Rivista Anarchica Online
Antimilitarismo
a cura della Redazione
Se c'è un campo di battaglia dal quale gli anarchici non sono mai rifuggiti, è quello della lotta
antimilitarista. Se c'è una guerra che gli anarchici non hanno mai disertato, è proprio la guerra
alla guerra. Su questo terreno dell'impegno antibellicista e antimilitarista altri sono stati i
renitenti, i disertori, i disfattisti, i «venduti al nemico». Gli anarchici no. C'è tutta una tradizione
di impegno individuale e sociale che caratterizza la più che secolare presenza del movimento
anarchico nello scontro sociale in generale e sul terreno antimilitarista in particolare. Dalla
denuncia del ruolo antipopolare delle forze armate all'opposizione alle avventure coloniali, dalla
lotta contro la propaganda nazionalista al disfattismo durante la prima guerra mondiale, dalla
lotta contro la NATO alla demistificazione del mito dell'«esercito democratico» (del quale la
leva obbligatoria sarebbe base e garanzia), gli anarchici sono sempre stati in prima fila nelle
battaglie antimilitariste, considerate parte fondamentale del più generale impegno contro
l'autoritarismo, le diseguaglianze, l'oppressione. Ben lungi dal venir meno con il passare degli anni, l'importanza di questo impegno
antimilitarista è accentuata dall'insorgere e dall'aggravarsi di fenomeni di estrema gravità che
mettono in serio pericolo la sopravvivenza stessa del genere umano. Ci riferiamo, innanzitutto,
alla mi naccia sempre incombente di un conflitto di vaste proporzioni: non è necessario
ipotizzare un contlitto nucleare, dal momento che le cosiddette armi «tradizionali» sono state
portate ad un tal livello di perfezione tecnologica da rendere tragicamente allucinante anche la
prospettiva di una guerra non-nucleare di vaste proporzioni. Di fronte al continuo insorgere di
conflitti «locali» (quelli recentemente scoppiati alle Falkland, in Libano e in Iran-Iraq sono
analizzati da Franco Melandri nel suo articolo), di fronte all'inutilità delle trattative a livello di
Stati per un fantomatico disarmo, tenendo presenti le esperienze passate che insegnano quanto
facilmente ed inaspettatamente possano scoppiare guerre anche mondiali: di fronte a tutto ciò, è indispensabile che si faccia il possibile per ostacolare il cammino ai signori
della guerra, nella chiara prospettiva di sconfiggere il militarismo senza alcun cedimento alle
sirene di una sua «democratizzazione». Un'altra ragione per intensificare il nostro impegno antimilitarista è la sempre più invadente
presenza, ormal a livello internazionale, del complesso militare-industriale, che condiziona la
vita sociale molto più di quanto possa apparire a prima vista. Non è certo un caso che sempre
più numerosi siano i paesi i cui governi sono gestiti in prima persona dai militari - di destra o
sinistra poco importa, il modello militare è sostanzialmente quello, ed è un modello comunque
autoritario, verticista, intrinsecamente liberticida. Anche nel nostro paese le forze armate, che pure in un recente passato sono state smascherate
pubblicamente quale humus e centrale di numerosi progetti e tentativi di segno reazionano,
condizionano pesantemente la società, sostenute di fatto da tutte le forze politiche e sindacali.
Lo dimostra, piccolo indizio tra i tanti, l'ingente quota della ricchezza nazionale che ad esse
viene devoluta, proprio mentre si tagliano pensioni, spese sociali come quelle per la sanità ed
i trasporti e si attacca la scala mobile. Ma nessuna delle grandi forze, nemmeno di quelle
formalmente all'opposizione, osa opporsi a questa rapina istituzionale perpetrata nell'interno
delle forze armate. L'esercito è troppo potente perché ci si possa permettere di tagliargli i fondi.
