Rivista Anarchica Online
Testa tra le nuvole e piedi per terra
di Giorgio Meneguz
Nella primavera del '77 non ho lottato come «indiano» poiché mi bastava essere anarchico. Ma
indiano credo di esserlo stato da sempre. La prateria era il grande prato (sul quale ci sono ora
alveari umani di cemento) di fronte alla vecchia casa umida nella quale ho trascorso i miei primi
quindici anni. Appartenevo a una tribù, e il nostro rifugio era un'ampia capanna che avevamo
costruito nel boschetto di rubinie spinose adiacente alla prateria. Più che di tribù si trattava per la
verità di una banda: gli apaches mescaleros di via Carniello. Dovettero passare molti anni, però,
affinché io abbia potuto sapere cosa fosse la mescalina e in modo più diretto alcuni alcaloidi a lei
affini. Sugli apaches non sapevamo niente, o poco più; però conoscevamo già tutti i popoli
dell'erba, del bosco, delle grotte, dei ruscelli, dell'aria. Nessuno di noi era capo né superiore ad altri, se non per scaltrezza e abilità nel costruire armi,
usarle, arrampicare sulle rocce o sugli alberi - attività, queste, che occupavano gran parte del nostro
tempo libero. Utilizzavamo il solido castagno povero di midollo per intagliare i coltelli e le lance, e
i rami di nocciola, flessibili e diritti, per archi e frecce. Le penne le prendevamo dalle galline del
pollaio dei genitori di alcuni di noi, quando non le trovavamo nel bosco. Io ero Cochise, e per anni,
erroneamente, mi ritenni figlio del grande (e poi venduto) capo Geronimo. Nessuno di noi
immaginava quale fosse la lontanaza reale dell'America e del Messico dal nostro territorio. Non
saprei dire, adesso, che cosa ci spinse alle nostre scelte. Le piante da frutta sparse nella parte alta della prateria, a est, erano «nostre» (veramente, quella
frutta dovevamo rubarla). Per questo, quando la banda delle case Fanfani veniva a rubare,
dichiaravamo loro guerra. Partecipai a parecchie battaglie, delle quali in una soltanto fummo
sconfitti. Avevamo i nostri riti, le scadenze periodiche. Quando la sera d'inverno aveva spinto il crepuscolo
rosa e l'ultima lamina di cielo turchese dietro le montagne a ovest, già attendevamo ipnotizzati ogni
volta, seduti sull'erba umida o sui sassi, sorgere dal Mottarone la candida perfezione della luna
piena. Accendevamo a lei, sempre, un falò - anche quando le nostre mamme avevano urlato
ripetutamente per il quartiere i nostri veri nomi per farci rincasare. Non avevo ancora letto alcun libro. A malapena sfogliavo quelli di scuola. Qualcuno (forse mio
fratello) mi raccontò Capitani coraggiosi e La capanna dello zio Tom - il contenuto dei quali me li
sono assolutamente dimenticato. Lessi Ivanhoe e Guglielmo Tell su due fotoromanzi di mia madre
(fui certamente invogliato dalle fotografie, alcune delle quali ricordo ancora con una certa
precisione). Marcellino Panevino lo vidi al cinema (dell'oratorio che non ho mai peraltro
frequentato). Mi interessavano però intensamente le nuvole, il loro movimento a volte rapido altre
volte lento e quasi impercettibile, il mutare continuo della loro forma, del colore, della consistenza
- erano grossissime; mi interessava il vento, che le spostava e carezzava l'erba e squoteva gli alberi
fischiando, in alcuni momenti. La neve, il muschio, la brina e la rugiada, i ruscelli, le biscie, le
salamandre, le farfalle, il sole, le ombre, la pioggia, il caldo, il fresco, i graffi e le sbucciature sulle
mie gambe sporche, i pantaloncini lacerati e il timore o la non voglia di tornare a casa. Mi
interessavano molte cose, ma la banda si andava disgregando col tempo proprio a causa degli
interessi. Alcuni di noi iniziavano a parlare solo di calcio, leggevano Diabolik appassionatamente e
avrebbero desiderato, da grandi, avere una jaguar; ormai sapevano tutto sui programmi televisivi,
