Rivista Anarchica Online
Vivere l'anarchia
di Gian Paolo Prandstraller
Con il titolo Vivere l'anarchia uscirà prossimamente per i tipi delle Edizioni Antistato un'antologia
di scritti dell'anarchico individualista francese Emile Armand (1872-1962). Si tratta di uno dei
pensa tori più interessanti e, per molti aspetti, più moderni dell'anarchismo, e non solo della
corrente individualista: lo stesso Malatesta, che certo non era individualista, recensendo negli anni
'20 il volume di Armand Iniziazione individualista anarchica (dal quale sono tratti i brani di questa
antologia dell'Antistato), lo segnalava quale uno dei testi migliori dell'anarchismo. Pubblichiamo in queste pagine l'introduzione che per l'antologia dell'Antistato ha curato Gian Paolo
Prandstraller, sociologo di area socialista, autore di numerosi libri e ricerche (I tecnici come classe,
1959; Intellettuali e democrazia, 1963; Valori e libertà, 1966; Funzioni e conflitto, 1970;
L'intellettuale tecnico e altri saggi, 1972; Felicità e società, 1978; ecc.). Recentemente
Prandstraller ha curato la ripubblicazione de Il mutuo appoggio di Piotr Kropotkin (Salerno
editrice, Napoli 1982).
Nel caso di E. Armand, la rituale domanda «ha qualche cosa di rilevante per noi il pensiero di
questo scrittore?» appare più che mai inevitabile. I principi di organizzazione, le forme sociali e le
tendenze politiche fondamentali del XX secolo, contrastano invero palesemente coi principi ai quali
egli si ispira, sono in aperta antitesi rispetto al suo anarchismo individualistico. Armand non serve
dunque molto per intendere il presente e neppure per predire il futuro. Per essere un pensatore notevole non è tuttavia necessario avere anticipato ciò che la realtà ha posto
in atto. La perspiquità può derivare anche dall'aver espresso un'aspirazione dello spirito,
un'inclinazione della coscienza, soprattutto una visione etica. E. Armand appartiene appunto alla
non numerosa schiera degli autori per così dire lontani dalla realtà, che tuttavia pesano e contano.
Egli appartiene essenzialmente all'etica, etico essendo l'orizzonte in cui si muove ed al quale dà il
suo contributo. Siffatta vocazione egli esprime riproponendo - si potrebbe dire «recuperando» - in mezzo ad una
cultura fortemente tributaria della mistica ideologica - l'idea di «felicità». Idea ben poco diffusa e
ben poco amata lungo tutta la prima metà del XX secolo. Caposaldo teorico dell'illuminismo e
fulcro ideale del pensiero anarchico (i grandi dell'anarchismo - da Godwin a Proudhon a Kropotkin
- le riconoscono infatti un ruolo filosofico e politico centrale) essa è relegata dalle ideologie
dominanti nel XX secolo tra le illusioni dannose che è opportuno mettere da parte. Armand invece -
operando decisamente controcorrente - la situa al centro della propria riflessione, dandole un senso
di cui il pensiero critico deve darsi carico. Cos'è, per Armand, la felicità? E', sostanzialmente, l'estrinsecazione piena della vita, nel suo
sviluppo, nell'attuazione delle sue potenzialità: estrinsecazione che è postulata - da Armand - a
livello individuale e non a livello collettivo. Il nostro autore dà a questa istanza un fondamento filosofico preciso: il suo individualismo
eudemonistico concepisce infatti l'esperienza umana come fenomeno naturalistico, al di fuori di
qualsiasi trascendenza. In Iniziazione individualistica anarchica egli scrive: «Le filosofie indiane e
quelle che ne derivano vogliono, quali più quali meno, che la salute sia nella soppressione della vita
individuale, vale a dire nell'unione del soggetto e dell'oggetto nella fusione dell'"io" col "non io".