Quasi nessuno, ormai, contesta l'esercito. Ci riferiamo, è ovvio, ad una contestazione di fondo, ad un'opposizione decisa alla sua stessa
esistenza ed ai valori di gerarchia e di morte di cui è portatore, non certo a quel blando ed
equivoco pacifismo che ha caratterizzato tanta parte del recente - ma, pare, ormai defunto -
movimento «per la pace» dominato dalla sinistra istituzionale e perciò tutto teso a marciare negli
stretti ambiti della legalità e della delega ai politici di turno. No, il nostro antimilitarismo è un'altra cosa. E' rifiuto, con quelle militari, di tutte le altre istituzioni autoritarie. E' rifiuto della delega, è impegno diretto, è invito agli sfruttati e agli
oppressi a prendere nelle proprie mani il proprio destino. E' obiezione, insubordinazione,
disobbedienza a istituzioni e a leggi portatrici di asservimento e di morte. E' volontà di
partecipare a tutte le battaglie antimilitariste - come abbiamo fatto con il recente «movimento
per la pace» - portandovi sempre la chiarezza delle nostre posizioni di fondo, l'intransigenza
del nostro impegno rivoluzionano, la volontà di non fungere da «utili idioti» di nessuno. Di
questo impegno è stata testimonianza, tra l'altro, la riuscita manifestazione antimilitarista
anarchica svoltasi a Livorno il 13 marzo scorso. La punta di diamante di questo nostro impegno antimilitarista è costituita da quei compagni che,
pagando di persona e rifiutando al contempo la scappatoia legale del «servizio civile», hanno
risposto «signornò!» alla chiamata alle armi. Sono stati numerosi, negli ultimi anni, i giovani
anarchici e libertari che hanno avuto a che fare con la «giustizia» militare perché renitenti alla
leva o disertori. Ultimi in ordine di tempo, due compagni siciliani: Orazio Valastro e Pippo
Scarso. Valastro (la cui vicenda abbiamo seguito sugli scorsi numeri) ha visto confermato nel
processo d'appello, svoltosi a Roma il 14 luglio, la precedente condanna a 5 mesi per diserzione:
è quindi stato scarcerato a fine luglio, dopo aver scontato la pena per intero. E l'esercito ha già
pronta per lui una nuova chiamata alle armi... Pippo Scarso (la cui dichiarazione di rifiuto pubblichiamo in queste pagine) si è anche lui opposto concretamente al servizio militare ed ha poi pubblicamente stracciato la cartolina, nel corso
di un comizio anarchico a Comiso (ne riferiamo nelle «cronache sovversive»). Anche in Svizzera, ed in particolare nel Canton Ticino, numerosi compagni anarchici e libertari hanno rifiutato in questi ultimi anni di prestar servizio militare (che in Svizzera prevede
periodici «corsi di ripetizione»). A questo rifiuto, pagato anche qui con mesi e mesi di galera,
si affianca un altro rifiuto, quello di pagare le tasse e le imposte destinate all'esercito (in genere
per questo reato si scontano otto giorni di carcere: otto giorni per ogni anno di rifuto!). Due
anarchici sono al momento detenuti nel carcere ticinese La Stampa per il loro rifiuto del servizio
militare: si tratta di Elvio Busolini (dentro dall'inizio di giugno) e di Paolo Soldati («entrato»
un mese dopo). Di Busolini pubblichiamo stralci da una lettera che ci ha scritto in luglio, poco
dopo esser stato trasferito nella «sezione aperta» del carcere. Di Soldati pubblichiamo uno
scritto che chiarisce efficacemente lo spirito e le ragioni della sua scelta di lotta: una scelta non
solo legata allo spirito di ribellione dell'individuo, ma anche alla sua coscienza sociale, alla sua
partecipazione concreta ad una più generale lotta di liberazione. E' in questa prospettiva che la
scelta individuale, pagata in prima persona, dei renitenti e dei disertori si salda indissolubilmente
con le altre forme della più generale battaglia antimilitarista che il movimento anarchico sta
portando avanti. Non da oggi.
