Rivista Anarchica Online
CINEMA
a cura di Pino Bertelli
Il coltello in testa
«Guai a lei se oserà lanciare un altro appello per una sottoscrizione in favore di quella puttana della
Ensslin. Se ci prova creperà insieme alla madre di quella troia. I delinquenti di Stammheim, lei
compreso, riceveranno presto una bella lezione. A quanto sembra lei è anche un anarchico». 7.9.'77, Stoccarda, lettera anonima inviata a Claus Peymann, direttore artistico dello Staatstheater
di Stoccarda licenziato dal suo lavoro e colpito, per mezzo della stampa e della televisione,
all'interno del suo privato, per aver proposto una colletta pubblica che doveva servire a curare le
lesioni dentarie dei detenuti politici della «R.A.F.», in carcere da più di sei anni. Nel film Il coltello in testa (Messer im Kopf, 1978), Reinhard Hauff raccoglie l'atmosfera di terrore,
di delazione, di esecuzione materiale dei soggetti devianti o non complici che rendevano meno
totale la democrazia armata del sospetto della Germania occidentale sul finire degli anni '70. Con L'onore perduto di Katharina Blum (Die verlorene Ehre der Katharine Blum, 1975) di Volker
Schlondorff; Germania in autunno (Deutschland im Herbst, 1977 -78) del collettivo Alf Brustellin,
Hans-Peter Clos, Rainer W. Fassbinder, Alexander KIuge, Maximilian Mainka, Edgar Reitz, Katia
Rupè, Volker Schlondorff, Bernard Sinkel; Anni di piombo (Die bleierne Zeit, 1981) di Margarethe
von Trotta, Il coltello in testa di Hauff tratta il quotidiano della paura, dell'offesa, del terrore
poliziesco e della disperazione armata portata fino alla fine della soggezione. I giorni ai quali si richiama Hauff sono quelli immediati ai «suicidati» della «R.A.F.» (Andreas
Baader, Gudrun Ensslin e Jan Carl Raspe, trovati morti nelle loro celle il 18 ottobre 1977) e la
successiva liquidazione del presidente degli industriali tedeschi Hanns M.Schleyer da parte di un
commando della «R.A.F.» (Rote Armee Fraktion / Frazione Armata Rossa), il 19 ottobre 1977. I chierichetti della stampa di Springer diffondono i segni della nuova intolleranza: il tarlo nevrotico
del terrorista (e del sospetto) che attenta alla democrazia dalle catene in fiore circola come segno
premonitore, riproduttivo, nelle fogne, nei salotti, nei cessi, ovunque i cani da guardia della polizia
politica mostrano i morsi del loro ammaestramento: gli «spartachisti» tornano a sparare sui pubblici
orologi. Simpatizzanti con il terrorismo sono tutti quelli che si sottraggono all'autoschedatura, alla
delazione; anarchici e comunisti (o comunque soggetti atonali alla facciata della democrazia
tedesca) sono buttati fuori dalle fabbriche, dagli impieghi pubblici, dalle loro case; il cervello
elettronico di Wiesbaden effettua ogni giorno quasi due milioni di elaborazioni attraverso il sistema
«INPAL» che copre, si ramifica oltre 60.000 chilometri. I dati sono attinti dagli alberghi, agenzie
immobiliari, compagnie aeree, agenzie di noleggio auto, chiese, sedi sindacali, archivi di partito ecc.; «dal primo ottobre '77 la Repubblica federale tedesca è l'unico paese al mondo in cui la
tortura sia ammessa (...) Chi in questo paese parla di stato di diritto ha un cadavere sulla lingua,
vedo i vermi nella sua bocca» (Petr Paul Zahl) (1). Il coltello in testa testimonia i fatti delle «forbici nel cervello» di una società intimidita. Il biochimico (e violinista dilettante) Berthold Hoffman va a cercare la sua ex-moglie in un circolo
di attivisti di estrema sinistra. Irrompe la polizia, scoppia la lotta. Un poliziotto viene accoltellato,
Hoffman è ferito in modo grave alla testa. Un'intervento chirurgico salva Hoffman dalla morte, ma cade in uno stato confusionale, non
ricorda, non riesce a parlare, a coordinare i gesti; l'opinione pubblica foraggiata dalla televisione e
dalla stampa di Springer identifica Hoffman nel «terrorista col violino», immagine stereotipa del
mostro sanguinario che i bollettini della polizia politica contribuiscono a confermare; di lato,
l'informazione marginale o/e clandestina si appropria della figura di Hoffmann come vittima della
macchina terrorista di Stato. Hauff stringe intorno a Hoffmann gli elementi, le contraddizioni di una vita offesa. La ex-moglie,
l'avvocato, gli sono vicini nella risalita, nel suo viaggio di ritorno alla vita attraverso la paura, il
linciaggio morale. Hoffmann recupera la parola, ossessionato dalla verità e dalla giustizia per la sua situazione si
addentra sulle tracce della propria identità perduta. Tra le maglie dell'omertà pubblica e l'arroganza censoria della polizia, Hoffmann giunge nella casa del giovane poliziotto che gli ha sparato; sotto la minaccia della pistola di Hoffmann il
poliziotto ammette di aver sparato per paura e sempre per paura (complicità, asservimento
all'ordine costituito) di aver testimoniato il falso durante l'inchiesta contro di lui. Hoffmann lo fa accucciare a terra, gli punta alla testa la pistola, poi prende di mira il soffitto, poi di
nuovo la testa: «schiacciato tra due forme di violenza, l'uomo cerca disperatamente la verità, che
ritrova, forse, soltanto riproducendo alla rovescia la violenza subita» (2). L'impianto del film è essenziale. La recitazione sobria, la fotografia di grande respiro realista. Il
montaggio ritma, «figura» la disperazione del film; inquadrature corte, movimentate, si alternano
ad altre più lunghe, complesse, che descrivono l'ambiente e si spiegano come metafora di una scena
pubblica che segna il vuoto e la mediocrità della democrazia tedesca. Qui e ovunque i segni della liberazione partono dalle schegge della soggettività radicale che si
rovesciano sull'imbavagliamento statuale e definiscono le figure della transizione verso lineamenti
di democrazia diretta.
