Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 13 nr. 108
marzo 1983


Rivista Anarchica Online

Testa tra le nuvole e piedi per terra
di Giorgio Meneguz

Nella primavera del '77 non ho lottato come «indiano» poiché mi bastava essere anarchico. Ma indiano credo di esserlo stato da sempre. La prateria era il grande prato (sul quale ci sono ora alveari umani di cemento) di fronte alla vecchia casa umida nella quale ho trascorso i miei primi quindici anni. Appartenevo a una tribù, e il nostro rifugio era un'ampia capanna che avevamo costruito nel boschetto di rubinie spinose adiacente alla prateria. Più che di tribù si trattava per la verità di una banda: gli apaches mescaleros di via Carniello. Dovettero passare molti anni, però, affinché io abbia potuto sapere cosa fosse la mescalina e in modo più diretto alcuni alcaloidi a lei affini. Sugli apaches non sapevamo niente, o poco più; però conoscevamo già tutti i popoli dell'erba, del bosco, delle grotte, dei ruscelli, dell'aria.
Nessuno di noi era capo né superiore ad altri, se non per scaltrezza e abilità nel costruire armi, usarle, arrampicare sulle rocce o sugli alberi - attività, queste, che occupavano gran parte del nostro tempo libero. Utilizzavamo il solido castagno povero di midollo per intagliare i coltelli e le lance, e i rami di nocciola, flessibili e diritti, per archi e frecce. Le penne le prendevamo dalle galline del pollaio dei genitori di alcuni di noi, quando non le trovavamo nel bosco. Io ero Cochise, e per anni, erroneamente, mi ritenni figlio del grande (e poi venduto) capo Geronimo. Nessuno di noi immaginava quale fosse la lontanaza reale dell'America e del Messico dal nostro territorio. Non saprei dire, adesso, che cosa ci spinse alle nostre scelte.
Le piante da frutta sparse nella parte alta della prateria, a est, erano «nostre» (veramente, quella frutta dovevamo rubarla). Per questo, quando la banda delle case Fanfani veniva a rubare, dichiaravamo loro guerra. Partecipai a parecchie battaglie, delle quali in una soltanto fummo sconfitti.
Avevamo i nostri riti, le scadenze periodiche. Quando la sera d'inverno aveva spinto il crepuscolo rosa e l'ultima lamina di cielo turchese dietro le montagne a ovest, già attendevamo ipnotizzati ogni volta, seduti sull'erba umida o sui sassi, sorgere dal Mottarone la candida perfezione della luna piena. Accendevamo a lei, sempre, un falò - anche quando le nostre mamme avevano urlato ripetutamente per il quartiere i nostri veri nomi per farci rincasare.
Non avevo ancora letto alcun libro. A malapena sfogliavo quelli di scuola. Qualcuno (forse mio fratello) mi raccontò Capitani coraggiosi e La capanna dello zio Tom - il contenuto dei quali me li sono assolutamente dimenticato. Lessi Ivanhoe e Guglielmo Tell su due fotoromanzi di mia madre (fui certamente invogliato dalle fotografie, alcune delle quali ricordo ancora con una certa precisione). Marcellino Panevino lo vidi al cinema (dell'oratorio che non ho mai peraltro frequentato). Mi interessavano però intensamente le nuvole, il loro movimento a volte rapido altre volte lento e quasi impercettibile, il mutare continuo della loro forma, del colore, della consistenza - erano grossissime; mi interessava il vento, che le spostava e carezzava l'erba e squoteva gli alberi fischiando, in alcuni momenti. La neve, il muschio, la brina e la rugiada, i ruscelli, le biscie, le salamandre, le farfalle, il sole, le ombre, la pioggia, il caldo, il fresco, i graffi e le sbucciature sulle mie gambe sporche, i pantaloncini lacerati e il timore o la non voglia di tornare a casa. Mi interessavano molte cose, ma la banda si andava disgregando col tempo proprio a causa degli interessi. Alcuni di noi iniziavano a parlare solo di calcio, leggevano Diabolik appassionatamente e avrebbero desiderato, da grandi, avere una jaguar; ormai sapevano tutto sui programmi televisivi, sui quiz e i concorsi canori. Rimanemmo un paio di apaches a cacciare vipere, introdurci nelle grotte cercando tane di volpe o arrampicarci sui picchi per trovare nidi di falco.
