Rivista Anarchica Online
A muso duro
di Pino Bertelli
Il muso della classe operaia nel cinema americano degli anni '70/'80 si ritaglia in una corrente di
prodotti dolcificati, ignobili contraffazioni della realtà. Nel corso degli anni '70 si è sviluppato sugli schermi americani (e del mondo) un cinema di destra,
accattivante, perverso che accorpava gli spettatori in una filosofia del restauro, nell'urgenza di un
ordine duro a sentinella della catastrofe montante del capitalismo maturo. La guerra privata del cittadino Joe (Joe, 1970) di John G. Avildsen; Il braccio violento della legge
(The franch connection, 1970) di William Friedkin; La notte brava del soldato Jonathan (The
beguiled, 1971) di Don Siegel; Cane di paglia (Stra w dogs, 1971) di Sam Peckimpah; America
1929: sterminateli senza pietà (Boxcar Bertha, 1972) di Martin Scorsese; Il cacciatore (The deer
hunter, 1978) di Michael Cimino trasmettono i segni, gli umori politici della classe al potere. Il loro
linguaggio convenzionale è l'instaurazione di una psicologia di massa come strumento di
modellazione degli strati popolari. Se un tempo i film di HolIywood si confermavano un sano
spettacolo per famiglie timorate di Dio e dello Stato, negli anni '70 si sviluppano itinerari della
violenza quotidiana che si configurano tutti in chiave spettacolare eludendo cosi il problema vero,
endemico della società filistea. Il film di Scorsese, America 1929: sterminateli senza pietà sembra raccogliere le schegge di rivolta
sottratte dall'autobiografia dell'anarchica Bertha Thompson («Sister of the Road »), nella sostanza è
una tirata di capelli a quei giovani che credono di farsi giustizia con la lotta armata. Scorsese è abile
con la cinecamera, la muove molto, si avvale di un'ottima fotografia e imprime al film un ritmo
indiavolato attraverso il montaggio scorciato. Quello che resta negli occhi è solo una gradevole
storia d'amore tra due emarginati che sognano una semplice vita borghese. Vissuta senza padre, al fianco di una madre straordinaria che l'aveva cresciuta nella militanza delle
comunità anarchiche, Box-Car Bertha si era scagliata contro ogni puritanesimo piccolo-borghese e
trovava nel fondo di quegli accampamenti popolati di disoccupati, puttane, vagabondi, operai,
agitatori, banditi, elementi di fratemità e lotta per la vita. In mezzo a questa gente, dice - «ogni
notte si discuteva di sesso, scioperi e socialismo (...) quando Bertha decise di scoprire la cultura
della strada, di andare con la sorella Ena ovunque portasse il desiderio, la madre disse questo: 'Non
ho mai avuto una morale, né ve ne ho insegnata una (...) ricordatevi una cosa: il carattere di una
donna, il suo valore di fronte al mondo, e il suo amore per l'uomo non stanno nelle sue anche, ma
nel suo cuore e nella sua testa'» (1). Scorsese si guarda bene di raccontare questa esistenza, affonda nella rivolta patinata ed in fondo
assolve tutti, perfino i mercenari delle compagnie ferroviarie assoldati per sparare sui cenciosi
clandestini. Ma è Peckimpah a riassumere la filosofia americana dei giustizieri (non solo della notte) solitari. In
Cane di paglia come ne La guerra privata del cittadino Joe o Il braccio violento della legge o
ancora Il giustiziere della notte (Death wish, 1974) di Michael Winner sono individuati i valori
nascosti dell'uomo medio; colpito nel suo privato l'uomo comune mostra la belva che è in lui;
compra una pistola o un fucile, ammazza i ladri, i terroristi, i malfattori che hanno insidiato la sua
proprietà, sollecita la polizia alla eliminazione fisica dei cattivi soggetti: la chiesa, la fabbrica, la
famiglia lo ricompensano di tanta dedizione alla patria. Il cinema è sempre oltre la vita, seleziona,
modella, porge disegni di una realtà stabilita, mercanteggiata secondo le oscillazioni politiche del
momento. La disoccupazione crescente, l'evidenza di una criminalità politica sempre più legata alla
delinquenza comune affannano le inquietudini degli americani. Sul finire degli anni '70 i
disoccupati sono quasi 8 milioni su poco più di 90 milioni di lavoratori. Giornali autorevoli stimano
che alla fine degli anni '80 il numero dei disoccupati toccherà i 10 milioni. Intanto l'America è sparsa di sommosse, insurrezioni violente. La polizia reprime gli scioperi degli
edili a New York (1970), si scontra con i portuali della Costa Occidentale fermi da mesi (1972),
spara contro i minatori di Brookside, nella Harlan County (1973) (2). Non è un processo alle idee, è
l'esecuzione della fame proletaria nella morte del sociale. Il solito esperto dei mass-media non ha dubbi: «Questa è un'epoca in cui gli uomini non possono
aspirare alla grandezza. E' un'epoca di compromesso e di accomodamento, di reciproca dipendenza
e non di libertà. E' un'epoca in cui tutti gli uomini devono sperare in un uomo migliore e in cui
pochi governi, sufficientemente forti e capaci, devono farsi carico del compito di tenere l'ordine in
vasti settori del globo in modo che uomini e governi più deboli accettino l'ordine e rifuggano
dall'anarchia (...) Per ragioni di risorse, di tecnologia, di capacità manageriale, di fedeltà al
capitalismo, saranno gli Stati Uniti a farsene carico» (3). L'imbianchino del nazismo (Hitler) e il
maestro di Predappio (Mussolini) non si esprimevano diversamente. Ciò che vive sullo schermo si
ri/produce nella vita.