Orbene, tutta la natura è lì a provarci che è nella differenziazione dell'io dal non io che risiede il
fenomeno vitale. E non altrove. E, così come la natura, l'esperienza scientifica ci mostra che quanto
minore è la coscienza che il soggetto possiede di essere separato dall'oggetto - tanto minori sono le
sensazioni distinte, e tanto minore è la conoscenza, e minori sono anche le manifestazioni della
volontà. C'è un fenomeno in cui si trova perfettamente realizzata la fusione dell'io con il non io: è
questo lo stato particolare denominato "morte". Orbene, anche qui la natura e l'esperienza
insegnano che il puro e semplice istinto spinge gli organismi viventi, dal più infimo al più elevato,
a fuggire la morte. Ecco perché tali filosofie e i loro adepti ci sembrano colpiti da morbosità». L'individuo è dunque, per Armand, un'entità separata dall'Essere; individuo biologico, «bipede a
stazione eretta, dotato di pensiero e sentimento», che accetta la propria condizione come positiva.
L'uomo non vive per uno scopo trascendente, partorito dalla mente di un demiurgo o scritto nelle
tavole d'un imperscrutabile destino. L'uomo «vive per vivere» e quindi - semplicemente - «per
apprezzare le esperienze intellettuali, morali, e fisiche, delle quali è cosparsa la strada di ciascuno;
per goderne; per suscitarne quando l'esistenza appare troppo monotona; per porvi fine o rinnovarle,
secondo i casi».
Vivere per vivere Una presa di coscienza lucida e serena della condizione animale dell'uomo sostiene
l'individualismo di Armand: tale coscienza, se da un lato lo porta a rifuggire da ogni sorta di
finalismo mistico o storicistico, dall'altro lo rende assai cauto sulla «grandezza» dell'uomo.
L'umanesimo individualistico di Armand è così realistico da respingere anche l'idea di progresso
come idea-guida, spiegazione della storia, principio regolatore dell'azione umana. «In realtà - egli
scrive - noi ignoriamo, in maniera indiscutibile, sia l'origine, il punto di partenza dell'umanità, sia il
fine o i fini verso i quali essa procede. Ma anche se conoscessimo esattamente questo punto di
partenza, noi non possediamo alcun criterio scientifico che ci permetta di distinguere ciò che è
progresso da ciò che progresso non è. Noi possiamo constatare un movimento, uno spostamento,
nulla più. Secondo le loro aspirazioni o il partito cui appartengono, gli uomini definiscono questo
movimento "progresso" o "regresso", ecco tutto. In fondo a codesta concezione del progresso
continuo e ineluttabile sotto le parvenze più scientifiche sonnecchia un recondito pensiero mistico e
finalistico ... Si naviga in pieno antropocentrismo e si dimentica la realtà assai semplice che è
questa: su uno dei corpi più infimi che costellano il cosmo, in fondo all'atmosfera che lo circonda
come un velo diafano, vegeta, brulica, striscia una moltitudine di parassiti. Un accidente qualunque
ha sovraeccitato verosimilmente, l'intelligenza di una delle specie parassitarie di questo corpo - la
Terra - e ad essa ha permesso di dominare su tutte le altre. Ciò avvenne per la fortuna o per la
disgrazia degli abitanti del pianeta? Noi non lo sappiamo. Noi ignoriamo completamente a quale
risultato avrebbe condotto il prevalere di un'altra specie di vertebrati, l'elefante o il cavallo ad
esempio, o delle varietà alle quali esse avrebbero potuto dare origine. Nulla prova che la natura non
avrebbe "preso conoscenza di sé" assai meglio e in una forma magari superiore, in queste razze.
