Rivista Anarchica Online
Appunti sulla rivoluzione spagnola
di Luce Fabbri
E' passato quasi mezzo secolo, ma è ancora difficile parlare serenamente di quella pagina infuocata
della nostra storia. Per molti di noi che eravamo in quel momento già in uso di ragione, il 1936
segna il punto culminante - come tensione emotiva - di tutta una traiettoria di azione militante.
Dopo tante delusioni, lo spettacolo di tutto un popolo che, attaccato dal fascismo, lo sconfiggeva in
un impeto d'azione spontanea e creava, fin dal primo giorno, le grandi linee di una società nuova,
alla base, senz'aspettar niente dall'apparato governativo, dava l'impressione di vivere l'«utopia».
Tali momenti, in genere, non durano molto. Quella gran fiammata è durata più di qualunque altra
dello stesso tipo nella storia e non s'è spenta per esaurimento, ma è stata spenta con la violenza,
dalla controrivoluzione interna e dalla vittoria di Franco che ne fu in parte la conseguenza. Per
questo ci riscalda ancora e per questo è ancora attuale. Pure non sarei tornata su un argomento su
cui credevo d'aver detto in passato tutto il mio pensiero, se non avessi in proposito un debito con
«A». Infatti, nella conversazione che ebbi con Gianpiero Landi durante un mio viaggio di due anni
fa in Italia, si parlò dell'atteggiamento «comprensivo» che presi nel '37 di fronte all'entrata nel
governo di Madrid di note figure della C.N.T., e la redazione della rivista, pubblicando quanto
avevo detto in proposito, espresse il proprio dissenso, o meglio, trovò insufficenti le ragioni del mio
atteggiamento. Allora promisi rispondere, e lo faccio adesso, chiedendo scusa per il ritardo. Quest'ultimo si deve al fatto d'aver letto solo in questi giorni tutto il libro di Vernon Richards
sull'argomento (V.R., Insegnamenti della rivoluzione spagnola, Pistoia 1974), che all'epoca in cui
uscì l'opuscolo che dette origine alla discussione (L.F. e D.A. de Santillán, Gli anarchici e la
rivoluzione spagnola, Ginevra 1938), non era ancora uscito e, nel momento dell'incontro con Landi
conoscevo solo parzialmente. La nota di «A» citava infatti, in appoggio del suo dissenso, questo
libro e quello di Semprun Maura (Rivoluzione e controrivoluzione in Catalogna, Ed. Antistato
1976). Il problema è gravissimo e sempre attuale per noi, giacché l'esempio più luminoso nella storia
dell'attuabilità delle nostre idee appare viziato da quell'incoerenza radicale dell'esercizio del potere
da parte dei più energici negatori della validità del potere come tale. Il libro di Richards è onesto, è ben anarchico, è bello, specialmente nella parte conclusiva. Vi ho
trovati elementi di giudizio per me nuovi, benché all'epoca dei fatti io seguissi abbastanza da vicino
la stampa della C.N.T. e quella dei suoi critici nel nostro campo (ma quante cose sfuggivano e a
quante non si dava la sufficente importanza allora, nell'entusiasmo e nell'angoscia della
complicatissima epopea, quando si tremava per la vita degli amici al fronte o insidiati nella
retroguardia, e si ricevevano dalla Spagna lettere piene di passione in cui spesso chi scriveva
vedeva l'albero e non il bosco, che solo s'abbraccia con la vista alla debita distanza!). Ma tali nuovi
elementi non hanno fatto cambiare minimamente la mia posizione su questo fondamentale
problema e firmerei ancora tranquillamente l'opuscolo in questione. E questo perché dissenso
profondo non c'è.