Io rifiuto e obietto
Al Comando del 225 Btg. F. «Arezzo» Al Ministro della Difesa L. Lagorio Al Capo delle Forze Armate S. Pertini Al Distretto Militare di Siracusa e, p.c., all'Avv. Venturino (Catania) e alla stampa anarchica Il sottoscritto Scarso Giuseppe (matricola n° 05961000341) che a norma del vostro ordinamento
militare doveva presentarsi il giorno 30 giugno al 225 Btg. F. «Arezzo» per adempiere alla
servitù, all'asservimento, all'inquadramento ... nei vostri strumenti di morte, che si chiamano
battaglioni dell'esercito: RIFIUTA e OBIETTA ogni appartenenza nei vostri ranghi. In quanto anarchico e antimilitarista non intendo indossare la divisa del sangue e della morte, ritenendo gli eserciti, di qualunque colore essi siano e a qualunque Stato essi appartengano, lo
stru mento/struttura politico-culturale del capitalismo per perpetuare il dominio e lo
sfruttamento; nonché il mezzo coercitivo e demagogico per «salvaguardare» i «diritti territoriali» di una nazione. L'esercito è sempre stato
e continua ad essere nella sua funzione lo strumento essenziale della divisione in classi
dell'umanità, del controllo sociale sugli individui e della salvaguardia del capitalismo. Non
voglio far parte assol utamente di una struttura militare che si è sempre macchiata dei delitti più
atroci, delle guerre ... e delle più infami razzie; non voglio rinunciare alla mia testa ed al mio
modo di pensare per intrupparmi nelle vostre file a fare il camaleonte. Credo che gli sfruttati,
i rivoluzionari devono fare presente oggi come ieri la loro completa avversione al servilismo
militarista degli eserciti, per l'insubordinazione fattiva, per una società di liberi e di uguali. Non
intendo far parte dell'esercito italiano, ma affermare la pratica antimilitarista rivoluzionaria
Anarchica: CONTRO LE GUERRE! CONTRO GLI ESERCITI! CONTRO GLI ARMAMENTI! CONTRO GLI STATI! CONTRO LE GALERE! PER L'INSUBORDINAZIONE! Scarso Giuseppe - Giarratana, 29.6.1982
L'esercito? Aboliamolo e basta
Il recente conflitto tra Inghilterra e Argentina, l'attuale barbara aggressione israeliana contro il
popolo palestinese, le dichiarazioni, proprio in questi giorni, di Ronald Reagan sulle future
missioni militari della navetta spaziale Columbia, sono solo tre dei molti esempi di quello stato
di continua non-belligeranza, a volte interrotto, che eufemisticamente chiamiamo pace. Le oceaniche manifestazioni pacifiste non hanno mai minimamente scalfito la volontà
guerrafondaia dei governanti. In Inghilterra non si è alzata nessuna voce di protesta contro
l'invio della flotta nelle Falkland e in Argentina persino una parte della guerriglia di sinistra ha
dato il suo appoggio e perciò legittimato quello stesso odioso governo fascista che ha praticato
e - non v'è da dubitarne - continuerà a praticare le incarcerazioni arbitrarie, la tortura, gli
assassinii politici, la politica dei «desparecidos». Anche questa volta, nei due paesi, abbiamo
visto milioni di oppositori politici, disoccupati, indigenti, dimenticare le loro condizioni per
stringersi, in nome della patria, attorno a quello stesso governo che li affama. In Israele i
centomila che chiedavano la «pace subito» non hanno potuto/saputo evitare l'assassinio di
migliaia di palestinesi, trucidati dall'esercito di quello stesso paese, nato dalle ceneri dei forni
crematori nazisti, che si erigeva ad isola di pace, giustizia, libertà e tolleranza. Le strade finora praticate non hanno portato da nessuna parte. Il movimento pacifista non è
riuscito ad uscire dalla sterile testimonianza di un 'oscura volontà di pace. Mentre negli anni '60
marciavamo per la pace, le grandi potenze raffinavano la loro tecnologia nucleare a scopi
militari; mentre negli anni '70 sfilavamo sotto le ambasciate degli imperi, gli scienziati del
pentagono ed i loro colleghi di tutto il mondo preparavano la bomba neutronica, le testate
multiple, i superbombardieri, i sottomarini nucleari, i bacilli micidiali; e mentre ora, negli anni
'80, di nuovo chiediamo pace, Columbia, il traghetto della morte, è ormai pronto per lanciare
la guerra dallo spazio, da anni ormai anch 'esso militarizzato. Un po' tutti facciamo nostre le parole (speriamo non profetiche!) di Einstein sugli armamenti,
il guaio è che pochissimi hanno veramente intenzione di distruggere gli armamenti e l'inutile
struttura che vi gravita attorno. In realtà che cosa succede? La domenica manifestiamo in piazza, palloncini, striscioni, bibite
e costine, tutti felici e contenti per poi però presentarsi in tutta tranquillità il lunedì al corso di
ripetizione. Sembra quasi l'unico modo per animare le nostre povere vite, perlomeno se diamo
credito ai roboanti racconti, tesi più che altro a giustificare la propria partecipazione, che se ne