sui quiz e i concorsi canori. Rimanemmo un paio di apaches a cacciare vipere, introdurci nelle
grotte cercando tane di volpe o arrampicarci sui picchi per trovare nidi di falco. Quando frequentavo la seconda media era il '68 (ma io non me ne accorsi). Per cercare di vincere
un senso di esclusione, se mi veniva chiesto quale fosse la squadra del «mio cuore», rispondevo di
tifare per la Fiorentina. Non me ne fregava niente. Ma era la squadra preferita da un mio compagno
di classe che ammiravo e, tra juventini-milanisti-interisti, era l'unico a tifare per essa. Non partecipavo: quest'accusa parlava il linguaggio del mio cuore, ma le «faccende» alle quali
avrei dovuto partecipare parlavano un idioma che non mi era noto, col quale non riuscivo a
stringere familiarità. Ancora adesso il mio cuore si fa sedurre dalle spinte sociali alla
partecipazione, all'impegno. Ma io, con tutta la buona volontà, mi sento totalmente estraneo a
questa società, con le sue istituzioni, le sue leggi, il suo parlamento, governo, votazioni, giochi di
potere. Così ogni ritocco, ogni modifica di questo stato di cose non è un mutamento che mi
riguarda più di tanto (per esempio, analizzare non cosa, come sfruttati, potremmo guadagnarci, ma
da che parte, forse inavvertitamente, resteremo fregati). Non mi sento responsabile delle
«innovazioni legali» o delle «riforme che sono basate su principi socialisti». Non mi è mai
interessato partecipare ad un gioco che non mi diverte: non desidero colludere con il potere. Ho
rifiutato la divisa e non mi sono mai presentato agli appuntamenti elettorali. Ma non ho, in
compenso, buone speranze riguardo l'«incamminarsi vero l'anarchia» degli esseri umani. Provo la
sensazione che il nostro potere nei confronti dello Stato sia nullo. Credo ci si possa solo difendere e
spero di essere smentito dai fatti. Come noi, penso che anche lo Stato tenda a difendersi per autoconservarsi. Ma esso ha degli strumenti che noi non abbiamo e che in un certo senso ci inglobano:
noi non potremmo utilizzare lo Stato per realizzare l'anarchia, ma esso riesce ad utilizzare anche noi
per legittimarsi. Sia chiaro che per Stato non intendo governo. Il governo fa parte dello Stato ma non è il suo cuore,
come cercherò di spiegare. Un bisogno primario dello Stato è autoconservare il proprio potere. Per soddisfare questo bisogno
tenderà a raggiungere il suo obiettivo: promuovere il consenso dei cittadini; si baserà dunque sulle
sue risorse che, attualmente, sono a mio parere le varie forme di tecnologia (mezzi di informazione
di massa, telematica, informatica, discipline che si basano sulla modificabilità adattiva del
comportamento umano, ingegneria della famiglia, ecc.). Quando esistono le relazioni e le
corrispondenze tra questi insiemi, il sistema Stato funziona. Il contributo delle sinistre parlamentari
spinge fortemente in questa direzione. Credo, senza pretendere di dire nulla di nuovo, che un fine del potere moderno sia quello dove
Stato e società diventano un insieme omogeneo. Lo Stato sociale contemporaneo tende alla ricerca
di forme non oppressive di legittimazione di se stesso. I cittadini vengono sradicati dal loro
rapporto spontaneo con la propria esistenza individuale e di gruppo, dal ritmo naturale della vita:
«si» politicizzano (in altre parole, lo Stato sussume i cittadini nella logica del «dovere sociale», che
diventa «impegno politico per la riforma delle strutture di potere»). I propri bisogni sono destinati
ad essere funzione dello Stato. Il senso di «partecipazione democratica», che ha dato una
valutazione di indispensabilità alla politica, è garante dei bisogni sociali e, nello stesso tempo,
gestendo riformisticamente i conflitti e le contraddizioni, garantisce l'esistenza e il funzionamento