Una tragedia, non una colpa Io penso che quell'episodio degli «anarchici al governo», insieme con la participazione alla
cosidetta «giustizia della rivoluzione» ed ai tribunali militari, sia stata una vera tragedia in quella
storia d'incredibile eroismo e d'efficacia creativa di cui è stato protagonista l'anarchismo spagnolo:
era un distruggere con le proprie mani l'essenza di ciò che s'era conquistato. La differenza è nel
tono del giudizio, nella luce che si proietta sul fatto in sé. Lo sentii allora e lo sento ancora come
una tragedia, non come una colpa; come una di quelle incoerenze che si commettono sotto il
pugnale d'un assassino, per salvare non la propria vita, ma quella di altri. Perché c'era la guerra, e la
guerra è il contrario della rivoluzione. La guerra è legata allo stato. Per questo la nostra posizione
antistatale è, malgrado tutto, così vitale in questo momento in cui la guerra incombente minaccia
l'umanità nel suo insieme: combattendo contro lo stato si combatte contro la guerra. Ma la guerra
era un fatto. Non era possibile non combatterla. La vittoria di Franco significava, per chi vedeva il
bosco di lontano, la fine d'una grande speranza, l'avvicinarsi della guerra europea e, per il
momento, l'estendersi alla penisola iberica dell'ombra sinistra che pesava sulla Germania e
sull'Italia. Ma per chi stava a Barcellona o a Madrid, per chi vedeva gli alberi - anche se non tutti -
significava la strage nelle case delle collettività di Tarrasa, di Maella, di altri innumerevoli paesi e
villaggi, ricordati tutti, amati tutti coi loro nomi propri, significava la morte o il campo di
concentramento per tutti quelli che avevano abbandonato la famiglia per correre al fronte, ed erano
centinaia di migliaia. E c'erano le insidie interne contro la propria vita e il proprio lavoro, contro il
lavoro di tutti i libertari, che bisognava conoscere e sventare, c'era da proteggere il fronte e la
retroguardia d'Aragona ... una quantità di realtà concrete che non si potevano sacrificare. La
responsabilità era tremenda e ineludibile. E non c'era tempo di decidersi fra la coerenza e la
necessità impellente, o quella che si sentiva come necessità impellente. Il problema se fosse veramente ineludibile che la C.N.T., per salvare le sorti della guerra (che
d'altra parte s'è perduta lo stesso), entrasse nel governo di Madrid è ozioso. Basta che gli interessati,
insieme con molti loro compagni, l'abbiano creduto, e siano entrati coscientemente nella trappola,
sapendo che era una trappola, ma credendo di non poterne fare a meno. Il prezzo che s'è pagato per questo passo, e per quelli precedenti e seguenti nello stesso senso, è
altissimo. L'attuale debolezza della C.N.T. spagnola e le sue divisioni interne vengono di lì. Il
potere è un frutto velenoso; e si tratta di un veleno persistente ... Questo, senza contare le
conseguenze immediate di degenerazione nel lavoro culturale, nella stampa, nei rapporti tra
compagni, così bene documentate da Richards e da Semprun Maura. Per noi è più importante
pesare queste conseguenze che giudicare gli uomini. Ma da quello stranissimo incontro degli
anarchici con lo stato c'è anche da raccogliere una preziosa esperienza, confermata dalle quattro
conferenze/resoconti dei quattro ministri nel momento di lasciare la carica: niente di positivo si può
creare da un ministero. Tale dimostrazione è l'unica conseguenza utile di quell'incoerenza, a parte
gli oscuri pericoli ch'essa può aver scongiurati nell'istante fuggevole.
Ma la responsabilità fu anche nostra Resta il fatto che non si sarebbe mai arrivati a tale frangente se nel primo periodo della guerra la
risposta eroica e creativa del popolo spagnolo all'aggressione fosse stata aiutata dai lavoratori del
resto del mondo. Il che vuol dire che la responsabilità è diffusa ed è anche nostra. La ragione
principale della «comprensione» che velatamente mi si rimproverava in quell'obiezione
all'intervista, era, in quel momento doloroso in cui si vedeva prossima in Spagna una catastrofe, la
coscienza di non aver fatto tutto quel che potevo, di aver vissuto in quei due anni la mia vita
personale, con gli occhi sempre fissi alla Spagna, sì, raccogliendo soldi e roba di lana, scrivendo,
parlando ... ma limitandomi a questo, senza bruciarmi come «loro», là, si stavano bruciando, senza
cercare di rompere le barriere invisibili che isolavano quell'olocausto, che fu il preludio
dell'olocausto grande di subito dopo. Un esempio di quelle barriere: nella seconda metà di quel luglio del 1936, mi pare il 20 o il 21,
scrissi all'indirizzo di casa di Santillán, a Barcellona: Come possiamo aiutare? risposta immediata,
in carta intestata della Generalitat: Parte ora per il Plata una nave, il Cabo San Antonio;
l'equipaggio è tutto della C.N.T. Rimandatelo carico di grano. Abbiamo bisogno di viveri.