Nulla prova che un nuovo accidente geologico, biologico od altro, non ritoglierà al genere umano il
suo scettro, la sua potenza, la sua tracotanza». La riduzione della condizione umana al suo alveo biologico, e la conseguente presa di coscienza del
limitato rilievo della specie nella economia generale dell'universo, danno all'individualismo di
Armand un carattere eccezionalmente moderno. Armand è uno dei non molti scrittori del XX
secolo non traumatizzati, ma al contrario resi più sereni, dall'impatto delle idee evoluzionistiche
sull'umanesimo tradizionale. L'individualismo di Armand propone infatti, in radice, la demolizione
delle fondamentali conseguenze - individuabili nel pensiero metafisico come Storia, Destino,
Progresso, ecc. e in quello politico come Potenza, Dominio e così via - dell'orientamento filosofico
che pone l'uomo al centro della realtà. In sintesi esso riposa sul seguente assunto: non vi è alcuna
ragione che giustifichi i miti antropocentrici; tutto ciò che si può dire è che siamo un accidente
della natura a cui non resta che ritrovare nella propria esistenza le ragioni di questa. «Vivere per
vivere» è quindi, per Armand, la fondamentale regola etica che deve ispirare il comportamento. Di qui un pensiero sociale che elude deliberatamente le sirene di ogni finalismo estremistico e
contesta la legittimità dei grandi ideali collettivi che ad esso fanno capo. Armand rifiuta lo stesso
«sociale» come fine supremo dell'umanità. L'individuo profondamente relativizzato che egli ci
propone non può infatti accettare quella sorta di divinizzazione del sociale che è così comune nel
nostro secolo, né - tanto meno - sacrificare al sociale la sua aspirazione alla vita. Le premesse
generali dell'individualismo armandiano conducono dunque direttamente alla relativizzazione del
sociale. Questo risultato - intellettualmente anomalo nella temperie culturale del secolo - si può meglio
capire mettendo a fuoco le tre linee ideologiche fondamentali alle quali Armand riconduce la
responsabilità dell'estremismo finalistico del sociale. Esse sono rispettivamente incarnate da
specifiche forme di «ideale»: l'ideale dei riformatori religiosi, l'ideale dei riformatori legalitari e
l'ideale dei riformatori economici. La critica che egli rivolge a questi tre ideali è intrinsecamente
diretta contro quella mentalità totalizzante che sacrifica ogni espressione vitale ad uno scopo
supremo. Comunque vengano definite le singole categorie degli ideali, esse immolano sempre
l'individuo e le sue aspirazioni terrene ad un fattore trascendente. Nella forma più estrema questo
sacrificio è fatto in nome di Dio: si ha allora la completa sudditanza dell'individuo rispetto ai parti
della sua stessa immaginazione, perché «l'essere sinceramente religioso si pone in un assoluto di
purezza e di santità, che egli chiama Dio, la somma di tutti i valori spirituali che egli è capace di
concepire e di immaginare». Ma analogo fenomeno si dà sotto l'egida dell'ideale legalitario, fondato
sull'assoluta preminenza della Legge e dello Stato, che della prima è suprema espressione, e
nell'ideale dei riformatori economici, tra i quali vanno posti in primo piano quelli di orientamento
comunista. «La forma scientifica del collettivismo o del comunismo non è che un adattamento
economico allo spirito dei tempi attuali del cristianesimo e soprattutto del cattolicesimo. Con una
terminologia differente, il socialismo e il cristianesimo preconizzano l'amore fra gli uomini, tutti gli
uomini, che essi chiamano, ciascuno e tutti, al banchetto della vita, senza reclamare altro sforzo che
una adesione esteriore a un programma, vogliamo dire l'obbedienza ad un credo. E' con ragione che
si è potuto qualificare il socialismo: "la religione del fatto economico"».
Contro il feticismo dell'organizzazione Tali premesse non sono ovviamente senza riflesso sulle strategie immaginabili per realizzare la
giustizia sociale. Armand configura queste ultime in modo nettamente contrapposto agli assunti
tipici del pensiero rivoluzionario, quali si sono delineati nell'ormai lungo periodo che intercorre tra
la rivoluzione francese e l'epoca contemporanea. Un primo, e decisivo, riflesso, investe la stessa
idea di rivoluzione. Armand esprime infatti un giudizio assai limitativo sulle virtù sociali di
quest'ultima: «Come una guerra, una rivoluzione può essere comparata ad un eccesso di febbre
durante il quale il malato si comporta ben diversamente che nel suo stato normale. Passato l'accesso
di febbre il paziente ritorna nel suo stato anteriore. Così la storia ci insegna che le rivoluzioni sono
sempre state seguite da sbalzi indietro, che le han fatte deviare dal loro obiettivo primitivo». E' la
convinzione profonda e stabile dell'individuo intorno alla necessità di mutamento, e non l'ebbrezza
effimera e transitoria della rivoluzione che, secondo Armand, determina il vero avanzamento della
società. Un secondo riflesso riguarda le concezioni taumaturgiche secondo cui, eliminando un qualche
fattore bloccante, si otterrebbe automaticamente la liberazione dell'umanità. Armand contrappone
ad esse la fondamentale esigenza di proteggere l'individuo e la sua libertà, e una fondamentale
diffidenza verso il miracolismo sotteso a siffatta concezione. Perciò critica l'idea che il
trasferimento in mano pubblica dei mezzi di produzione sia di per sé sufficiente ad assicurare
un'effettiva giustizia sociale, prendendo le distanze sia dai comunisti anarchici sia dai marxisti.