Quando frequentavo la seconda media era il '68 (ma io non me ne accorsi). Per cercare di vincere un senso di esclusione, se mi veniva chiesto quale fosse la squadra del «mio cuore», rispondevo di tifare per la Fiorentina. Non me ne fregava niente. Ma era la squadra preferita da un mio compagno di classe che ammiravo e, tra juventini-milanisti-interisti, era l'unico a tifare per essa.
Non partecipavo: quest'accusa parlava il linguaggio del mio cuore, ma le «faccende» alle quali avrei dovuto partecipare parlavano un idioma che non mi era noto, col quale non riuscivo a stringere familiarità. Ancora adesso il mio cuore si fa sedurre dalle spinte sociali alla partecipazione, all'impegno. Ma io, con tutta la buona volontà, mi sento totalmente estraneo a questa società, con le sue istituzioni, le sue leggi, il suo parlamento, governo, votazioni, giochi di potere. Così ogni ritocco, ogni modifica di questo stato di cose non è un mutamento che mi riguarda più di tanto (per esempio, analizzare non cosa, come sfruttati, potremmo guadagnarci, ma da che parte, forse inavvertitamente, resteremo fregati). Non mi sento responsabile delle «innovazioni legali» o delle «riforme che sono basate su principi socialisti». Non mi è mai interessato partecipare ad un gioco che non mi diverte: non desidero colludere con il potere. Ho rifiutato la divisa e non mi sono mai presentato agli appuntamenti elettorali. Ma non ho, in compenso, buone speranze riguardo l'«incamminarsi vero l'anarchia» degli esseri umani. Provo la sensazione che il nostro potere nei confronti dello Stato sia nullo. Credo ci si possa solo difendere e spero di essere smentito dai fatti. Come noi, penso che anche lo Stato tenda a difendersi per autoconservarsi. Ma esso ha degli strumenti che noi non abbiamo e che in un certo senso ci inglobano: noi non potremmo utilizzare lo Stato per realizzare l'anarchia, ma esso riesce ad utilizzare anche noi per legittimarsi.
Sia chiaro che per Stato non intendo governo. Il governo fa parte dello Stato ma non è il suo cuore, come cercherò di spiegare.
Un bisogno primario dello Stato è autoconservare il proprio potere. Per soddisfare questo bisogno tenderà a raggiungere il suo obiettivo: promuovere il consenso dei cittadini; si baserà dunque sulle sue risorse che, attualmente, sono a mio parere le varie forme di tecnologia (mezzi di informazione di massa, telematica, informatica, discipline che si basano sulla modificabilità adattiva del comportamento umano, ingegneria della famiglia, ecc.). Quando esistono le relazioni e le corrispondenze tra questi insiemi, il sistema Stato funziona. Il contributo delle sinistre parlamentari spinge fortemente in questa direzione.
