Rivista Anarchica Online
«Vivere con»: una proposta dalla Francia
di Giuseppe Gessa
La crisi dello stato assistenziale a livello internazionale è stata discussa in un'apposita commissione
al Reseau di alternativa alla psichiatria. Questo perché i tagli alle spese sociali si ripercuoteranno
senza dubbio sulla situazione della «malattia mentale» e della marginalità in generale. Il «welfare
state» è stato comunque messo sotto accusa da quasi tutti i partecipanti: sia da coloro che in questi
anni hanno dato vita a esperienze alternative alle istituzioni, ma anche da chi, come Psichiatria
Democratica in Italia, ha scelto la strada di partire dal manicomio per smantellarlo. Franco Rotelli, esponente storico di Psichiatria Democratica, ha così sintetizzato il suo punto di
vista: Lo Stato assistenziale in Europa ha fallito. Il suo tentativo di compromesso sociale si è
trasformato in assistenzialismo, burocratizzazione e controllo sociale. Rotelli ha poi rilevato che la
lotta dei movimenti di sinistra contro il controllo sociale sugli individui ne ha affrettato la crisi. La
destra - prosegue Rotelli - si è però impossessata di questa crisi tagliando le spese sociali e
attaccando in primo luogo le strutture alternative al manicomio. Coloro che stanno portando avanti
esperienze non legate alle strutture sanitarie pubbliche hanno però messo in guardia dai rischi che
una struttura pubblica decentrata possa riprodurre, in modo diffuso, gli stessi meccanismi di
controllo della devianza propri dei manicomi. Questi segnali di allarme sono venuti soprattutto dai paesi esteri, dove la struttura sanitaria
funziona in modo più capillare e razionale che nel nostro paese. In Francia, ad esempio, esiste
un'organizzatissima struttura psichiatrica nella scuola dell'obbligo. Un bambino che presenti delle
difficoltà di apprendimento o «disturbi del carattere», viene preso in cura dall'equipe psichiatrica
della scuola, che può decidere l'allontanamento dalla famiglia e l'istituzionalizzazione. Si tratta
comunque di una tendenza a restringere nello specifico psichiatrico la difficoltà sociale che sta
prendendo piede anche in Italia. E' importante ricordare che si tratta, nella stragrande maggioranza
dei casi, di bambini appartenenti a famiglie disagiate. Ma è Alain Topor, antipsichiatra svedese, a mettere a fuoco l'estrema pericolosità di una
capillarizzazione del controllo sanitario statale, soprattutto nell'ambito della salute mentale. Topor
spiega che in Svezia esistono 24.000 ricoverati negli istituti psichiatrici, 7.000 dei quali con
trattamento obbligatorio, su una popolazione di 8 milioni di abitanti. Qualche anno fa gli internati
erano 30.000, ma la diminuzione è solo apparente. A fronte dei 40.000 ricoveri del 1968, ci sono
infatti 112.000 ricoveri nel 1983. Il fatto, prosegue Alain Topor, è che sempre più spesso le persone
sono trattate con psicofarmaci in dosi che si diluiscono nel corpo e bastano per 14 giorni. Ogni
due settimane ritornano quindi negli ospedali per farsi reiniettare la dose. Lo stato svedese arriva
anche a finanziare i movimenti degli ex-psichiatrizzati, aprendo così, anche in un movimento
antagonista al potere psichiatrico, le possibilità di carriera: dalla burocrazia del movimento alla
burocrazia statale. La «liberazione» dal disagio psichico è realizzata dallo stato: Trenta assistenti
sociali per 30.000 abitanti e altre 200 mandate dall'assistenza a compiere i lavori domestici,
altrettante antenne, altrettanti informatori per il controllo sociale. Delle tecniche di controllo psy, che vanno diffondendosi anche tra i «normali», si è parlato in una
specifica commissione. Sono stati in molti a far notare come l'espropriazione da parte di psichiatria,
psicologia e psicanalisi (indicate appunto sinteticamente con il termine «psy»), delle conoscenze
sulla «psiche», e il loro monopolio su di essa, finiscano per procurare una «sanità infelice». Questo
perché inibiscono la possibilità di uno scambio terapeutico diffuso, di una solidarietà con la
sofferenza non monetizzata o professionistica.