Virtù nazionali e guerre stellari Le virtù nazionali della società americana sono cantate in modo più vasto dai mitografi
dell'effimero; Francis Ford Coppola, George Lucas, Steven Spielberg hanno ampiamente
dimostrato che «ogni film viene fatto per divertire il pubblico; e ogni film, che ci riesca o meno,
rappresenta anche un veicolo di messaggi culturali» (4). Così Apocalypse now (1979) di Coppola;
Guerre stellari (Star wars, 1977) di Lucas; Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close encounters of
the third kind, 1977) di Spielberg divengono produttori di forme, cioè di linguaggi che giustificano
il cattivo gusto (il kitch) dei loro clienti; il consenso mondiale che questi film hanno ottenuto è
opera di una oculata operazione commerciale che dallo schermo si è travasata nei prodotti (abiti,
auto, profumi, giocattoli, fumetti, serials televisivi, ecc.) fatti circolare con lo stesso «marchio»
(titolo) dei film. Malgrado l'irreversibile emorragia di pubblico dalle sale americane - nel 1955 si
strappavano 2 miliardi e 100.000 biglietti, nel 1980 si è calcolato una perdita secca di l miliardo e
mezzo di presenze - è proprio negli anni '70 che si registrano i profitti più alti della storia del
cinema. E chi troviamo tra i campioni d'incasso? Ma Guerre stellari con 164.765.000 milioni di dollari; Lo
squalo (Jaws, 1975) di Steven Spielberg, secondo con 121.254.000 milioni di dollari; Il padrino
(The godfather, 1972) di Francis Ford Coppola, terzo con 86.275.000 milioni di dollari. Certo, queste confezioni sono di alto livello qualitativo. Buona fotografia, ambientazione colorita,
abuso di effetti speciali, recitazione amplificata secondo la tradizione hollywoodiana che vuole un
mulo di pietra come Humphrey Bogart una leggenda intramontabile di attoralità. Gli affari delle «Corporations» reggono bene. I prodotti sono imboniti di segnali in apparenza
demistificatori; la droga, il razzismo, il comunismo, la criminalità politica e quella comune, la follia
collettiva, i desideri di pulizia degli escrementi della società americana; lo schermo disegna i
sintomi della malattia mortale della civiltà tecnologica, del capitalismo avanzato semplicemente
come «Cancri sociali (di tipo benigno) che danno rilevanza a film a sfondo sociale e offrono cento
minuti ricchi di pretesti per i nostri eroi e anti-eroi per mostrare tutta la loro abilità di guardiani
della Legge, dell'Ordine e della Ragione - ironicamente con più violenza dei malvagi» (5). Apostoli autoritari della civiltà della copia, Coppola, Lucas, Spielberg aprono le loro opere agli
impulsi di destra; ripuliscono ghetti, amministrazioni comunali, uffici federali, banche, fabbriche
ecc., dai soggetti che hanno tradito o da quelli che rappresentano la smagliatura (anarchici,
comunisti, devianti, ecc.); quello che mettono sullo schermo è il superomismo depredato dai
fumetti e dai manuali della Guardia Nazionale. Chi è fuori dall'oggetto d'amore, cioè la società
americana, viene eliminato, cancellato dalla «giusta violenza». Gli incubi della guerra nucleare, il darsi risposte sulla propria esistenza delle giovani generazioni,
la perdita dilagante dei posti di lavoro hanno formato un esercito di proletari in attesa di accendere
la miccia dell'insurrezione, della rivolta, della lotta senza quartiere contro i bavagli della
democrazia autoritaria; dal cinema alla strada «il tratto divisorio è scomparso da quando è apparsa
chiara l'incapacità dell'impero americano di controllare i focolai di disastro accesi alla sua
periferia» (6) dai nuovi soggetti sociali. Uccisi gli angeli su due ruote in Easy rider (1969) di Dennis Hopper, gli spazi, le mitologie, le
finalità dei giovani americani si riversano nelle trame sindacali, nei sogni autoritari, nella nostalgia
e nei rituali di una scena morta, di un immaginario consumato. F.I.S. T. (1978) di Norman Jewison;
I nuovi centurioni (The new centurions, 1972) di Richard Fleischer; L'ultimo spettacolo (The last
picture, 1971) di Peter Bogdanovich bene solleticano queste aspirazioni. I segnali che circolano in questi film così diversi tra loro, per la differenza delle storie e la