(1) Germania d'Autunno /Repressione e Dissenso nello spettacolo della R.F.T., a cura di Renate
Klett. Ubulibri/il Formichiere 1979. (2) Peter Schneider: Il Coltello in Testa, Feltrinelli 1980.
Angi Vera
«ANGI VERA» (1978) di Pál Gábor mostra l'arroganza dello stalinismo in Ungheria. La storia di
Vera è calata nel 1948 ma, oggi come allora, ovunque la pretesa del «comunismo reale» si veste
degli abiti dottrinari di partito, le conseguenze sono le stesse. Mosca non vuole lacrime e nemmeno chi sputa e sbadiglia contro la bandiera rossa. I carri armati, i
lager, i manicomi, i tribunali e le confessioni strappate con la canna del fucile in bocca, confermano
la mediocrità del comunismo di Stato contrabbandato come scienza positiva. La dittatura del
proletariato, come il capitalismo multinazionale, legittimano la loro violenza e il loro terrore negli
schemi di controllo sociale, entrambi sono sistemi che si fondano sulla persuasione e sui rituali di
imbavagliamento del quotidiano. «ANGI VERA» descrive il soffocamento dell'identità negli schemi della teologia comunista di
Stato. Vera è un'infermiera che, nell'ingenuità di un candore tutto cristiano, denuncia al commissario
politico le manchevolezze dei medici e del personale dell'ospedale dove lavora. I corvi del partito
vedono nel suo zelo incolto i crismi del futuro quadro e la mandano per tre mesi alla scuola di
partito. Qui Vera impara i comandamenti dello stalinismo, guarda, ascolta e parla al momento
giusto, davanti agli uomini giusti, che, s'intende, sono sempre «commissari del popolo». Così
diviene una delatrice, va a letto con l'insegnante del suo gruppo che sputtana a metà corso nel
giorno della critica (del partito) e dell'autocritica collettiva. Alla fine della scuola la sua devozione
al partito sarà premiata con un posto di redattrice in un giornale: la menzogna continua. Gabor muove la macchina da presa in modo sorprendente. Descrive i caratteri dei compagni di
corso di Vera con piglio documentario. Fissa l'incapacità del vecchio comandante partigiano di
piegarsi ai richiami burocratici di partito, ritaglia, in schizzi bellissimi, la figura della giovane
contadina che aveva fatto la staffetta nella Resistenza e non accetta i processi di questo comunismo
e i segni della sua realizzazione. C'è il ritratto cordiale del minatore tutto cuore e niente cervello che
fugge dalla scuola per andare a vedere il figlio e scopare con la moglie che non ama. La sua
autocritica di fronte ai compagni del corso, spinta fino all'annullamento dell'identità dal funzionario
che lo ha ricondotto alla scuola, segna la degradazione e il condizionamento dell'essere di fronte
allo spettacolo crepuscolare stalinista. Infine, Gabor raccoglie la solerzia acida della giornalista che alla fine del corso aspetta la
promozione a direttrice di un giornale di partito. E' inquadrata sempre con distacco; qualche volta,
come nelle sequenze di nudi nelle docce, nel bar mentre mangia avidamente due fette di torta, nella casa del vecchio tornitore sospeso dal lavoro, sono evidenziati i tarli nevrotici della sua fede. Il frammento della delazione è un momento di grande forza. Vera e la giornalista bussano alle porte
per la propaganda e raccolgono il racconto del vecchio tornitore - che non è comunista - sui metodi
per squalificare e licenziare quelle figure che, all'interno delle fabbriche, si muovono contro i
fantocci di partito. La sequenza si chiude su una frase della giornalista - come ti chiami compagno!
-. La sua sorte sarà appesa alla lama della morale stalinista - chi non è con noi è contro di noi. Tratteggiate con mano leggera le sequenze dei momenti morti del corso. I giochi in cortile, le
confessioni nelle camerate, la festa da ballo e la notte d'amore di Vera; qui Gabor coglie le facce
della soggezione, dell'intimità penetrata, della realtà stabilita; afferma che l'ideologia della
coscienza felice non è che la rappresentazione promessa della felicità. In un universo di
intimidazione, glorificazione del comunismo amministrato, tutte le vacche sono rosse. «ANGI VERA» sorprende per l'uso della fotografia, curata fino all'eccesso, filtrata, lavorata su toni
giallo-ocra o verde-marcio; viziato da tanta maestria l'occhio rantola nei ricordi mercantili del
cinema-games americano e, in parte, questo vizio toglie al film lo spessore storico sul quale si
fonda. La chiusa è una metafora dolorosa. L'auto di Vera e della giornalista sfila su una strada
coperta di neve, sorpassa una donna in bicicletta: è la giovane contadina che faceva la staffetta in
clandestinità. Vera (e noi) la guarda allontanarsi su una strada senza ritorno. Gabor mostra in sintesi i balbettamenti della lingua stalinista, i suoi dubbi si schiudono su una
certezza: la lunga mano della burocrazia comunista e della ragione narcotizzata continua a partorire
mostri. I colpi mortali di soggetti in movimento per la trasformazione di una storia che è ordine
teologale, si fanno sempre più avidi di verità possibili e si rovesciano ovunque la politica del
bavaglio e la prassi della mediocrità mostrano il culo del loro spettacolo.
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