L'esperienza dei «lieux de vie» Un contributo importante a questo problema è stato portato dai partecipanti francesi dei «lieux de
vie» (luoghi di vita), dove sono accolti fanciulli e adulti con varie difficoltà. Queste comunità si
basano sull'autosostentamento economico e l'autogestione quotidiana. Le rette che ricevono per le
persone che accolgono sono di gran lunga inferiori a quelle degli istituti e, in ogni caso, si basano
solo sui bisogni effettivi della comunità e non sulla gravità del disturbo della persona. L'approccio
alle persone è stato felicemente sintetizzato dai membri dei «lieux de vie» nella formula del «vivere
con», rigettando quindi ogni concetto del tipo «io lavoro per loro», «io li aiuto». Questo «vivere
con» significa creare un ambiente di vita non finalizzato ad alcuna normalizzazione, nel quale
esista invece la possibilità di vivere una esperienza di vita non irregimentata dalle sacre norme
dell'istituzione totale. I «lieux de vie» rifiutano comunque l'etichetta di isole felici. I contatti con la
famiglia e con l'ambiente di origine della persona che accolgono sono ricercati in continuazione:
uno degli obiettivi più importanti è quello di rispettare i desideri della persona in difficoltà,
elaborando le possibili soluzioni insieme ad essa, all'ambiente di origine e alla famiglia.
L'attenzione alla persona vista nella sua soggettività passa per il rifiuto di diventare un luogo dove
si concentrino i giovani con gli stessi problemi, il che equivarrebbe alla rinascita dell'istituzione
separata, e a considerare il giovane solo in base alla certificazione che la medicina fa della sua
diversità (folle, psicotico, schizofrenico, ecc.). Da rilevare inoltre il rifiuto a considerare come
persona malata chi viene identificato come «psicotico», ma vederla invece come una persona a
struttura mentale differente. Il governo francese sta sferrando un attacco contro i «lieux de vie» che non accettano di sottostare
alle disposizioni del ministero della sanità. Essi chiedono solo di essere riconosciuti come
associazione in base a una legge del 1901, senza nessuna interferenza dello stato nella loro
organizzazione. E' proprio questa vasta moltitudine di comunità autogestite, di organizzazioni di ex-psichiatrizzati,
di cooperative, che ha rappresentato il momento più vivace del convegno. Molte di loro sono anche
collegate con la struttura pubblica, ma sono comunque riuscite, grazie alla loro originalità, a non
trasformarsi in una pura appendice delle stesse. Si tratta di gruppi autogestiti che possono
rappresentare la terza via tra un potente sistema privato mercantile e un sistema pubblico in
difficoltà di spesa e con sempre presenti involuzioni autoritarie. All'interno di questi gruppi è
possibile praticare una reale socializzazione della sofferenza, ma anche della gioia, in opposizione
alla trasformazione delle forme di incontro e di socialità in mere tecniche della psiche, peraltro a
pagamento. Questo tipo di intervento terapeutico diffuso, è uno dei metodi più felici per superare quella
tendenza che riduce a nuda patologia il problema del disagio psichico, ma anche le persone con
lesioni cerebrali o strutture mentali diverse, dovute a cause genetiche, separando il tutto dal
radicamento sociale di un particolare concetto di norma, e dalla conseguente mancanza di spazi e di
occasione offerte alla diversità, sia fisica che psichica. Il superamento della tendenza a oggettivare
questa diversità, in una definizione patologica, implica la presa d'atto che anche da una persona
che, in base alla letteratura clinica e ai giudizi culturali correnti, è definita semplicisticamente come
sub-normale possano venire messaggi che contengono desideri, richiesta e offerta di affetto,
volontà di comunicare con un mondo che ha perso la capacità di rapportarsi agli altri senza l'ausilio
della comunicazione verbale. E' proprio dal pregiudizio culturale che nega la soggettività della diversità psichica, come capace di
rapportarsi agli altri, che derivano le classificazioni di tipo medico-poliziesco: pericoloso,
bisognoso di esclusivo affetto, sub-normale. Nascono così i luoghi dell'esclusione, i manicomi, i
cottolenghi, le scuole speciali, e tutti gli altri luoghi, sia pure riverniciati da una presunta modernità,
dove si attua la stigmatizzazione dell'anormalità e si instaura ancora una volta la risposta speciale
per problemi che andrebbero invece socializzati. Attraverso le lotte, condotte in Italia negli anni settanta, contro l'emarginazione dei portatori di
handicap, si era riusciti a fare abolire, sia pure solo nell'istruzione pubblica, ogni tipo di scuola
speciale e a garantire a tutti l'accesso alla scuola pubblica. Si cercava in tal modo di arrivare a una
possibile socializzazione dell'handicap, intesa come partecipazione di tutti ai problemi della
persona handicappata, nel pieno rispetto della sua diversità e soggettività. La conquista del diritto giuridico alla scuola di tutti, si è venuta però a scontrare con la persistenza
dell'atteggiamento pietistico, quando non apertamente razzista, della maggior parte del personale
insegnante.