(Riproduco il senso e il tono della lettera, non il suo testo esatto, perché non ho il tempo di
cercarla). Rimasi stordita per la sproporzione tra le dimensioni della richiesta e quelle delle
possibilità mie e dei compagni dell'Uruguay in quel momento. Bisognava raccogliere danaro, molto
danaro, e ottenere i permessi necessari. E vidi subito che l'ostacolo maggiore era il burocratico. In
Argentina c'erano al potere gli eredi immediati di Uriburu (il primo dittatore della serie) e qui
governava il suo omologo Terra. Non era facile muoversi. Per mandare grano ci voleva la patente
di esportatore e per averla erano necessarie lunghe pratiche, mentre il Cabo San Antonio stava per
arrivare. Le persone autorevoli che stavano negli affari e avevano quella patente guardavano
dall'alto in basso con un sorriso di compatimento chi chiedeva loro che servissero da prestanome.
Poi era necessario l'intervento di un «despachante de aduanas» che fino ad oggi non so bene che
cosa sia. Senza contare che l'unico aspetto accessibile, direi consuetudinario, della faccenda, il
raccoglier soldi, questa volta, data l'entità della somma, appariva come un'impresa disperata. Solo
le grandi organizzazioni operaie, che c'erano state, ma che in quel momento non c'erano più,
avrebbero potuto risolvere il problema. Questo si risolse da solo, pochi giorni dopo, e fu ancora più
amaro. La nave non ebbe il permesso di toccar porto nell'Uruguay e proseguì verso Buenos Aires,
ma fu fermata in rotta dalle autorità argentine e sequestrata, per essere consegnata a Franco alla fine
della guerra. I marinai furono internati in una prigione dell'isola di Martin Garcia, e per molto
tempo i compagni di Buenos Aires, come un aspetto del loro «aiuto alla Spagna», portarono loro
libri, sigarette e calore d'affetto. Conservo ancora una cinta a «macramé» fatta da uno di quei
marinai per ingannare l'ozio dell'internamento: è un ricordo commovente e doloroso, ricordo di una
sconfitta e di una incapacità. Non continuo a raccontare, perché basta un esempio. Non tutto fu così negativo. Si fecero
giornaletti, si scrissero libri per illuminare l'opinione pubblica, si riuscì a mandare qualcosa: lana,
medicine ... (erano per la C.N.T., ma i marinai francesi che ci offrirono il trasporto gratuito le
consegnarono poi alle organizzazioni comuniste di Barcellona). Certo, non si ha colpa d'essere deboli e una delle cause della sconfitta spagnola fu appunto la
sproporzione fra il movimento libertario della Spagna e quello degli altri paesi. Ma, pensando a
come, nel luglio del '36, i minatori di Gijón avevano preso le caserme fasciste, sentivo che quello
che si faceva era niente di fronte a quello che si sarebbe dovuto fare, data la posta in gioco. E lì sta la radice della mia «comprensione»; lì, e nel fatto d'aver vissuto il fascismo e di sentire la
disperata gravità del pericolo, che in Francia e in Inghilterra si sentiva allora - inevitabilmente - in
un altro modo. Per questo ancora oggi trovo che bisogna, sì, trarre insegnamento dai fatti, ma senza
giudicarne moralmente, o anche solo ideologicamente, i protagonisti. Questi vanno giudicati e
«classificati» sulla base della loro posizione posteriore alla guerra. Il giudizio deve essere, in fondo,
un autogiudizio. Alcuni di loro sono rimasti, dopo quell'esperienza, tanto anarchici quanto prima.
Con questi si potrebbe continuare a discutere solo sull'inevitabilità obiettiva di quel sacrificio
ideologico. E su questo punto, veramente, non so chi abbia ragione. Ma ripeto che discutere sui
fatti passati a colpi di «se ... » è sempre stato inutile. Con quelli che si son lasciati prendere dalle
seduzioni di quel mezzo apparentemente più spicciativo di fare le cose che consiste nei decreti
applicati con la forza della polizia e dell'esercito ed hanno modificato sostanzialmente la loro
posizione, la discussione è aperta nei termini soliti: è quella che conduciamo da sempre contro il
falso realismo che ci porta su un terreno che non è il nostro, in cui inevitabilmente ci si perde
(l'esperienza spagnola ci ha insegnato appunto questo).