del potere. In questo contesto uso il concetto di politica per definire quel sistema di relazioni di
gruppo ed economiche che, spacciando per generali gli interessi del gruppo, si muove entro le
libertà elargite dallo Stato, cioè dentro le sue istituzioni, e considera queste le sole usufruibili
secondo uno strano concetto di «realismo»; politica come «gioco di potere». La politica, dunque, -
questo tipo di politica - è funzione dello Stato. Attualmente il potere tende a non reprimere i conflitti o le minoranze agenti (tranne che il tramite,
vero o presunto, di queste ultime sia la violenza o l'omicidio). Li protegge come relazioni ed
elementi necessari al mantenimento elastico dell'equilibrio della propria struttura, del proprio
ordine democratico. C'è una tendenza, in alcuni settori, (per esempio quello psichiatrico)
all'«autogestione» del disordine che è di conseguenza «autogestione del controllo sociale», dove il
massimo decentramento dei poteri conferisce «massima importanza» alla «soggettività politica» dei
cittadini. Ripeto: sono proprio le forze di sinistra a spingere in questa direzione. In queste
condizioni, ovviamente, i bisogni aumentano a vortice creando conflitti a catena, esterni e interni
all'individuo il quale si muove dentro i margini di un ben architettato labirinto di possibilità. La sua
appartenenza ad una classe sociale, circoscrivibile in un «territorio» avente confini netti o
perlomeno chiari, va progressivamente estinguendosi, nella tendenza alla crescente confusione tra
Stato e cittadino, potere e suddito, centro e periferia. La diffusione «alla periferia» dei poteri dello Stato tende a rendere sempre più clandestino e
impalpabile il potere centrale che diventa alla fine un alibi per il non funzionamento delle
amministrazioni sparpagliate nei luoghi periferici. Una democrazia siffatta non dà più l'idea
classica del potere che, mediante l'autorità della legge, impone la propria forza e presenza agli
sfruttati che reclamano «pane e libertà» e difende ottusamente le proprie contraddizioni interne. Al
contrario: è uno Stato che diffonde una critica spietata ai propri funzionari e ai relativi scandali. Ed
è largamente riconosciuto il diritto di reclamare il «posto di lavoro» ai lavoratori delle fabbriche «in
crisi». Ma tutte le critiche e le proteste sono accettate perché tutto è già concordato: di fronte alla
ristrutturazione del sistema l'unica soluzione è adeguarvisi. Mi ricorda una situazione di doppio
legame. Messaggi di tipo paradossale, in determinate situazioni relazionali, causano uno stato di
cose all'interno del quale non esiste alcuna soluzione. Questo è doppio legame. Un paradosso
autoinvalida i suoi messaggi, genera confusione e ragionamenti a circolo vizioso: fonde tra loro
differenti livelli di astrazione. Possiamo cozzare contro un paradosso in una comunicazione che ci
viene data da una situazione esterna a noi (la classica ingiunzione: «Sii spontaneo». Oppure, per
rimanere in tema, il messaggio sindacale: «Sfruttato, potrai emanciparti solo incrementando la
produzione»), tanto quanto una situazione reale ben strutturata può far sì che il nostro mondo
interno ci invii una risonanza destrutturata (telefonare a un'autoambulanza, per esempio, quando
«Bruto» pugnala «Cesare» sul palco in una rappresentazione teatrale. Oppure: uccidere Aldo Moro
e credere di avere colpito il cuore dello Stato). Il significato del doppio legame è quello di
«mettere» una persona nella condizione di non potersi muovere se non confusamente - al di là della
possibile ostentata accecante lucidità. Una soluzione sarebbe quella di uscire dalla logica
dominante ed usarla come metafora ... Ma questo discorso aprirebbe un nuovo capitolo. La logica del potere è schiacciante, accecante. Tale democrazia controlla capillarmente i propri