Credo, senza pretendere di dire nulla di nuovo, che un fine del potere moderno sia quello dove Stato e società diventano un insieme omogeneo. Lo Stato sociale contemporaneo tende alla ricerca di forme non oppressive di legittimazione di se stesso. I cittadini vengono sradicati dal loro rapporto spontaneo con la propria esistenza individuale e di gruppo, dal ritmo naturale della vita: «si» politicizzano (in altre parole, lo Stato sussume i cittadini nella logica del «dovere sociale», che diventa «impegno politico per la riforma delle strutture di potere»). I propri bisogni sono destinati ad essere funzione dello Stato. Il senso di «partecipazione democratica», che ha dato una valutazione di indispensabilità alla politica, è garante dei bisogni sociali e, nello stesso tempo, gestendo riformisticamente i conflitti e le contraddizioni, garantisce l'esistenza e il funzionamento del potere. In questo contesto uso il concetto di politica per definire quel sistema di relazioni di gruppo ed economiche che, spacciando per generali gli interessi del gruppo, si muove entro le libertà elargite dallo Stato, cioè dentro le sue istituzioni, e considera queste le sole usufruibili secondo uno strano concetto di «realismo»; politica come «gioco di potere». La politica, dunque, - questo tipo di politica - è funzione dello Stato.
Attualmente il potere tende a non reprimere i conflitti o le minoranze agenti (tranne che il tramite, vero o presunto, di queste ultime sia la violenza o l'omicidio). Li protegge come relazioni ed elementi necessari al mantenimento elastico dell'equilibrio della propria struttura, del proprio ordine democratico. C'è una tendenza, in alcuni settori, (per esempio quello psichiatrico) all'«autogestione» del disordine che è di conseguenza «autogestione del controllo sociale», dove il massimo decentramento dei poteri conferisce «massima importanza» alla «soggettività politica» dei cittadini. Ripeto: sono proprio le forze di sinistra a spingere in questa direzione. In queste condizioni, ovviamente, i bisogni aumentano a vortice creando conflitti a catena, esterni e interni all'individuo il quale si muove dentro i margini di un ben architettato labirinto di possibilità. La sua appartenenza ad una classe sociale, circoscrivibile in un «territorio» avente confini netti o perlomeno chiari, va progressivamente estinguendosi, nella tendenza alla crescente confusione tra Stato e cittadino, potere e suddito, centro e periferia.
La diffusione «alla periferia» dei poteri dello Stato tende a rendere sempre più clandestino e impalpabile il potere centrale che diventa alla fine un alibi per il non funzionamento delle amministrazioni sparpagliate nei luoghi periferici. Una democrazia siffatta non dà più l'idea classica del potere che, mediante l'autorità della legge, impone la propria forza e presenza agli sfruttati che reclamano «pane e libertà» e difende ottusamente le proprie contraddizioni interne. Al contrario: è uno Stato che diffonde una critica spietata ai propri funzionari e ai relativi scandali. Ed è largamente riconosciuto il diritto di reclamare il «posto di lavoro» ai lavoratori delle fabbriche «in crisi». Ma tutte le critiche e le proteste sono accettate perché tutto è già concordato: di fronte alla ristrutturazione del sistema l'unica soluzione è adeguarvisi. Mi ricorda una situazione di doppio legame. Messaggi di tipo paradossale, in determinate situazioni relazionali, causano uno stato di cose all'interno del quale non esiste alcuna soluzione. Questo è doppio legame. Un paradosso autoinvalida i suoi messaggi, genera confusione e ragionamenti a circolo vizioso: fonde tra loro differenti livelli di astrazione. Possiamo cozzare contro un paradosso in una comunicazione che ci viene data da una situazione esterna a noi (la classica ingiunzione: «Sii spontaneo». Oppure, per rimanere in tema, il messaggio sindacale: «Sfruttato, potrai emanciparti solo incrementando la produzione»), tanto quanto una situazione reale ben strutturata può far sì che il nostro mondo interno ci invii una risonanza destrutturata (telefonare a un'autoambulanza, per esempio, quando «Bruto» pugnala «Cesare» sul palco in una rappresentazione teatrale. Oppure: uccidere Aldo Moro e credere di avere colpito il cuore dello Stato). Il significato del doppio legame è quello di «mettere» una persona nella condizione di non potersi muovere se non confusamente - al di là della possibile ostentata accecante lucidità. Una soluzione sarebbe quella di uscire dalla logica dominante ed usarla come metafora ... Ma questo discorso aprirebbe un nuovo capitolo.