«L'individualista - egli spiega - si differenzia dal comunista anarchico (l'anarchico della
Federazione Giurassiana e dei suoi continuatori) in quanto egli considera - al di fuori della
proprietà degli oggetti di godimento che costituiscono il prolungamento della personalità - la
proprietà dei mezzi di produzione e la libera disposizione del prodotto, la garanzia essenziale
dell'autonomia personale». Semmai è verso una qualche forma di proprietà collettiva, atta a
garantire un elevato grado di autonomia individuale, che bisogna guardare. Infine l'orientamento relativistico di Armand lo porta a rifiutare il concetto di «conquista del
potere» da parte dei ceti diseredati come rimedio all'ingiustizia e come realizzazione del socialismo.
Esponendo le linee teoriche del «socialismo» - nella doppia accezione rivoluzionaria e riformistica
- Armand fa rilevare che esse non sono affatto idonee a produrre una vera giustizia. Il fatto che le
varie correnti socialiste mirino tutte a conquistare il potere gli appare pericoloso per le conseguenze
di tale operazione, che conduce ad un'estesa organizzazione delle forze sociali e alla formazione di
élites di potere miranti al controllo delle strutture organizzate: «...i riformatori socialisti della
società non concepiscono ... [la] riforma o trasformazione se non per mezzo di una
"organizzazione", vale a dire senza l'esistenza di organi direttivi rappresentati da ogni specie di
commissioni amministrative e legiferanti, da una moltitudine di funzionari, esecutivi d'un ordine o
d'un altro, ingranaggi questi che essi affermano indispensabili al funzionamento di questa grande
macchina vivente che è l'organismo societario». Una simile avversione verso il feticismo dell'organizzazione è per così dire naturale in un pensatore
individualista. Ma il diretto collegamento che essa stabilisce con la critica del concetto di conquista
del potere - fondamentale in quasi tutta la pubblicistica politica di sinistra nella prima metà del
nostro secolo - appare teoreticamente assai stimolante. E' chiaro che Armand non considera affatto
il potere come un valore atto a sostenere la lotta per la giustizia sociale, ma vede anzi nella sua
riduzione il presupposto fondamentale di quest'ultima. All'evidenza, resta aperto - in tale prospettiva - il problema di come, una volta escluso il ricorso alla
conquista del potere da parte delle forze sociali diseredate, si possa ottenere una più alta giustizia. Il
pensiero di Armand non è in grado, su questo punto di dare indicazioni rilevanti. Se esso
formulasse strategie di tipo strutturale entrerebbe in contrasto con l'individualismo che elegge a
proprio fondamento. Armand riversa dunque sull'etica la parte più significativa della propria
teoresi: per cui la sua prospettiva allude fatalmente ad un cambiamento culturale a lungo termine
intravvedibile sull'onda dello sperato declino dei valori attuali e dell'emergere di valori alternativi. Ciò comporta un implicito apprezzamento del peso culturale delle individualità marginali, dei
soggetti cioè che, nel rifiuto dell'organizzazione imperante, scelgono di rimanere fuori dalle
strutture o almeno di non lasciarsi coinvolgere da queste. Nel pensiero di Armand tale sembra
essere lo sbocco naturale della posizione individualista. Occorre dire, a questo proposito, che un
punto di vista simile è oggi sotteso - per quanto non catalogato come «anarchismo individualistico»
- nei molti che, respingendo lo spirito di appartenenza che connota le forme organizzative moderne,
vedono nella marginalità (per lo più intellettuale, dato che una vera e propria marginalità sociale
implicherebbe sacrifici gravissimi) l'unica strada atta a salvare almeno in parte la libertà interiore.