Quale ruolo per i sindacati? Resta un ultimo punto, in cui sta il vero nocciolo della questione, per noi, oggi. I compagni che in
Spagna, durante la guerra civile, hanno occupato posizioni variamente governative, l'han fatto
generalmente in nome della C.N.T., cioè di un'organizzazione sindacale orientata da anarchici, ma
non composta di tutti anarchici. Il problema è questo: l'entrata nel governo è stata un portato
circostanziale della guerra e della sua logica autoritaria, o essa è stata preparata, resa possibile e in
certo modo naturale, dall'indole propria di un'organizzazione sindacale o, nell'ambito sindacale,
dalle caratteristiche organizzative speciali della C.N.T.? In altre parole: un sindacato, per
rivoluzionario che sia, ha in sé i germi della controrivoluzione, oppure tutti i sindacati no, ma la
C.N.T., sì, ce li aveva? Sarebbe facile risolvere il problema dicendo: tali germi ci sono in ogni organizzazione, ci sono
nella natura umana, ci sono in noi; e nessuno lo potrebbe negare. Ma sarebbe comoda scappatoia di
fronte allo studio serio di Richards. Penso che qualunque forza maggioritaria avrebbe corso, nelle stesse condizioni, gli stessi rischi, ma
che la struttura del binomio C.N.T.-F.A.I. lo rendeva particolarmente vulnerabile agli strascichi di
un'esperienza così estrema. Per quanto impregnata d'ideali libertari, la C.N.T. era un'organizzazione
sindacale, cioè destinata alla difesa degli interessi collettivi della classe operaia, con una forte
colorazione politica antiautoritaria, data la presenza nel suo seno della F.A.I. che era un movimento
ideologico, ma aveva nelle lotte operaie il suo campo d'azione principale. La maggior parte dei suoi
membri era affiliata, attraverso il lavoro, alla C.N.T. e, nella pratica, il binomio C.N.T.-F.A.I. agiva
come un tutto. Questo dette luogo a un pan-sindacalismo che funzionò bene nel primo momento, che fu il
decisivo, quando la classe operaia, in un colossale processo di autogestione, assicurò la continuità
del rifornimento e dei servizi pubblici in mezzo al fuggi fuggi generale di burocrati e proprietari
compromessi o solidali con la sollevazione militare. Quell'esempio è unico, e il suo valore fu
sentito subito, tanto che spaventò un po' tutti i politicanti e gl'impresari e si fece intorno alla
formidabile esperienza un altrettanto gigantesco tentativo di isolarla e di soffocarla nel silenzio,
tentativo ancora in atto dopo tanto tempo. Solo tre anni di una guerra che, come tutte le guerre,
favorì la reazione interna, han potuto diluire la sostanza di quel trionfo, come preludio alla sconfitta
militare, resa inevitabile dall'intervento italo-tedesco, dalla passività complice dell'occidente
«democratico» e forse, all'ultimo momento, dai primi approcci nazi-sovietici che culminarono poco
più tardi nel patto Von Ribentropp-Molotov. A tale sconfitta contribuirono senza dubbio la
burocratizzazione sindacale e la degenerazione che il potere (e non mi riferisco solo ai ministeri,
ma anche a quello che si può chiamare «il potere di fatto») aveva prodotto nei quadri e nelle file
della C.N.T. E questo ripropone il vecchio problema: che valore ha per noi il movimento sindacale? Ci sono a
questo rispetto tre posizioni: a) quella dell'anarcosindacalismo nelle due varietà, la latinoamericana del primo trentennio di
questo secolo che concentrava la lotta nei sindacati e proclamava inutile l'«organizzazione
specifica» (tendenza praticamente fallita attraverso la passività della F.O.R.A. argentina di fronte al
colpo di stato di Uriburu) e la spagnola che considerava e - credo - considera l'organizzazione
specifica, cioè il movimento anarchico propriamente detto, come una specie di scheletro invisibile
dei sindacati; b) la posizione individualista, che nega la validità di ogni organizzazione e vede nel sindacato come
tale un organo della società oppressiva; c) la posizione, che credo maggioritaria in Italia, che risponde alla linea malatestiana e, basandosi
su un movimento ideologico organizzato senza carattere classista, non crede alla convenienza d'un
sindacalismo anarchico, ma considera l'organizzazione sindacale come uno dei tanti campi di lotta
e, eventualmente, come uno dei punti di partenza per la ricostruzione. Io appartengo a quest'ultima corrente e credo che, anche prescindendo dagli episodici ministeri,
tutta l'economia in mano ai sindacati li trasforma, obiettivamente e pericolosamente in centri di
potere, con una frondosa burocrazia e dei quadri che si vanno rapidamente politicizzando. In una
situazione come quella spagnola, essi dovevano fatalmente trascinare la F.A.I. su un terreno che
non era il suo. Quando torniamo a parlare della Spagna (e interessa a tutti ripensarci su), non
dovrebbe essere - credo - per recriminare, ma per studiare il modo di moltiplicare i punti di partenza
per un rinnovamento, per rifuggire dai «modelli unici», per rivendicare sempre e dappertutto la
libertà di sperimentazione.
