Rivista Anarchica Online
Ritorno in Turchia
di Giulio Manieri
Dopo un lungo, estenuante viaggio attraverso i Balcani siamo arrivati alla
frontiera della Tracia turca. Minuziosa perquisizione dei viaggiatori
dell'autobus, in gran parte emigranti di ritorno dalla Germania federale;
infine, via libera per Istanbul. Sono tornato un anno dopo in Turchia, un
anno e mezzo dopo il golpe del 12 settembre 1980, quando l'esercito aveva
rovesciato il governo di centro-destra del Partito della Giustizia. Nel paese, allora, imperversavano, e incrudelivano,
le bande armate
fasciste e marxiste-leniniste. I fascisti si facevano sempre più
baldanzosi, e le loro rappresentative parlamentari, pur nella loro
esiguità numerica, di fatto influenzavano il governo di Demirel,
assicurandogli con un pugno di voti la maggioranza dell'assemblea.
L'esercito era ampiamente inquinato da elementi fascisti e dunque si
temeva un golpe dichiaratamente di destra. Tanto che, la mattina del 12
settembre, quando ancora non si sapeva nulla dei veri organizzatori del
colpo di mano, si era diffusa la paura che si trattasse di un bagno di
sangue alla cilena. Gli stessi seguaci di Turkes (il colonnello leader dei
fascisti) si riversavano per le strade, sicuri di essere loro i
protagonisti di quella giornata: la disillusione doveva presto colpirli
dentro i camion dell'esercito che li portavano, anche loro come i militanti
della sinistra, in una galera. La giunta aveva perciò avuto buon gioco a presentare l'intervento militare
come una sorta di "golpe dal volto umano", un intervento doloroso sì ma
necessario ad evitare il peggio. Evren, capo della giunta, nella sua prima
conferenza stampa aveva ribadito la transitorietà del regime militare, e
posto come suo fine principale quello di riportare il paese ad un corretto
funzionamento delle istituzioni democratiche. Si era proceduto nella
repressione secondo una politica del "doppio binario", due pesi e due
misure cioè: implacabili con i gruppi di estrema sinistra, rigorosi ma non
troppo verso i fascisti (tra i quali vanno compresi gli estremisti
islamici del Partito di Salvezza Nazionale), duri con i partiti
istituzionali; questi ultimi non erano stati posti fuori-legge, si era
soltanto "sospesa temporaneamente" la loro attività. Gli intellettuali, il
mondo accademico, largamente simpatizzanti della sinistra, non erano stati
toccati se non marginalmente dagli arresti di massa. Qualche mese dopo il
golpe, alcuni docenti universitari di sinistra, che condannavano l'azione
dell'esercito, subito mi facevano il confronto col 1972 (l'anno del
precedente colpo di stato), quando tutti loro, anche quelli con timide
tendenze liberali, erano stati messi in carcere, e moltissimi torturati.
Anzi, mi si diceva, "ora uscendo di casa la mattina, so che la sera ci
tornerò; prima era l'insicurezza totale, eravamo nel mirino dei fascisti". Allora, in quel dicembre dell'ottanta,
in un'Ankara freddissima e colma di
neve, la presenza dei militari era vistosa, ingombrante. La notte, dopo le
12, un rumore di motori annunciava i raid militari contro i gececondu (le
bidonvilles che accerchiano la città), luoghi di una resistenza sempre
meno attiva. A Kizilay, il centro nuovo di Ankara, una sera un piano di un
grattacielo, con un botto assordante, si era di colpo illuminato di fuoco, e
subito dopo i fischi e le sirene della gendarmeria: la resistenza si faceva
sentire. Anche se una delle cose che più mi aveva colpito era l'assenza di
ogni segno di un suo passaggio; nemmeno la più piccola scritta contro il
regime, solo l'ombra di quelle passate cancellate da una diligente campagna
di "pulizia" dei muri. Un anno dopo, il caffè (il famoso caffè turco) continua a non esserci (ma
questa era stata una trovata del governo costituzionale che ne aveva
bloccato l'importazione per eliminare una voce passiva nella bilancia dei
pagamenti). Gli impiegati dello Stato devono presentarsi in ufficio,
secondo un decreto della giunta, gli uomini in giacca e cravatta e senza
barba (i baffi sono tollerati, ma solo se non hanno le punte all'ingiù), e
le donne in gonna (i pantaloni essendo severissimamente proibiti). Ma la
presenza dei militari nelle strade è più discreta, anche se le facce
rimangono truci e l'assetto è di guerra. Tuttavia la vite del regime, invece
di allentarsi come era stato promesso, si va sempre più stringendo. Quello
che si era annunciato come un "governo provvisorio" si progetta ormai come
uno "stato permanente". Dal mese di novembre ha iniziato i suoi lavori una "assemblea
costituente", formata non attraverso il procedimento elettorale, ma
composta di membri nominati dalla giunta, e direttamente, e per il tramite
dei prefetti. Questa assemblea ha l'incarico di elaborare una nuova
costituzione sulla base della quale nell'83 o nell'84 dovrebbero indirsi
nuove elezioni, e successivamente si costituirebbe un nuovo parlamento.