Se si considera questo, apparirà chiaro che le postulazioni etiche di Armand assumono rilievo
maggiore di quanto ci si possa aspettare dall'incidenza sociale e politica dell'individualismo
anarchico. In realtà esse sono utili a tutti coloro che - pur senza farsi illusioni sulla possibilità di
modificare a breve termine la tendenza preminente nel XX secolo - non intendono per questo
abdicare alla propria libertà, sperando che in futuro le concezioni oggi dominanti saranno sostituite
da altre più rispettose dei diritti dell'individuo.
La vita, un'esperienza continua Benché destinata a collocarsi ai margini delle strutture, la posizione individualista dà ugualmente
luogo a una serie di problemi relazionali. Difficili problemi, per vero, che trovano un macroscopico
banco di prova nella associazione produttiva tra individualisti. Al di là di alcune indicazioni di
principio («... per gli individualisti anarchici, non v'è che una sola maniera per considerare il
problema dell'associazione tra compagni: associandosi con altri che condividono le loro idee, essi
non possono avere altro scopo che quello di alimentare la somma della loro libertà individuale, e
limitare d'altrettanto l'invadenza dell'ambiente»), Armand non sembra offrire a questo proposito
particolari soluzioni. Egli è ben consapevole di quanto sia difficile creare comunità che, rifiutando
le forme dell'organizzazione dominante, convivano tuttavia con questa. Qui veramente il problema
dell'essere fuori gregge si fa particolarmente drammatico. «A parlare franco ... - osserva infatti
Armand - l'esistenza di ambienti di vita in comune non ha fornito alcuna prova di come sia
possibile creare un agglomerato o una "cité" vivente ai margini della società senza che a questa sia
tributaria di qualche cosa, economicamente parlando». Gli ostacoli incontrati nel recente passato
dalle comuni, il loro sostanziale fallimento, è qui chiaramente prefigurato. Sembrano pertanto molto più significativi gli sviluppi del pensiero armandiano che riguardano il
contenuto profondo dell'esperienza individuale, in quanto radicata in una determinata concezione
della vita. A questo livello Armand esprime idee non comuni, i cui riflessi sociali non possono
essere ignorati. Come si è già notato, egli vede la vita al di fuori di qualsiasi trascendenza
(accettando pertanto la sfida esistenziale radicale che tale posizione comporta) come
sperimentazione fine a se stessa. «Se l'individualista è conseguente a se stesso, se esso applica alla
vita - e particolarmente alla sua vita - il metodo sperimentale, la considererà come esperienza, o,
per meglio dire, una serie di esperienze, presumendola abbastanza lunga per aver modo di variarla e
renderla movimentata: in una parola di renderla profittevole a se stesso. La vita - la sua vita - sarà
per l'individualista un campo di esperienza ed un continuo ammaestramento». Questo punto di
partenza, implicante una radicale relativizzazione della vita e l'implicita conclusione che occorre
viverla senza cercare motivazioni trascendenti o certezze di qualsiasi genere, porta Armand ad una
serie di postulazioni etiche e pratiche. La prima è che occorre respingere la tentazione dell'assoluto, sotto qualsiasi veste esso si presenti.
In un mondo percorso dall'ansia, meglio dalla frenesia dell'assoluto, Armand dichiara: «La ricerca
dell'assoluto è indice di incomprensione dell'essenza stessa del concetto individualista. L'assoluto è
sempre una violenza, una autorità astratta, una entità metafisica, come Dio e la Legge. La Dottrina
non è altro che la messa in formule dell'Assoluto. I tiranni e i capiscuola di tutti i tempi, hanno
trovato nella dottrina un ausiliario altrettanto prezioso quanto l'Assoluto che essa concretizza.
