Rivista Anarchica Online
Querelle / Il testamento di Fassbinder
di Pino Bertelli
«Querelle de Brest» (1982) di Rainer Werner Fassbinder è un film testamento. Fassbinder muore a
Monaco, per abuso di droghe e psicofarmaci, il 10 giugno 1982, il suo film esce alla Biennale di
Venezia il 30 agosto 1982. «Querelle» tesse l'elogio della «diversità», segna l'emersione di un mondo rovesciato
nell'omosessualità, nella solitudine, nella violenza come spettacolo di morte. L'«etica del male» (Sartre)
che attraversava il breve romanzo di Jean Genet, «Querelle de Brest» (1951), è diluita nel film di
Fassbinder nell'estetismo colorato, filtrato, virato secondo i moduli iperrealistici del «cinema da
camera» (Kammerspielfilm) tedesco degli anni '20. Non è un recupero nostalgico, è la mancanza di
visione filmica, l'impossibilità di fabbricare un linguaggio degli atti o mostrare una testimonianza del
reale che segna una condizione di dolore. Brest è la città/bordello chiusa tra il battello «Le Vengeur» e il casino «La Feria»; il porto è il luogo sacrificale dove si consuma la violenza, l'amore, si mastica la solitudine. Tutto è ricostruito in
studio. La mescolanza di segni rimanda a generi collaudati, di sicuro effetto, come la realtà di
cartone del cinema francese del dopoguerra (Marcel Carné), il fumetto patinato di tutto il cinema di
Luchino Visconti, i deliri fisionomici di Pier Paolo Pasolini, gli stereotipi del cinema «nero»
americano degli anni '40. L'atmosfera claustrofobica è tratteggiata in modo teatrale, non riesce mai
ad essere tragica. Tutto è artefatto in modo maldestro. Omicidi immotivati si susseguono in maniera
banale, sciatta; Jeanne Moreau, immersa in uno stuolo di travestiti, fuma e balla attaccata a
qualcuno, perduta in un ricordo di donna che canta «un uomo uccide ciò che ama»,
instancabilmente; Franco Nero demanda i suoi desideri omosessuali a un registratore/diario, si
masturba su fotografie di uomini nudi e scrive frasi «sconce» nei gabinetti del porto. Un sole giallo spunta in fondo al molo come una réclame e non tramonta mai. C'è anche Cristo, in
processione sul molo, frustato mentre trascina la croce; tutto il luogo e il tempo del Cristianesimo
sono qui raccolti nella menzogna della loro sofferenza e non nell'inumanità della loro barbarie, cioè
nell'oscenità di Dio come scrittura simulata. Querelle (Brad Davis) è l'oggetto d'amore, non maledice il mondo, lo annulla in un gioco di luci. Il
poliziotto è parte della tappezzeria della città/bordello, il negro che si gioca ai dadi la moglie per il
culo dei marinai, restituisce l'offesa razziale, l'operaio omosessuale uccide l'amico per
l'impossibilità di amarlo e di essere riamato. E' evidente il disinvolto naturalismo che avvolge tutto il film. I personaggi sfilano goffi davanti alla
macchina da presa che scivola, si aggira su quella ribalta di fantasmi in preda ai loro giochi estremi;
Fassbinder non riesce a dare mai l'impressione di «scrivere» pagine di vita quotidiana. La fotografia
accattivante lascia trasparire la visione di un mondo ammorbidito, diminuito, organizzato in
estremità nell'equazione da rotocalco illustrato - prigione/società. I duelli, gli omicidi, i momenti
d'amore, di masturbazione sono trattati secondo i rituali del balletto, l'azione è svuotata di ogni
dinamica conflittuale e ogni gesto è assunto come marca di seduzione, rito sacrificale o/e sentenza
alla vita reale che è feroce, impedita nella sopravvivenza nello spettacolo della società mercantile. Fassbinder si affida poi alla generosità dello spettatore e delinea la disperazione dell'amore fraterno,
si avventura in modo plateale negli specchi della passione muta, dell'amore/odio che insinua tra
fratelli e, in un dialogo del film, sottolinea che «l'amore fraterno è una disputa tra amanti».