fanno. Ogni quattro anni rieleggiamo rappresentanti di partiti guerrafondai (penso agli Speziali)
o peggio ancora diamo fiducia a partiti schizofrenici (penso al PST, tanto pacifista a parole
quanto energico e puntuale sostenitore dei crediti militari a palazzo). L'autorità, la divisa, viene guardata con grande rispetto. Ed è così che tutte le mattine, con
grande deferenza, salutiamo il colonnello, direttore della banca nella quale lavoriamo. Non si
sa mai ... potremmo esser trasferiti nella sua compagnia (o brigata?). Ed è così che i pochi che,
proseguendo la mitica coerenza, non accettano la continua schizofrenia collettiva e rifiutano
perciò di vestire la divisa, va a finire che vengono guardati con sospetto, sono i «lazzaroni» che
però pagano sulla loro pelle con lunghi mesi di prigione (io stesso sono attualmente detenuto)
il loro «distruggiamo gli armamenti». Affiora così il «che fare» di leniniana memoria: come opporsi al continuamente dilazionato, ma
sempre incombente olocausto? Chi è veramente convinto che oggi l'esercito svizzero rappresenti
un deterrente efficace contro ipotetici aggressori? E naturalmente penso ai paesi industrializzati
o alle potenze... sarebbe difficile immaginarsi il principato del Lichtenstein nel ruolo d'invasore!
Solo gli illusi. La fantascienza nel campo degli armamenti è già una realtà. Nel recente conflitto per il possesso
delle Falkland abbiamo avuto un piccolo saggio, un terribile banco di prova del potere
distruttivo di armi che, secondo gli esperti, sono da considerarsi già largamente superate.
Confrontati con l'enorme capacità bellica di un URSS, degli USA, di una Francia, per fare degli
esempi a caso, sarebbe per lo meno anacronistico (mercenari imbattibili lo eravamo 400 anni
fa!) illudersi di poter approntare una qualsiasi difesa realistica della Svizzera. E allora perché
mantenere in piedi un esercito dai costi sociali enormi? Un po' tutti, dai politici (che le hanno create) ai poveri cristi (che le subiscono) parliamo, spesso
con rassegnazione, delle difficoltà economiche nelle quali ci dibattiamo. Un po' tutti sappiamo
che i ricchi, poverini, non sopportano i sacrifici ... perciò devono farli gli altri, cioè noi. I pesanti
tagli nel settore sociale la dicono lunga sulle capacità e sensibilità dei governanti. Ogni anno
sprechiamo cifre astronomiche in soldi ed energie per il mantenimento di una struttura,
l'esercito, utile solo ai potenti. (Nessuno dimenticherà mai gli assassinii commessi dall'esercito
per reprimere manifestazioni operaie e poi ... chiedetelo al colonnello Bührle quanto gli «rende»
l'esercito!). E allora? Aboliamolo e basta! Rivitalizziamo la «Lega per il disarmo della Svizzera», invitiamo apertamente i ventenni a
rifiutare il servizio, i trentenni ed i quarantenni a riconsegnare l'equipaggiamento e a disertare
i corsi di ripetizione; riconvertiamo le fabbriche di armi, coltiviamo gli immensi terreni adibiti
a piazze di tiro o a percorsi di guerra, additiamo al pubblico disprezzo i guerrafondai, rifiutiamo
il pagamento della tassa militare e dell'imposta sulla difesa nazionale, blocchiamo
ilfunzionamento dell'(in)giustizia militare. Smilitarizziamo la società facendo nostro quello che
è sempre stato lo slogan degli anarchici: NON UN UOMO, NON UN SOLDO PER
L'ESERCITO. Senza indugi! Dal carcere, saluti anarchici. Paolo Soldati
Anche senza sbarre, sempre galera è
Carissimi, (...) Riesco a tenermi in contatto con il mondo esterno attraverso le lettere e le cartoline piuttosto
che con i colloqui. Con le cartoline ad esempio riesco a seguire con l'immaginazione i passi che percorrono gli amici girando il mondo. Durante le visite si cerca di instaurare il contatto umano
che si è forzatamente spezzato un pochino mentre si riesce meno bene a recepire il
proseguimento della vita fuori dalle sbarre. Devo dire che di sbarre alla mia finestra finalmente non ne ho più, in quanto essendo stato
trasferito alla sezione aperta, che aperta lo è solo in apparenza, la sopravvivenza è
apparentemente, almeno per l'estetica, migliorata. Paolo, al contrario, è rimasto nel carcere vero
e proprio, o meglio lui è entrato nel periodo in cui io sono stato trasferito. A causa di questa
forzata situazione (penso che sia in questo modo abilmente controllata dalla direzione) non mi
è stato ancora possibile parlare con lui direttamente. Riusciamo a comunicare un poco a
distanza, durante il passeggio. Ho letto attentamente l'intervista a Monica Giorgi perché, trovandomi in una situazione simile
anche se sensibilmente ridotta, mi sono sentito molto vicino alla sua esperienza. Ho trascorso
soltanto tre settimane in una condizione di semi-isolamento nel carcere vero e proprio e sono
stato profondamente toccato dalla sensazione di eternità che saldamente ti avviluppa e ti stringe.
