Stretto tra la ferocia
disumana della giunta militare al soldo di Washington e la prospettiva di
una liberazione "alla cubana" segnata dai gulag, è l'esempio vivente di
come la ragion di stato sia cieca e sorda di fronte alle possibili
aspirazioni alla libertà di un popolo, proprio perché tutta tesa alla
conquista del Potere: e per il Potere, si sa, tutto è lecito. In un paese
come El Salvador, segnato da fame miseria e ignoranza, sono infatti assai
scarse le possibilità che, dopo una vittoria del Fronte, il popolo
salvadoregno possa sfuggire ai "disinteressati" aiuti dell'impero
sovietico. Questa fosca prospettiva sembra essere confermata dai recenti eventi del
Nicaragua. Dopo la cacciata di Somoza, il governo sandinista sembra infatti
essersi progressivamente allineato con il modello cubano in politica sia
interna che estera. Come interpretare infatti la presenza costante di
consiglieri tedesco-orientali a Managua e l'addestramento di truppe scelte
nicaraguensi in Bulgaria, se non alla luce di questo allineamento? Le
conseguenze di questa politica sono ormai note: dopo l'abolizione del
diritto di sciopero giustificato dalla "volontà di salvaguardare
l'economia" e la deportazione di massa degli indios locali, è giunta a metà
marzo la notizia della proclamazione dello stato d'assedio, lugubre
preludio di future repressioni. Fatti, questi, spiegabili solo in parte col
tentativo della CIA di destabilizzare il Nicaragua, ma molto più
comprensibili se raffrontati con la politica di allineamento alle
direttive sovietiche che fu di Cuba qualche anno fa. Di fronte a queste
accuse, il governo sandinista ha risposto che si tratterebbe di una grossa
montatura orchestrata da Washington per destabilizzare il governo
"rivoluzionario". Può darsi. Ma questo tipo di difesa fa pensare a qualcosa
di simile, accaduto alcuni anni fa. Mi riferisco ai demagogici proclami del
governo USA durante la guerra in Vietnam, quando l'allora presidente Nixon,
di fronte a chi lo accusava di cospargere col napalm i territori del
Vietnam e della Cambogia, rispondeva che si trattava di una montatura
orchestrata dal comunismo per screditare l'immagine della democrazia
americana. L'esperienza della rivoluzione sandinista sembra ormai avviata verso la
normalizzazione alla cubana. Le conseguenze di tutto questo sono
facilmente immaginabili. Chi, fra gli orfani della grande rivoluzione di
ottobre, aveva avuto ancora qualche speranza che il modello cubano fosse
una cosa qualitativamente diversa rispetto all'universo concentrazionario
rappresentato dai paesi marxisti, dovrebbe aver avuto tempo per
ricredersi. Oggi Cuba è una nazione in cui la gioventù e la manodopera sono
militarizzate, con una polizia onnipresente attraverso i vari "Comitati di
difesa della Rivoluzione", con un'informazione uniformizzata e una
politica interna ed estera assoggettate economicamente e militarmente
alla strategia sovietica. Pensare, ad esempio, che l'intervento militare
cubano in Angola sia stata un'iniziativa entusiasta e spontanea del popolo
è pura follia, spiegabile solo con la cecità totale in cui brancola la
sinistra italiana sempre alla ricerca di nuovi modelli che possano
finalmente smentire quella verità che non può essere smentita: il fatto
cioè, che il marxismo è l'espressione più alta del totalitarismo, l'arte più
perfetta per la creazione del Gulag. Che futuro si può ipotizzare per le popolazioni caraibiche? Un futuro non
molto roseo, crediamo. Il Centro America sembra essere diventato un immenso
campo di calcio dove a tenere la palla è sempre e solo il potere, una
partita quindi dove può trionfare solo lo stato coi suoi arsenali di
morte. In questo contesto la sensazione che la lotta delle popolazioni
centroamericane sia una lotta senza speranza aumenta sempre di intensità,
una lotta quindi dove la posta in gioco non è la libertà di un popolo, ma
il prevalere di una delle "ragion di stato" che lottano furiosamente per
il Dominio. Tragica realtà dunque, dura da ammettere: ma è l'unico modo per
evitare la creazione di nuovi miti, destinati poi a sgonfiarsi
tragicamente. È l'unico modo per mantenere lucida quella critica
libertaria che ha permesso la denuncia anche in "nuce" di ogni tipo di
oppressione, anche quella "popolare".
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