Rivista Anarchica Online
"Andiamo fra il popolo"
di Maurizio Antonioli
La lettura ancora oggi più efficace e nello stesso tempo convincente di un tema
spesso
controverso come il rapporto tra Malatesta e organizzazione operaia (e solo
subordinatamente sindacalismo rivoluzionario) è senza dubbio quella offerta da Luigi
Fabbri nel suo Vida y piensamento de Malatesta (Buenos Aires 1945, pubblicata in
italiano come Malatesta. L'uomo e il pensiero, Napoli 1951). Nonostante la parziale
documentazione, e a volte basandosi sul filo dei ricordi, Fabbri riesce a fornirci un quadro
attendibile, a porre in rilievo le tappe fondamentali di un rapporto intessuto,
alternativamente, di entusiasmo, di delusione e da ultimo di contenuta attenzione. Due sono i momenti che vanno
tenuti presente (e su cui intendo brevemente soffermarmi)
in una analisi dell'atteggiamento di Malatesta verso il fenomeno dell'organizzazione
operaia - e Fabbri li fissa con chiarezza -: il 1897 e il 1907. Il 1897 è l'anno del ritorno di
Malatesta in Italia e del lancio del giornale L'Agitazione (Ancona), un periodico la cui
influenza risultò decisiva sulla formazione di vasti strati di militanti anarchici. Il 1907 è
l'anno del congresso internazionale anarchico di Amsterdam, in occasione del quale,
grazie al noto confronto di tesi tra Malatesta e Monatte, la questione dei rapporti tra
anarchismo e sindacalismo giunse per il rivoluzionario italiano ad un pressoché definitivo
chiarimento. Ma tornando al 1897, è in quella fase che Malatesta, dalle colonne de L'Agitazione
diede
inizio ad una martellante campagna a favore dell'ingresso degli anarchici nelle leghe di
resistenza. Già nei primissimi anni 90 egli aveva incominciato, in coincidenza con quanto
stava verificandosi in tutta Europa (vedere le posizioni di Kropotkin, Louise Michel,
Charles Malato), a porsi il problema della necessità di superare "l'indifferenza per la vita
e le lotte di tutti giorni" (La Révolte, 4-10 ottobre 1890) e di "entrare nelle associazioni
operaie e dove queste non ci sono di crearne" (ivi, 1-7 ottobre 1892). Notissimo è poi
l'articolo Andiamo fra il popolo, apparso su "L'Art. 248" di Ancona (4 febbraio 1894), su
cui ha opportunamente insistito Pier Carlo Masini nel suo recente volume, nel quale
Malatesta incitava gli anarchici ad entrare nelle organizzazioni dei lavoratori, a fondarne
di nuove collegandole tra di loro, ad organizzare scioperi, ecc.. Ma la voce di Malatesta,
sia per le difficoltà del momento e certamente per la refrattarietà dell'ambiente anarchico
italiano del tempo a tali sollecitazioni, rimase isolata e non ebbe molta eco. L'esigenza
che Malatesta avvertiva di trovare nel movimento operaio "il nostro terreno d'azione e la
base della nostra forza" (La Plebe di Terni, 1 dicembre 1891) era tale solo per ristretti
gruppi di socialisti anarchici. Con il 1897 la situazione si modificò e la stessa propaganda di Malatesta si
intensificò,
trovando una sempre più vasta accoglienza. Quali ne furono i motivi? Non è facile dare
una risposta che tenga conto di tutti i fattori, di tutte le variabili. Probabilmente a favore
della tesi "partecipazionista" giocarono diversi elementi, d'ordine nazionale e
internazionale. Nel 1896, infatti, al congresso londinese della Seconda Internazionale, gli
anarchici riuscirono non solo a non essere espulsi, perché delegati di associazioni operaie
(lo stesso Malatesta era presente in quanto tale), ma ad ottenere la maggioranza in alcune
delegazioni, quella francese in particolare, e a pesare all'interno dell'assemblea. Il contatto
con alcuni militanti francesi, Pelloutier in particolare, ebbe certamente il suo peso. L'anno
successivo, scrivendo del congresso sindacale di Tolosa, Malatesta affermava: "Il
Congresso di Tolosa è stata una vittoria importante delle tendenze e della tattica nostra -
vittoria che già si poteva presentire nel contegno della maggioranza della delegazione
francese all'ultimo Congresso internazionale di Londra..." (L'Agitazione, 12 agosto 1897).