sensibilità dei registi, si mostrano avere identiche confluenze. I percorsi sono quelli abituali della
pubblicità forzata, del falso in atto pubblico, cioè di sollecitare il graduale coinvolgimento delle
masse nell'agitazione di fantasmi politici che vogliono la morte del «grande paese», la liquidazione
della democrazia americana. E cioè, i «rossi», gli anarchici, gli agitatori, i terroristi. Nella rivisitazione di miti del passato, nel crollo imminente della «vecchia America» sono ripescati
i cascami di un universo fascista che si contrae (e si sviluppa) nei progetti autoritari proiettati sulla
tela da Clint Eastwood, ad es., Lo straniero senza nome (High Plains drifter, 1973) o L'uomo nel
mirino (The gauntlet, 1977), ed è il giovane Dick Richard a cogliere la lezione con diligenza e
dispensare un ordine morale appena uscito dal manuale di guerra dei marines e diffuso in tutto il
suo fare cinema: Fango, sudore e polvere da sparo (The Culpepper Cattle Company, 1972);
Marlowe: il poliziotto privato (Farewell, my lovely, 1975) La bandiera/marcia o muori (Ave/march
or die, 1977). Nel cinema «nuovo» americano «i meccanismi che ideologizzano la proposta sono gli stessi che
operano la cancellazione degli elementi di contraddizione: il nero è invisibile, l'indiano buono è
quello morto, l'operaio se è americano, tace e acconsente» (7); a consolazione delle platee c'è che i
soggetti devianti della società finiscono tutti ammazzati dalla polizia, giustiziati dalla pistola di un
onesto cittadino, uccisi dalla droga, dal whiskey, abbrutiti dalla miseria o rinchiusi nei
manicomi/modello; l'America reale, quella vera è - secondo questi film e anche l'opinione del
premio Pulitzer Michael Kammer lo conferma - un paese «felicemente ammalato», l'insieme
organizzato di «un promettente bene e di curabili mali». Il salario della paura (Sorcerer, 1977) di William Friedkin; Electra glide (Elecrta glide in blue,
1973) di James W. Guercio; Violenza ad una minorenne (Trackdown, 1976) di Richard T. Heffron;
Sugarland express (1974) di Steven Spielberg allargano il coro, contribuiscono a tracciare i
percorsi pianificati di una società addomesticata. Ci resta difficile vedere in apologeti della
catastrofe come Coppola, Scorsese, Bogdanovich o Altman quello che ci scorge Franco La Polla,
cioè i «veri autori» di un cinema del rinnovamento che diventa «coscienza della fine»;
l'iperrealismo onirico che disvela le contraddizioni del capitalismo nella macchina hollywoodiana.
Per La Polla «la realtà al secondo grado dell'iperrealismo è più vera del vero ed è la risposta al
grado inferiore di realtà che è il prodotto di ogni arte divenuta industria» (8). E' vero piuttosto il contrario. Proprio la dimensione favolistica del prodotto e l'esaltazione degli
ideali di onestà e fiducia nell'America di Nixon (poi in quella di Reagan), dipingono sullo schermo
i sogni infranti della lotta di classe, la resa incondizionata del proletariato ammutolito. F.I.S. T. ci
dimostra che il sindacato dei lavoratori baratta i diritti di sciopero con l'aumento dei salari
dell'8,5%; Altman organizza il materiale visivo secondo gli stilemi della televisione, parla il
linguaggio della copia, dell'indefinito, del reale filtrato attraverso gli indici di gradimento suggeriti
dai mezzi di comunicazione di massa. Cinema d'imitazione quello di Altman, non aspira altro che
stupire e distrarre i lettori proponendo segnali di imitazione di massa, un consumo delle idee che si
trasforma in «un universo chiuso nel quale uno schermo della TV garantisce l'altro schermo
chiudendo un cerchio che isola gli spettatori dalla percezione della realtà» (9). Il paternalismo e le
tinte forti della «missione americana» sul mondo, categorie fissate da Altman in Anche gli uccelli
uccidono (Brewster McCloud, 1970), Nashville (1975) o Una coppia perfetta (A perfect couple,
1979), combinano con sottile ironia l'inutilità della rivolta individuale e celebrano il liberalismo, lo
spirito di frontiera che fanno dell'America la democrazia imperialista più democratica del mondo.