L'approccio psicoanalitico è irrisolto e la confusione dell'impostazione esistenziale trova in
«Querelle» la capacità di apparire naturale. Comunque Tullio Kezich (La Repubblica, 11.6.1982)
riesce a definire Fassbinder «l'anarchico col cineocchio», poi passa alla consueta celebrazione del
«diverso», vede in «Querelle» un film «impeccabile. Asciutto, moderno, spregiudicato e forte». Il
Centro Cinematografìco Cattolico non dice diversamente. Il linguaggio delle immagini di «Querelle» ci sembra pregustare la desolazione del mondano,
piagnucolare sulla schizofrenia di una condizione esistenziale. Querelle mostra che ogni orgasmo è
una morte solitaria e ogni morte d'amore è un suicidio o gioco al massacro di ogni esistenza
incrinata. E forse è anche vero. Resta il fatto che Fassbinder non è riuscito a trasferire sulla tela il
furore libertario di Genet, che lasciava i segnali di sovversione della facciata sociale a coloro che
intendevano scoprirli. La cinevita di Fassbinder è segnata da una intenzionalità melodrammatica. Le sue storie sono
giocate sul filo degli eccessi e sullo stravolgimento della quotidianità. Carichi di autoironia e
compiacimento, i lavori di Fassbinder riescono in qualche modo a disvelare le crepe nascoste
dell'autoritarismo poliziesco, vedi «Germania in Autunno» (Deutschland im Herbst, 1977-78) o
comunicare le paure e la violenza razziale nella Germania del «miracolo economico», in «Tutti gli
altri si chiamano Alì» (Angst Essen Seele auf, 1973). Comune a tutto il cinema di Fassbinder è l'approssimazione linguistica. L'assenza di montaggio,
l'atmosfera teatrale, l'attoralità gonfiata, la citazione vezzeggiante e l'uso sistematico della fotografia come affresco di cattivo gusto. Quando muore Fassbinder ha 36 anni. In maniera frenetica ha girato 40 film, lavorato per il teatro,
la radio, la televisione, ha trovato anche il tempo di scrivere critiche di cinema e un saggio sul suo
maestro riconosciuto, Douglas Sirk, pasticcere hollywoodiano di freddi melò a tinte umanistiche,
vedi «Come le foglie al vento» (Written on the Wind, 1957) o «Lo specchio della vita» (Imitation
of Life, 1959). Il cinema corale e popolare che Fassbinder diceva di fare, passa attraverso «Il soldato americano»
(Der amerikanische soldat, 1970), «Le lacrime amare di Petra von Kant» (Die bitteren Tränen der
Petra von Kant, 1972), «Il viaggio al cielo di mamma Kusters» (Mutter Kusters' Fahrt zum Himmel,
1974), per giungere alle mielate biografie di donne: «Il matrimonio di Maria Braun» (Die Ehe der
Maria Braun, 1978), «Lili Marleen» (1980), «Lola» (1981) fino a «Veronika Voss» (Die Sehnsucht
der Veronika Voss, 1981). Proprio con un suo film, «Attenzione alla santa puttana» (Warnung vor
einer heiligen Nutte, 1970), Fassbinder aveva detto: «la santa puttana è per l'appunto il cinema, che
con la sua costante falsa seduzione finisce per far dimenticare la realtà a coloro che ne subiscono il
fascino, la realtà del rapporto col cinema, con se stessi e con gli altri» (in: Film und Drang, di
Manuela Fontana, Vallecchi 1978). La sua filmografia sfiora appena i segni della realtà addomesticata della Germania occidentale. Le
figure del dissenso e della trasgressione politica restano in margine al suo cinema, che resta teatro
del fittizio e della chiacchera. Ogni sofferenza è un elogio alla diversità che insorge contro gli
specchi del dolore e li spacca. Si tratta di non cristianizzare le differenze nell'incoscienza martire
degli oppressi alla deriva delle loro passioni. Quando nel febbraio del 1982, Frank Riploh chiede a Fassbinder se si può catalogare «come
democratico, tiranno, cristo, anarchico, liberale, conservatore», Fassbinder si definisce - «Io sono
un anarchico romantico» (in: «Veronika Voss», di Rainer Werner Fassbinder, Ubulibri 1983), e
romantico certo lo è stato: anarchico no.
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