La logica del potere è schiacciante, accecante. Tale democrazia controlla capillarmente i propri sudditi conferendo loro un ordine sociale «confuso». Essi, «responsabilizzati» sulle possibili catastrofiche sorti del sistema, possono illudersi di essere liberi di autogovernarsi «partecipando» agli organismi periferici del potere.
Esiste un principio secondo il quale un sistema viene ritenuto patologico quando è incapace di produrre nuove regole che possano sostituire quelle vigenti. La democrazia riesce a modificare alcune regole, ma fino al confine, invalicabile, che è la messa in discussione della legittimità del sistema stesso, dello Stato. Riesce, alla fine, ad autolegittimarsi: assorbe i valori portati dai rivoluzionari e disinnesca così le istanze eversive. Con una complessità di operazioni, lo Stato riesce ad elaborare un consenso sociale sempre più diffuso e apparentemente, sempre più autonomo dallo Stato stesso.
Lo Stato, messosi «da parte», diventato una «grande famiglia», assorbe il cittadino in doppio legame entro i suoi meccanismi di autolegittimazione. Caccia al margine gli scarti improduttivi (i cosiddetti devianti, ma anche le pedine scomode dei suoi grossi scandali) e organizza una serie di misure e di servizi (carceri speciali, manicomi criminali, legge 180, ... ) che - mirando a proteggere la coesione elastica, conflittuale, delle relazioni sociali - vengono deputati ad «assistere» medicalmente e socialmente coloro che, secondo la concezione adatta al grado di evoluzione della nostra società, vengono ritenuti «recuperabili», e nascondere e punire i più refrattari considerati «irrecuperabili». Lo sforzo maggiore è comunque indirizzato verso un recupero produttivo.
E' lo scemare, a mio avviso, della normalizzazione sociale mediante l'opera pianificatrice dell'autorità repressiva. Il «recupero» della devianza e, necessariamente, il suo continuo riprodursi, segna l'inizio della forma di potere di uno stato fantasma che si garantisce l'esistenza mediante l'apparente confusione dei propri conflitti interni alimentati e gestiti nella sembianza di un regime eccessivamente tollerante: rese «al servizio del conflitto» per l'«interesse del più debole». «Usare bene il sociale», «fare buon uso degli strumenti che il potere ci concede»: questi sono gli imperativi dominanti del politico. E non è dire poco.
Da parte mia non ho mai preteso di convincere nessuno. So quanto siano impossibili i consigli. E forse l'unico pregio degli anarchici è che noi indichiamo senza imporre; ma gli altri, magari, fanno cose più utili. Sono convinto, d'altra parte, che, contemplando gli astri o le nuvole in cielo, ci sono probabilità che ci si possa trovare, un giorno o l'altro, sprofondati in un tombino - ma non sarebbe impossibile uscirne. Ritengo peggiore la situazione in cui ci si sforza di rendere piacevole la permanenza in una fognatura poiché si crede che quella sia l'unica realtà possibile, e che stelle, luna e nubi facciano parte di sogni infantili e incantevoli seduzioni di paradisiache chimere.
Forse è vero che noi, inconsapevolmente, facciamo il «gioco della destra» - perché non dovrebbe esserlo? Io a volte mi trovo ad essere abbagliato da intuizioni o ad abbracciare teorie, convincendomi che è proprio così. Ma non è vero che «è proprio cosi». E' sempre anche così. Non sto dicendo che occorre essere obiettivi nelle analisi e nelle prese di posizione: la pretesa di obiettività è una immensa cazzata. Bisogna sempre tener conto, però, che un elemento ha un significato, un valore, ruolo, eccetera, quando viene analizzato in relazione ad un determinato contesto, ma può assumerne uno completamente diverso se inserito in un contesto diverso.
C'è chi addita la luna e chi gli guarda il dito. Forse uno dei due è stupido, forse nessuno o tutti e due; senz'altro ci sono diverse possibilità ancora.