Handicap e pregiudizio E' stata quindi negata, nella maggior parte dei casi, la propositività del portatore di handicap, il
diritto a mettere in discussione, con la sua presenza, le forme e i metodi di apprendimento. Si è
voluta istituzionalizzare la figura dell'insegnante di sostegno, che pure avrebbe dovuto avere solo
un compito complementare per la socializzazione del portatore di handicap, fino a relegarlo in
apposite aulette, con il portatore di handicap, per attuare un insegnamento separato, anche
fisicamente, dal resto della classe. Certo, ci sono stati anche molti casi dove le cose sono andate
meglio, ma non si può purtroppo affermare che ci troviamo in un momento positivo. Questa
situazione è stata anche riscontrata da molti partecipanti al Reseau che lottano da anni contro
l'emarginazione dei portatori di handicap. La formula di compromesso della «massima integrazione
possibile, minima emarginazione necessaria» - ha sostenuto uno dei partecipanti -, ha fatto sì che il
«necessario» tenda ad espandersi. Rimane infatti inalterato il concetto di «educazione speciale»
(con tutte le strutture emarginanti ad essa delegate), a discapito di un'ipotetica integrazione sociale,
di cui, nel nostro paese, è stato dimostrato il clamoroso fallimento. Questo non deve comunque fare retrocedere dalle conquiste ottenute, basi molto importanti da cui
partire, per una lotta di liberazione da ogni forma di emarginazione. Il diritto dei portatori di
handicap a frequentare la scuola pubblica, può e deve essere un elemento della lotta contro la
rinnovata selezione scolastica, di cui fanno le spese i bambini appartenenti agli strati più poveri
della popolazione. Il diritto dell'handicappato a intervenire, con le modalità di espressione che gli sono proprie, può
forse impedire alla tecnocrazia di impadronirsi dell'infanzia, attuando nuove discriminazioni e
sofferenze. Molti insegnanti di sostegno si vedono affidare anche bambini considerati «svogliati»,
«irrequieti» o incapaci. Il nostro modello sociale che, con la necessità di superare la crisi economica, getta sul lastrico
migliaia di persone, le emargina con l'accusa di «ignoranza tecnologica», sta infatti tentando di
razionalizzare anche questo campo. La proposta di riforma della legge 180 prevede infatti che si
riaprano sotto altro nome gli antichi manicomi, destinati questa volta ad ogni tipo di «lungo-degenza»: sofferenza psichica, anziani, handicappati. Ma nei confronti degli handicappati come tali
esiste perfino in parlamento una proposta di legge di alcuni deputati socialisti (n. 327, primo
firmatario Fiandrotti, 10.8.83), nella quale si propone l'istituzionalizzazione, senza alcun limite di
tempo, di certe categorie di handicappati, la cui eventuale dimissione è sottoposta al giudizio di una
commissione, che comprende magistrati dei TAR e comandanti di legione dei carabinieri. Ricordo
inoltre la purtroppo celebre sentenza della Cassazione del marzo 1981, in cui si affermava
spudoratamente che l'inserimento dei bambini handicappati nelle scuole comprometterebbe «il
buon funzionamento di un pubblico servizio». Prima facevo riferimento alle cause culturali, economiche e sociali che determinano i processi di
emarginazione della diversità. Questo rischia comunque di rimanere un luogo comune, se rimane
slegato dalla presa di consapevolezza che esistono, qui e ora, delle situazioni di disagio e
sofferenza davvero intollerabili. Bisogna realizzare in primo luogo una rete di occasioni concrete che si pongano in modo
alternativo alla segregazione o all'abbandono. Queste occasioni possono assumere la forma di
esperimenti alternativi alle istituzioni ma, dal momento che si tratta di una realtà in ogni caso
limitata, bisogna anche premere perché i servizi pubblici territoriali si facciano carico del problema.
Sta poi alle organizzazioni di base degli handicappati, e a tutti coloro che aspirano a un
cambiamento sociale, evitare che tutto ciò si traduca in un'opera di normalizzazione o di
istituzionalizzazione diffusa. Imparare a vivere tra individualità differenti, fisicamente o psichicamente, è un grande passo avanti
per la liberazione di tutti.
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