Come si vede, questa assemblea è uno strumento passivo nelle mani di Evren;
essa svolge una funzione preziosa per i generali della giunta: da un lato
da al regime una parvenza di democraticità, e dall'altro lo razionalizza e
gli fornisce il modello politico della sua perpetuazione. Essa ha dunque 1)
una funzione ideologica e propagandistica, all'interno del paese come
all'esterno (dimodoché la fittizia rappresentatività della "Costituente"
attribuisca al regime le qualità richieste per la presenza nel Consiglio
di Europa, di cui la Turchia è membro); 2) una funzione progettuale, poiché
l'assemblea elabora il piano di una "normalità democratica" ad uso e
consumo dell'esercito. Ed infatti all'indomani dell'insediamento di questa Costituente di
burattini, la giunta può permettersi una serie di provvedimenti, che
chiudono ogni sbocco alla "temporaneità" del regime, e ne rivelano la
volontà di farsi da stato "eccezionale" stato "normale". Un annuncio della
BBC, in proposito, suonava così: "Il generale Evren ha dichiarato che la
democrazia è sul punto di essere ristabilita in Turchia. Tutti i partiti
politici sono stati dichiarati fuori-legge". Mentre il 12 settembre 1980
si era solo "sospesa" la loro attività, nel novembre di un anno dopo i
partiti vengono disciolti. E ciò nel momento in cui con l'insediamento
dell'assemblea costituente si pretende di essere sulla strada del ritorno
alla democrazia. La manovra della giunta è sottile: mettendo fuori-legge i partiti, e così
"bruciando" il loro personale politico, nel momento stesso in cui si
progettano nuove elezioni, si vuole evitare che a queste si presentino la
vecchia classe politica e le loro formazioni. Il ritorno alla democrazia,
per Evren, non deve essere un mero ritorno a prima del 12 settembre, a una
situazione politica gestita dai partiti tradizionali, ma un "qualcosa" di
radicalmente diverso. Vi saranno certo dei partiti, ma questi saranno delle
organizzazioni composte e guidate da uomini non compromessi con i vecchi
partiti, e fedeli all'interpretazione del kemalismo fornita dall'esercito.
Una "democrazia" quanto mai addomesticata, retta secondo un sistema
presidenziale, e teleguidata dall'esercito: ecco il progetto della giunta.
Ricucitosi alla meglio un abito democratico, Evren, può ora calcare la mano
sulla repressione. L'università, questo centro di sovversivi, può essere
finalmente colpita senza che si possa gridare alla violazione dei diritti
dell'uomo: si sta elaborando una nuova costituzione, chi ha qualcosa da
dire lo dica in quella sede oppure attenda pazientemente che dignitari e
ufficiali portino a termine il loro lavoro di legislatori. Viene emanata
una nuova legge universitaria, che espone al licenziamento la grande
maggioranza dei docenti e consente al potere centrale di inviarli in
quelle sedi che riterrà più opportune. È una specie di esilio per i
docenti, ed il mezzo per smembrare quei centri di dissenso (per quanto non
militante) che sono le facoltà universitarie. In questo clima di "ritorno
alla democrazia" si celebra a Istanbul il processo ai dirigenti del DISK,
il secondo sindacato del paese (di ispirazione marxista) messo fuori-legge, mentre il primo e più grande sindacato,
Turk-Is, continua a svolgere
il ruolo di cinghia di trasmissione dello Stato, e di irregimentazione
interclassista della classe operaia (il segretario di Turk-Is è
attualmente membro del governo). Il processo al DISK è rivelatore per ciò
che concerne la natura del regime. Gli imputati sono stati ripetutamente
torturati, seviziati, violentati; qualcuno è morto sotto la tortura (morto
accidentalmente, o suicidio, è la versione ufficiale della polizia). Il
capo di accusa principale: avere avuto come fine "l'instaurazione della
dittatura del proletariato"; tra le prove quella di avere aperto il
congresso dell'organizzazione sindacale al canto dell'Internazionale. La
pena prevista, per tutti, è la condanna a morte. Ma questo processo ha rivelato un'altra cosa: in Turchia
l'opposizione
esiste, è viva. Sfidando rischi enormi, è stata assicurata agli imputati
una massiccia presenza della difesa con l'adesione del Consiglio
dell'Ordine degli Avvocati. Nonostante il pesantissimo clima di
intimidazione, gli arresti di avvocati in aula, i soldati che con
registratori seguivano i colloqui dei familiari dei detenuti tra loro e
con i loro cari, e tra gli avvocati e i loro assistiti, nonostante ciò si è
potuto mettere in piedi un minimo di meccanismo processuale che arginasse
l'arroganza del Tribunale militare. Gli avvocati turchi sono ben lontani
dall'immagine che di loro ci ha dato il grasso e untuoso azzeccagarbugli di
"Fuga di mezzanotte" (per troppi occidentali la sola fonte di conoscenze
sulla società turca): essi sono continuamente oggetto di rappresaglie
poliziesche. Una riprova è data dal generale atteggiamento di ostilità che
polizia e soldati hanno verso coloro che esercitano la professione legale;
tanto che gli amici mi raccomandavano di non tirare fuori ai controlli il
tesserino di procuratore legale. In un paese dove il fermo di polizia può durare novanta giorni
(quarantotto giorni rinnovabili), dove la tortura fa, si può dire, parte
dell'istruzione del procedimento penale, dove ci sono quarantamila
detenuti politici, non è certo il caso di farsi illusioni garantistiche. Ma
nel silenzio generale, sono questi avvocati la punta emergente, visibile,
della resistenza alla dittatura. È ormai arrivata, dopo due settimane, l'ora di partire. Sentiamo che Evren
annuncia come grande conquista del regime il "ritorno al caffè", che potrà
essere nuovamente importato. Artun Unsal, corrispondente di "Le Monde",
compiacente e compiaciuto, lo annuncia al mondo intero dalle colonne del
quotidiano parigino. Gli amici all'aeroporto, tra file di emigranti che ritornano in Germania,
mi salutano col tradizionale "güle güle". "Ridi ridi" significa, e lo si
dice a chi parte, perché non pianga. Oggi, questo saluto ha un qualcosa in
più di triste: si ha ben ragione di ridere andando via dalla Turchia, il
pianto infatti è tutto per chi resta.
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