Uno specchio della follia collettiva A lato dell'industria del conforto, negli anni '70 si sono fatti sotto alcuni lavori di notevole presa del
reale. I cospiratori (The Molly Maguires, 1970) di Martin Ritt, La terra si tinse di rosso (Lolly-Madonna XXX, 1972) di Richard C. Sarafian, Il rivoluzionario (The revolutionary, 1970) di Paul
Williams, Sfida senza paura (A great nation, 1971) di Paul Newman, Piccoli omicidi (Little
murders, 1971) di Alan Arkin o Blue collar (1977) di Paul Schrader riescono in qualche modo ad
infiltrare nell'organizzazione delle fiabe hollywoodiane momenti del quotidiano offeso. Lo schermo
è graffiato dalle inquietudini, le sbordature, le esplosioni di rabbia degli oppressi. L'individualismo di Paul Newman ci lascia non poco perplessi. Se da una parte viene denunciata
l'omertà sindacale e proposto lo scollamento da ogni tipo di mediazione tra lavoratori e grossisti; da
un'altra angolazione, più sottile, più razionale, Newman fabbrica un canto d'amore della
famiglia/clan americana che non vuole altra gente a mestare nella produzione/vendita del proprio
lavoro. Nel corso di uno sciopero generale la famiglia di Newman resterà sola a lavorare, a tagliare
gli alberi e a portarli lungo il fiume a destinazione. Morirà il padre e un fratello di Newman ma la
famiglia/clan non si piegherà a nessun'altra sovranità che la loro parola data. Il film è girato molto bene. La cinecamera di Newman si muove con sicurezza, il taglio degli attori
è insolito per il cinema americano; non sono rispettati i soliti elementi strutturali (Campo Totale,
Campo Medio, Piano Americano, Primo Piano, ecc.) ma è stato fatto molto uso del
Piano/Sequenza, una specie di carrellata mobile che riduce attori e ambiente. Di taglio
documentario la fotografia e, specie nella sequenza dell'affogamento del fratello di Newman (un
pezzo davvero altissimo), si dimostra di grande efficacia realista. Il pamphlet di Arkin è un film più povero, sconnesso, a tratti quasi brutale. Se Sfida senza paura di
Newman lascia aperti molti dubbi sulla posizione che prende contro il potere costituito, o almeno
sui perché che spingono una famiglia di piccoli proprietari di boschi a reagire col crumiraggio alle
im/posizioni dei sindacati (che volevano trattare con i grossisti su altri livelli salariali), Piccoli
omicidi scarica la sua violenza contro tutti e contro tutto, è uno specchio reale della follia collettiva
impressa nei ritmi di lavoro, nei rapporti famigliari, nelle relazioni sociali, ecc. dall'avanzamento
della civiltà tecnologica che condiziona l'esistenza generale. Il nichilismo surreale di Gould è sprezzante, gira per New York fotografando merde. Arkin (e lo
sceneggiatore di fumetti Jules Feiffer) dissacrano il rituale del matrimonio e ridono sulla
vedovanza. Tratteggiano l'aggressività della «maggioranza silenziosa» e l'arroganza e la violenza della borghesia industriosa; in chiusa del film Gould compra un fucile e spara dalla finestra sulla
strada, sulla faccia integrata di una città dove sono già avvenuti 345 omicidi per «legittima difesa».