Una strada segnata, non solo a noi Ma c'è un'altra cosa che m'interessa dire prima di chiudere. E' stato rimproverato alla «cupola» della
C.N.T. d'aver preso spesso durante la guerra civile decisioni gravi senza consultare la base. E' vero,
ed era vero in maggior misura nella U.G.T. e nei partiti. C'era la guerra. La maggior e miglior parte
dei militanti era al fronte e si trovava sul filo sottile che separa la vita dalla morte, dalla morte loro,
dei compagni, della Spagna. Era una base che non si lasciava reggimentare e, come bene osserva
Richards, ha conservato fino alla fine la sua indipendenza meglio dei «dirigenti». Però, nella sua
maggior parte, accettava che le cose si facessero così, perché c'era la guerra, le cui esigenze sono
tutt'altro che democratiche. E condizioni simili a quelle della guerra crea la clandestinità. E' necessario ricordare che la C.N.T. e
la F.A.I. si mossero nella clandestinità sotto Primo de Rivera e poi lungo tutto il biennio negro,
senza molte possibilità di tenere riunioni numerose. Malgrado questo, gli osservatori stranieri
osservavano stupefatti, nel luglio-agosto 1936, come ogni membro di quelle milizie confederali
maggioritarie, che correvano ad arginare la marea fascista sul fronte d'Aragona, avesse una sua
vigorosa irreduttibile personalità che non si lasciava militarizzare. In Spagna, per lunga tradizione,
che Gonzalo de Reparaz fa risalire a Numanzia e ai «comuneros», le risorse in quel senso sembrano
essere maggiori che altrove. Ma la ragione principale di quella specie di miracolo libertario che si produsse nel luglio del 1936
fu il fatto che, prima dello scoppio della guerra, c'era stato, a partire dal febbraio, un periodo di
chiassosa democrazia, ben insufficiente di fronte alle necessità e alle aspirazioni profonde del
popolo spagnolo, ma favorevole a una partecipazione attiva di tutti i militanti alla vita delle
organizzazioni. L'esame di qualunque storia ci porta sempre a constatare l'importanza di un clima di libertà per la
preparazione d'un vero rinnovamento. Il fatto che le tendenze di sinistra e i sindacati operai,
comprese la C.N.T. e la F.A.I., nella prima metà del 1936, si siano potute riunire liberamente ed
abbiano potuto discutere alla luce del giorno i problemi nazionali ha molto contribuito a rendere
possibile la resistenza al colpo militare e ha dato alle prime fasi della rivoluzione, che fu la risposta
popolare al colpo, un carattere democratico nel senso proprio della parola. Il congresso di
Saragozza aveva dato ai militanti di base una specie di coordinazione previa, che rese possibile, di
fronte all'improvviso spazio che s'apriva all'azione, un'opera ricostruttiva relativamente omogenea
che prese subito caratteri organici. D'altra parte, la tolleranza di cui la C.N.T. e la F.A.I.,
maggioritarie in Catalogna, dettero prova di fronte alle tendenze antifasciste è qualcosa di
assolutamente inedito nella storia delle rivoluzioni, anche se snaturato poi, come tutto il resto, dalla
guerra, che portò con sè il ricatto delle armi russe. La prova che la rivoluzione non significa
dittatura è stata fatta, e questo è già molto, perché segna una strada, e non solo a noi.
|