La continua e monotona ripetizione delle azioni (o meglio non-azioni) quotidiane, l'esasperante
controllo a cui si è sottoposti, la cinica presenza del mondo che ti circonda e l'impossibilità reale
di toccarlo mi sono penetrati addosso come l'acqua penetra nella terra arsa dalla calura. Confrontando la breve durata della mia detenzione con quella di altri detenuti che da anni sono
rinchiusi in queste gabbie non riesco nemmeno a concepire nell'immaginazione come questi
riescano a tirare avanti tanto tempo senza morirne. Io, che pure per lo studio sono abituato alla
solitudine, non sono ancora riuscito dopo un mese e mezzo (il che è un'inezia) ad adattarmi
all'inattività, alla staticità, alla monotonia. E' un logoramento lento ma continuo, un
abbandonarsi alla morte piano piano senza potersi ribellare. L'indurimento che ne consegue, non
soltanto non ti protegge dall'azione lesiva esterna, ma ti impedisce di vivere quei pochi rimasugli
di umanità che rimangono dentro di te. E' facilmente comprensibile la sterilità e la mortalità più
alta negli animali rinchiusi negli zoo. Devo però dire che, a difesa di questa situazione, all'interno del carcere sono
molto facili i contatti con gli altri detenuti durante gli intervalli del passeggio. Situazione questa,
che all'interno della sezione aperta, si è ribaltata completamente. Si tratta di un palazzotto
moderno recentemente terminato che si trova all'esterno della cinta del carcere. Vi sono rinchiusi
i detenuti condannati a pene non superanti i 3 mesi ed i detenuti che hanno trascorso almeno
metà della pena nel carcere. Una buona parte di queste persone sono in regime di semi-libertà,
il che vuol dire che durante il giorno escono per lavorare e rientrano la sera. La costruzione non
è dotata di sbarre e la fuga sarebbe un gioco da ragazzi ma la cosa non si verifica mai (o quasi)
per ovvie ragioni. Innanzitutto tutti i detenuti sono di particolare «fiducia», ticinesi che non
saprebbero dove andare (gli stranieri sono fortemente discriminati) e soprattutto sono tutte
persone al termine della pena a cui non conviene rischiare nulla. La situazione pur sembrando
apparentemente migliore, non lo è sostanzialmente. Toccare con mano la libertà e non poterla
vivere diventa un tormento molto più forte di quello che si prova quando le sbarre ti proteggono
da «cattivi» pensieri. In un certo senso, mentre nel carcere la tua permanenza è dettata da motivi
sostanzialmente forzati, nella sezione aperta il detenuto diventa carceriere di se stesso. Oltre a
questo, l'estrema fluidità dei permanenti non permette un punto di incontro sui problemi comuni.
Soltanto per la cena sono presenti quasi tutti. (...) Fuori il tempo è bello; la mia vita ora, un po'
meno. A ben vedere, tutto sommato, non posso lamentarmi troppo. Fra 3 mesi tutto sarà finito.
Bah, forse è solo un brutto sogno!? Tanti salutissimi a tutti.
Elvio Busolini
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