Rivista Anarchica Online
La donna comodosa
di Tiziana Ferrero
«La diagnosi tecnico-didattica della nostra nazionale è ormai nota ai nostri lettori: l'Italia è squadra
femmina: si adegua al gioco avversario e fa umile e utile controgioco ... ». Così scrive Gianni Brera
su «La Repubblica» per commentare la partita di calcio Cipro-Italia. Il sindaco uscente di Nizza, Médecin, ha basato la propria campagna elettorale su una serie di
manifesti che ritraggono una ragazza in bikini sullo sfondo della Baia degli Angeli che promette
uno strip-tease a puntate. E la promessa viene mantenuta: appare sull'ultimo manifesto della serie
completamente nuda ed esordendo all'incirca con questa parole: «Mi sono ridotta così dopo due
anni di socialismo». Sacrosanta reazione delle femministe, ma anche dei colleghi di partito di
Médecin che, in quanto cattolici e di destra, hanno giudicato questa campagna elettorale «troppo
osé». Il campo della pubblicità non è molto più confortante. La Renault è «rubacuori», come lo è la
«bestia per la sua bella», King Kong con la sua innamorata; l'ultima nata in casa Fiat è «scattosa»,
«comodosa», «risparmiosa», al femminile naturalmente. Anche la pubblicità della Golia, una delle
più efficaci e anche spiritose degli ultimi anni, non sfugge a questa nuova ondata di
antifemminismo: molti tra i suoi slogan hanno chiari riferimenti alla donna, un esempio: «W... la
Elvira (già mi tira)». E che dire della moda? Dalla carta patinata di tutte le riviste di noda più «in»
ammiccano splendide donne in reggicalze, a giarrettiera e non, calze di pizzo nero, conturbanti
négligé rossi e neri (pare sia un accostamento di colore molto sexy), gonne fascianti dagli spacchi
vertiginosi, maglioni, camicie e bluse con décolleté abissali (non importa se davanti o dietro, anche
una schiena nuda è provocante). E tutto questo viene contrabbandato come «liberazione sessuale
della donna», come riscoperta dell'erotismo femminile (che, guarda caso, assomiglia molto a quel
caro, vecchio tipo di erotismo presente nell'immaginario maschile). E, dulcis in fundo, il revival
della maternità. La pubblicità di Prénatal, una catena di negozi di abbigliamento per future mamme
e neonati, usa con raffinata e sottile psicologia un uomo in salopette con un bambino di pochi mesi
infilato nella pettorina, imitando così il «pancione» della donna. Cosa c'è di più bello del proprio
uomo che partecipa così attivamente a questa dolce esperienza andando a ingrossare la già
numerosa schiera dei «nuovi papà»? Questi non sono che pochi, ma illuminanti esempi dell'uso della donna come mezzo per
comunicare qualsiasi messaggio, culturale, politico o pubblicitario. L'homo è tale perché è un
essere culturale, perché è dotato di un simbolico. Per comunicare ha bisogno di segni, di un codice
che gli permetta di farsi capire dal suo interlocutore. Tutto fa supporre che la donna ne sia il
simbolo, l'elemento di relazione con il mondo. Si vuole dire che la nazionale di calcio italiana ha
fatto un sonoro fiasco perché la sua tattica è passiva e si adegua al gioco dell'avversario? Niente di
meglio che evocare l'immagine della donna, da sempre ritenuta passiva e subordinata,
caratteristiche considerate quasi come biologiche. Si vuole imporre al gusto dei consumatori una
caramella, un'automobile? La donna, ancora una volta, è il segno fondamentale per questa
operazione. Dopo un breve periodo in cui c'è stato quasi un calo dell'uso della donna come significato nella
comunicazione - sull'onda del femminismo arrabbiato sessantottino - ora tutti hanno fatto marcia
indietro: il successo nelle vendite di qualsiasi oggetto è basato sull'uso più o meno indiscriminato
dell'immagine al femminile. Assistiamo ad una riscoperta di valori che credevamo ormai sepolti, cancellati. Nell'immaginario
collettivo si va ristabilendo la stessa rappresentazione del mondo di venti-trenta anni fa. La donna
torna a casa perché così ha più tempo da dedicare a se stessa (corsi delle centocinquanta ore di
Ikebana, palestre, ecc.) e rivendica il salario domestico come mezzo per la sua liberazione senza
rendersi conto che invece è solo il mezzo per cristallizzare la condizione di sempre. Oppure torna a
casa per dedicarsi al figlio, che adesso è «voluto» perché dopo essersi realizzata sul lavoro - oggi,
più spesso che in passato ricopre cariche importanti - l'unica cosa che le manca per sentirsi una
«donna completa» è un figlio. Il fenomeno a cui stiamo assistendo è una vera e propria esaltazione
della maternità. Se per un breve periodo di tempo è sembrato che la donna si rendesse conto
dell'importanza di uscire dagli schemi di cultura dominanti (e quindi anche dallo schema che la
vuole necessariamente madre), se ha intravisto l'importanza di diventare individuo al di là della sua
occasionale possibilità biologica, oggi è più che mai rientrata nei ranghi, rendendosi pienamente
partecipe dell'immagine culturale dominante che la vuole, come l'ha sempre voluta, a tutti i costi
madre. Forse si è resa conto di quanto sia difficile ricostruire la sua identità individuale,
abbandonare il calore accogliente e protettivo delle certezze di sempre, forse è una sconfitta. I tempi sono cambiati, il termometro del riflusso segna una delle più alte temperature degli ultimi
vent'anni. Il guaio è che le prime a compiacersi delle calze a rete e della ritrovata gioia della
maternità sono proprio le donne, spesso le ex-femministe dei «Tremate, tremate le streghe son
tornate» o «L'utero è mio e me lo gestisco io». Siamo ancora molto indietro, forse dobbiamo
ricominciare daccapo, e questa volta non bastano i collettivi di autocoscienza, i girotondi in piazza
e le mimose. Dobbiamo cominciare a creare qualcosa con la testa, sulla quale fino ad oggi l'uomo
ha avuto l'esclusiva, e non solo con la pancia. Dobbiamo elaborare un pensiero, (re)inventare un
immaginario femminile dove non ci sia spazio per una cultura basata sul segno-donna e in questa
operazione deve essere coinvolto ogni individuo, anche l'uomo.
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