Kezich avverte con giustezza l'impianto teatrale del film, ma la grandezza ironica dei dialoghi ci
portano al fondo di un umorismo tragico che, differentemente da Kezich (10) vediamo compiuto, di
una irriverenza totale, sprezzante del botteghino e così velenoso da infrangere i molti miti
dell'industria del «tempo libero». E' Martin Ritt a sfoderare i film più interessanti del proletariato americano. I cospiratori, Conrack
(1974) e Norman Rae (1979) insinuano il sorgere di nuovi bisogni, si oppongono a una qualità
dell'esistenza conformata ai significati corroboranti della società capitalista. Non è tanto indicare le
crepe della società dello spreco che interessa a Ritt, quanto evidenziare il sorgere di soggetti della
liberazione nelle classi subalterne. In Conrack come in Norman Rae si prende coscienza che un numero sempre maggiore degli
oppressi sta cominciando a ribellarsi, a lottare contro la rassegnazione, a vedere al di là
dell'educazione imposta; queste figure della soggezione liberata abbandonano il tempo della
speranza e s'incamminano alla conquista di un tempo reale. Si tratta di rompere con gli schemi delle
ideologie convenzionali e spingersi nell'inedito libertario che dichiara guerra alla società impazzita. Ed è con I cospiratori che Ritt approfondisce l'attacco alle istituzioni e agli strumenti di miseria
(macchine, miniere, fabbriche, negozi, ecc.) che rappresentano i luoghi di avvilimento
dell'individuo; corruzione e tolleranza si compenetrano nella conservazione del «buon ordine» -
«che diciamo noi anarchici (...) questo ordine è il caos, e perciò vi sono continue esplosioni» (11).
Così Paul Goodman. I cospiratori racconta la storia accaduta di una rivolta di minatori irlandesi tra il 1880 e il 1890 in
America. E' la cronaca asciutta di un momento di lotta tra Lavoro e Capitale. Ridotti alla fame,
mortificati nelle idee, derisi sulle richieste salariali, i minatori decidono di passare alla
disobbedienza con l'arma dello sciopero. Alcuni di loro alla trasgressione più acuta: al sabotaggio,
alla lotta armata. Ogni rivoluzione è una strada che passa sul petto dei padroni (parafrasando Paul
Brousse). Così i minatori si ribellano contro i padroni delle miniere, che sono anche i padroni della
banca, dell'emporio, del bordello del paese e di tutte le loro fantasie; si compiono alcuni atti di
sabotaggio alle macchine della miniera, si sfondano le porte dell'emporio e la merce viene
distribuita a tutto il paese. Ora tutti hanno qualcosa con cui scaldarsi nell'umido delle loro baracche. L'azione dei minatori è presto fermata. E' opera della delazione di un infiltrato di Pinkerton
(agenzia di protezione padronale e assoldamento di crumiri armati) a tessere la trappola dove
cadono i sabotatori. Tre dei maggiori esponenti dell'insurrezione saranno impiccati. Il film non ha sbavature né ambiguità. E' dalla parte dei minatori. Senza riserve. Ritt è cosciente che
i padroni delle miniere costituivano una minaccia costante, un tribunale perpetuo contro i minatori
che insorgevano per la conquista di un cambiamento qualitativo del quotidiano, iniziavano
l'«assalto al cielo» del Capitale, rivelavano la vera faccia del dominio - il terrore organizzato e
messo in Leggi -: «il limite della tirannia è costituito dalla resistenza degli oppressi» (Frederick
Douglas, un negro). I cospiratori parla di una sconfitta, di una battuta di arresto degli oppressi, al di là delle immagini e
delle parole indica che i sogni di un quotidiano liberato sono già qui, circolano tra noi, nella
costruzione del dissenso, nei momenti di rotture a catena dello Stato autoritario. Il salto dal cerchio
della soggezione al regno della libertà è nelle nostre teste. Si tratta di aprirci un varco nel cerchio.
1) Vedi: Tute e Technicolor / Operai e Cinema in America, a cura di Bruno Cartosio, pagg.
183/184, Feltrinelli 1980. 2) Sullo sciopero dei minatori di Brookside è stato fatto un documentario, Harlan County, Usa
(1976) di Barbara Kopple. L'autore di queste note lo ha recensito su A - Rivista Anarchica, n. 109
(aprile 1983). . 3) Vedi: Hollywood 1969/1979 - Cinema Cultura Società, pag. 41, Marsilio 1979. 4) Robert Sklar: Cinemamerica / Una Storia Sociale del Cinema Americano, pag. 359, Feltrinelli
1982. 5) Vedi: Hollywood 1969/1979, cit., pag. 139. 6) Callisto Cosulich: Hollywood Settanta / Il nuovo Volto del Cinema Americano, pag. 53,
Vallecchi 1978. 7) Vedi: Tute e Technicolor, cit., pag. 29. 8) Vedi: Hollywood 1969/1979, cit., pag. 122. 9) Vedi: Hollywood 1969/1979, cit., pag. 109. 10) Vedi: Il Millefilm, di Tullio Kezich, pag. 429, 2° V. Il Formichiere 1977. 11) In: Dialettica della Liberazione, di AA. VV., pag. 151, Einaudi 1978.
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