sudditi conferendo loro un ordine sociale «confuso». Essi, «responsabilizzati» sulle possibili
catastrofiche sorti del sistema, possono illudersi di essere liberi di autogovernarsi «partecipando»
agli organismi periferici del potere. Esiste un principio secondo il quale un sistema viene ritenuto patologico quando è incapace di
produrre nuove regole che possano sostituire quelle vigenti. La democrazia riesce a modificare
alcune regole, ma fino al confine, invalicabile, che è la messa in discussione della legittimità del
sistema stesso, dello Stato. Riesce, alla fine, ad autolegittimarsi: assorbe i valori portati dai
rivoluzionari e disinnesca così le istanze eversive. Con una complessità di operazioni, lo Stato
riesce ad elaborare un consenso sociale sempre più diffuso e apparentemente, sempre più
autonomo dallo Stato stesso. Lo Stato, messosi «da parte», diventato una «grande famiglia», assorbe il cittadino in doppio
legame entro i suoi meccanismi di autolegittimazione. Caccia al margine gli scarti improduttivi (i
cosiddetti devianti, ma anche le pedine scomode dei suoi grossi scandali) e organizza una serie di
misure e di servizi (carceri speciali, manicomi criminali, legge 180, ... ) che - mirando a proteggere
la coesione elastica, conflittuale, delle relazioni sociali - vengono deputati ad «assistere»
medicalmente e socialmente coloro che, secondo la concezione adatta al grado di evoluzione della
nostra società, vengono ritenuti «recuperabili», e nascondere e punire i più refrattari considerati
«irrecuperabili». Lo sforzo maggiore è comunque indirizzato verso un recupero produttivo. E' lo scemare, a mio avviso, della normalizzazione sociale mediante l'opera pianificatrice
dell'autorità repressiva. Il «recupero» della devianza e, necessariamente, il suo continuo riprodursi,
segna l'inizio della forma di potere di uno stato fantasma che si garantisce l'esistenza mediante
l'apparente confusione dei propri conflitti interni alimentati e gestiti nella sembianza di un regime
eccessivamente tollerante: rese «al servizio del conflitto» per l'«interesse del più debole». «Usare
bene il sociale», «fare buon uso degli strumenti che il potere ci concede»: questi sono gli imperativi
dominanti del politico. E non è dire poco. Da parte mia non ho mai preteso di convincere nessuno. So quanto siano impossibili i consigli. E
forse l'unico pregio degli anarchici è che noi indichiamo senza imporre; ma gli altri, magari, fanno
cose più utili. Sono convinto, d'altra parte, che, contemplando gli astri o le nuvole in cielo, ci sono
probabilità che ci si possa trovare, un giorno o l'altro, sprofondati in un tombino - ma non sarebbe
impossibile uscirne. Ritengo peggiore la situazione in cui ci si sforza di rendere piacevole la
permanenza in una fognatura poiché si crede che quella sia l'unica realtà possibile, e che stelle,
luna e nubi facciano parte di sogni infantili e incantevoli seduzioni di paradisiache chimere. Forse è vero che noi, inconsapevolmente, facciamo il «gioco della destra» - perché non dovrebbe
esserlo? Io a volte mi trovo ad essere abbagliato da intuizioni o ad abbracciare teorie,
convincendomi che è proprio così. Ma non è vero che «è proprio cosi». E' sempre anche così. Non
sto dicendo che occorre essere obiettivi nelle analisi e nelle prese di posizione: la pretesa di
obiettività è una immensa cazzata. Bisogna sempre tener conto, però, che un elemento ha un
significato, un valore, ruolo, eccetera, quando viene analizzato in relazione ad un determinato
contesto, ma può assumerne uno completamente diverso se inserito in un contesto diverso. C'è chi addita la luna e chi gli guarda il dito. Forse uno dei due è stupido, forse nessuno o tutti e
due; senz'altro ci sono diverse possibilità ancora.
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