Ma indubbiamente vanno tenuti presenti altri motivi, legati al contesto italiano. Per
esempio l'improvviso innalzamento degli indici di conflittualità nel nostro paese, in
coincidenza con l'aprirsi di un ciclo economico che aveva lasciato alle sue spalle gli
strascichi della grande depressione. Infatti se nel 1895 gli scioperanti erano stati solo
21.072 (secondo le statistiche del tempo), nel 1896 erano saliti a 96.151 per superare i
centomila nel 1897. Contemporaneamente l'organizzazione sindacale, sia nelle campagne
sia nell'edilizia e nella metallurgia, aveva compiuto passi significativi. Inoltre il territorio
nazionale aveva incominciato a popolarsi, sull'esempio milanese del 1891, di Camere del
lavoro. Gli anarchici non potevano, quindi, non avvertire - e Malatesta per primo - la
necessità di legare la propria azione a quell'imponente movimento di masse. Abbandonata
la prospettiva del colpo di mano, della lotta per bande, delle barricate, Malatesta
proponeva una severa autocritica e una tattica "nuova" che portasse gli anarchici a
contatto diretto con il proletariato, senza trascurare i "piccoli mezzi" che ne miglioravano
le condizioni. Una simile posizione, pur in mezzo a notevoli difficoltà (non bisogna dimenticare i fatti
del '98 e le gravi ripercussioni dell'attentato Bresci in termini di repressione), diventò
maggioritaria in Italia, relegando ai margini la tendenza antiorganizzatrice. Molti
anarchici, accanto ai socialisti e ai repubblicani, si fecero promotori della nascita di leghe,
federazioni e Camere del lavoro. Basta ricordare Aristide Ceccarelli che fu nel Comitato
centrale della FIOM e nella segreteria della Camera del Lavoro di Roma, Pasquale
Binazzi che appartenne alla CdL di La Spezia, Alessandro Galli e Riccardo Rho alla
Federazione tessile, ecc.. Tuttavia, dopo una fase iniziale, il collegamento sempre più
stretto tra organismi sindacali e Partito socialista, soprattutto il tentativo del secondo di
usare i primi come serbatoio elettorale, diedero vita a profondi dissensi e ad una sempre
crescente difficoltà degli anarchici di muoversi al loro interno. Il formarsi, anche in Italia, come in Francia
di una corrente sindacalista rivoluzionaria
sembrò ridare fiato alle speranze anarchiche, riaprire spazi che l'egemonia riformista
aveva chiuso. Malatesta, a Londra ormai da alcuni anni, dopo una breve parentesi
anconetana de L'Agitazione, osservò con crescente simpatia la diffusione delle tematiche
sindacaliste e il balzare prepotentemente alla ribalta internazionale dello sciopero
generale, che nei primi anni del secolo fu un tema dominante, dibattuto in modo quasi
ossessivo sui giornali socialisti e anarchici. Contemporaneamente, però, si faceva strada
in lui una sorta di diffidenza nei confronti delle posizioni, presenti non solo nei
sindacalisti di origine marxista ma anche in alcuni anarchici (tipico il caso Pouget in
Francia), che facendo del sindacato la "cellula della società futura" e il veicolo
privilegiato se non unico delle istanze rivoluzionarie, svuotavano gradualmente di valore
il movimento anarchico specifico. Soprattutto dopo le agitazioni avvenute in Francia in
occasione del 1° maggio 1906 e basate sulla rivendicazione delle 8 ore, Malatesta iniziò a
prendere le distanze, in modo netto, dal sindacalismo rivoluzionario. La più significativa
espressione di questa distanza si verificò ad Amsterdam, nel contraddittorio con Monatte,
al congresso internazionale del 1907. Non che Malatesta manifestasse ostilità o
considerasse inutili le organizzazioni sindacali. Al contrario, riteneva che gli anarchici
dovessero farne parte. Semplicemente le considerava un mezzo e non un fine e metteva in
guardia verso il rischio di scivolare nel riformismo, se si fosse perso di vista l'ideale
anarchico. Il movimento operaio era e doveva rimanere un terreno fertile per gli anarchici,
ma non poteva assorbirne completamente le energie né far dimenticare gli obiettivi finali.
Il sindacato, poiché era di necessità riformista, non poteva - come invece sostenevano gli
anarchici sindacalisti francesi - essere anche rivoluzionario. Lo sciopero generale, infine,
non poteva sostituire la rivoluzione. A ben guardare Malatesta non aveva modificato le sue posizioni del 1897. A
cambiare, a
precisarsi meglio erano state le tendenze sindacaliste, con la loro tentazione - per usare un
termine attuale - pansindacalista. Il 1907 segnò comunque una tappa fondamentale nel
pensiero malatestiano, un punto di non ritorno. Da quel momento in poi la concezione di
Malatesta non subì rettificazioni di tiro, se non sul piano puramente tattico. Ed ecco
perché, alcuni anni dopo, con la nascita dell'Unione Sindacale Italiana (1912), Malatesta,
pur manifestando simpatia per la nuova istituzione, non sollecitò mai l'adesione in massa
degli anarchici a questa. Per Malatesta, infatti, la scissione delle forze operaie sul piano
sindacale non era un fattore positivo. Poteva essere inevitabile, ma non comunque
positivo. Il sindacato, per svolgere i suoi compiti, avrebbe dovuto conservare l'unità,
lasciando ai movimenti politici il compito di dibattere le questioni ultime. Il sindacato,
insomma, non poteva non essere riformista, perché questa era la sua funzione, anche per
gli anarchici. Ed in questa logica si comprende l'accusa che Malatesta mosse all'USI di
essere un "partito politico", il partito sindacalista. E non è un caso che, nel 1924-25, a fascismo al potere,
Malatesta si battesse per la
riunificazione delle centrali sindacali all'interno della CGdL. Nella sua visione, la
divisione operaia, in una fase di estrema difesa, non poteva che risultare dannosa.
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