L'Assoluto non esiste e la Dottrina è la prigione nella quale si trascorre tutta la vita tentando di
raggiungere una perfezione che non è nell'ordine naturale delle cose. L'ordine naturale è
costantemente sottomesso alla realtà dell'imprevisto, del fortuito, del casuale ... Solo il relativo c'è,
in qualunque campo ci si ponga ... ». Una seconda postulazione armandiana è che si deve rifuggire da ogni concezione rigidamente
finalistica dell'esistenza, volta cioè a subordinare integralmente le espressioni vitali alla logica e
alle regole di un telos stabilito una volta per tutte. Armand mette conseguentemente in evidenza la
necessità che tutte le facoltà dell'uomo siano valorizzate nella sua esperienza esistenziale, anche
quelle che non sono adatte a grandi finalizzazioni: accanto alla ragione, il sentimento, gli slanci del
cuore. Eliminare questi ultimi o metterli al servizio d'un disegno finalistico razionale significa
recidere una parte essenziale di tale esperienza: « ... agli "slanci del cuore" l'individualista
concederà il posto che loro spetta lungo il corso della sua vita. Ma a suo rischio e pericolo e senza
pretendere mai che il "sentimento" gli serva come mezzo di pressione o strumento di violenza verso
gli altri». Sembra chiaramente adombrata in questo punto una concezione «pluralistica»
dell'esistenza, postulante un vissuto non monocorde ma ampiamente differenziato. Proprio la
sostanziale marginalità della posizione individualistica rende per così dire naturale questo
approccio, al contrario estremamente difficoltoso per chi è inserito nel gioco strutturale di potere,
dove tutto è subordinato al potere medesimo. Solo l'individuo non imprigionato dalle necessità
comportamentali di ruolo può infatti concedersi liberamente ai suoi bisogni sentimentali. Lo stesso
si dica nei riguardi della bontà, considerata non a caso dal potere una pericolosa debolezza. «Io
sostengo - scrive Armand - che la bontà è uno dei principali fattori che presiedono alle relazioni tra
i componenti d'un ambiente dal quale è bandita ogni specie d'autorità; la bontà che si china sulla
sofferenza che l'esistenza ingenera nei viventi; la bontà che non è punto invidiosa, che non ripudia
una apparente freddezza; la bontà che non irrita e non suppone il male, che usa la pazienza e la
longanimità; la bontà che spera e sopporta; la bontà che conosce tutto il prezzo, tutto il valore,
d'una parola che placa, d'uno sguardo che consola».
Per l'amore libero Un approccio estremamente liberale al problema dell'amore è implicito in siffatto complesso di
idee. Ed è questa una delle acquisizioni di Armand più strettamente collegate alla sua idea della
condizione umana nel mondo. L'amore libero è, per Armand, un caposaldo etico fondamentale.
«Gli individualisti - scrive - ... trattano il problema sessuale alla stregua di un qualunque capitolo
della storia naturale. Dopo aver dimostrato che l'amore è analizzabile come qualsiasi altra delle
facoltà umane, essi rivendicano per ciascuno la facoltà piena ed assoluta di scegliersi la tendenza
amorosa che meglio può secondare la propria natura, favorire il proprio sviluppo, corrispondere
alle proprie aspirazioni. Così, i componenti di una data coppia possono rimanere uniti vita natural
durante monogamicamente, come quelli di un'altra coppia possono l'uno praticare l'unicità e l'altro
preferire la molteplicità. Può succedere che dopo un certo tempo la unicità in amore possa sembrare
preferibile alla molteplicità e viceversa. L'esistenza di esperienze amorose simultanee si può
comprendere meglio in quanto, da esperienza a esperienza, i gradi di sensazioni morali, affettive e
voluttuose variano talvolta al punto da legittimare l'induzione che nessuna rassomiglia a quelle che
l'hanno preceduta o si perseguono parallelamente. Codesti sono problemi individuali e nient'altro».
Armand approda dunque alla completa smitizzazione dell'amore, considerandolo in sostanza come
un reciproco soddisfacimento di «bisogni» intimi, al di fuori di ogni prospezione mistica o
misterica. Non è difficile cogliere il nesso che lega questo punto all'idea di felicità cara al nostro autore. Lo
sviluppo acquisitivo che è alla base della felicità include invero quella componente importantissima
che è l'esperienza amorosa. La coerenza armandiana su questo tema mostra quanto sia
contraddittoria ogni posizione teoretica che, postulando il diritto della persona ad attuarsi
completamente, lo limiti tuttavia quando vengano in gioco le esigenze sentimentali e sessuali.
Armand vede in ogni uomo un essere che ha diritto di costruirsi la forma d'amore che preferisce; ed
in tal modo dimostra, nella concretezza di un campo essenziale, il peso pratico del suo approccio
etico.
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