Rivista Anarchica Online
La vita è un romanzo
di Massimo La Torre
Gli americani lo hanno premiato con quattro Oscar. Forse perché lo hanno scambiato per una di quelle
loro sanguigne telestorie tipo Dallas, Dinasty o Falcon Crest. Parlo del film di Ingmar Bergman
Fanny & Alexander. Alexander e Fanny sono i figli di un attore, Oscar. Questi, e i suoi due fratelli, Karl e Gustav, sono a
loro volta i rampolli di una ricca famiglia di gente di teatro, gli Ekdal, governata con fiero cipiglio dalla
mamma-nonna, attorniata da bei tappeti e da uno stuolo di fantesche. Tutto (il tutto del film) comincia
in un Natale dei primi del secolo, il millenovecentosette mi pare. E' un Natale strano per l'opulenta
famiglia scandinava, la serenità della festa è qui e là incrinata da segni premonitori di un'infelicità che
incombe. Qualche mese dopo Oscar decede, lasciando orfani il piccolo Alexander e Fanny. Sola
rimane, ovviamente, anche la moglie, che lo piange con grida da partoriente. Lo piange sì, ma lo
dimentica presto. Il desiderio, o l'amore che dir si voglia, le si presenta sotto le spoglie assai austere
di un vescovo luterano. Il matrimonio è cosa fatta. E qui la storia si fa drammatica. Il prete, per quanto
svedese, pur sempre prete è, e puritano e severissimo. Il regime cui devono sottoporsi la moglie e i due
bimbi è rigido: stanze come celle, cene come digiuni, letti come tavolacci, e una compagnia (sorella,
madre e zia del vescovo) che sembra uscita da qualche infernale recesso del medioevo. I bambini sono
chiusi a chiave, piegati ad una disciplina da convento, spiati, battuti, catechizzati. Finché essi non
riusciranno a scappare, complice l'ebreo amante della nonna. Infine, si consuma una sorta di vendetta
soprannaturale: il vescovo torturatore della moglie e dei suoi figliastri arderà vivo di un fuoco che è
stato mosso dall'odio del ragazzo (Alexander) contro il suo implacabile patrigno. Ma cosa ci ha voluto dire Bergman, oltre a darci una descrizione deliziosa di una famiglia della
borghesia svedese del primo Novecento? La chiave di interpretazione ci è data dalla scena finale. La
vedova di Oscar e del vescovo, ed attrice anche lei, propone alla nonna capofamiglia di ritornare sulle
scene. L'opera da realizzare è un lavoro di Strindberg: Il sogno. La vecchia donna comincia a sfogliare
quel libro, ed a leggerne qualche riga. Queste suonano all'incirca così: «La realtà non esiste. Lo spazio
e il tempo non esistono. Tutto è possibile. Tutto è possibile alla fantasia. Le basta appoggiarsi su un
frammento di realtà, per imbastire le sue trame ed edificare splendidi e grandiosi edifici». La parola
fine giunge in questo preciso momento. Ma cosa vuol dire? Si è detto che il film è un apologo sulla storia della cultura occidentale dal
paganesimo primitivo fino al neopaganesimo consumistico dei giorni nostri. La prima parte del film,
centrata sul cenone della notte di Natale, piena di gioia di vivere e dominata dalle figure femminili,
rappresenterebbe lo stadio del paganesimo. Nella seconda parte del film, la vicenda cupa del vescovo
e del suo secondo matrimonio, rimanderebbe alla morale del peccato e della mortificazione dei sensi
tipica del cristianesimo. All'autoritarismo e al puritanesimo cristiano, ed alla sua visione strumentale
della vita (come passaggio obbligato per l'aldilà), il regista svedese opporrebbe la figura dell'ebreo e
del suo nipote androgino, che evocano un mondo popolato da forze segrete, e irriducibile alla logica
condizionale di una legge (se A, dunque B). Infine, dopo la terribile parentesi puritana, è per Fanny e
Alexander il ritorno alla casa della nonna, ai riti pagani e sensuali del matriarcato. Questa nuova
serenità non sarà, però, mai più l'innocenza originaria: il fantasma del vescovo non può essere
completamente esorcizzato. Un po' come questa nostra civiltà di oggi, che si vuole «liberata» e su cui
tuttavia incombe l'angoscia del peccato e, per converso, la frenesia di attingere il proibito. Ma può individuarsi in Fanny & Alexander una tematica di carattere più generale. Vi è nel film un
continuo riferimento al «fantastico», soprattutto a partire dalla morte di Oscar, il padre dei due bimbi.
Questi non si decide ad abbandonare il mondo dei vivi e si aggira nel campo visivo dei suoi cari, in
particolare di Alexander. D'altra parte «fantastica», magica è la fuga dei bambini dal tetro castello del
vescovo. Magica la sua morte atroce. L'ebreo, artefice di quella fuga, è convinto che il mondo è in
verità una serie di universi popolati da esseri differenti, di cui gli uomini non sono che una
componente. Dietro ogni cosa, ogni fiore, ogni sasso, vi è una vita, uno spirito, un'anima. Tutto
«respira». La dimensione fantastica (l'esercizio della fantasia) è repressa in Alexander dalla vigilanza censoria
dell'ecclesiastico. Alexander si era inventato una storia con i suoi compagni di scuola: sua madre lo
avrebbe venduto a una tribù di gitani. Per questo viene richiamato dal vescovo, che gli ricorda il valore
etico della verità. La fantasia è cosa da artisti; va bene per l'arte, attività notoriamente immorale. La
vita pratica, la vita normale, deve presto liberarsene. E poiché Alexander non se ne libera, e continua
a «raccontare storie», sarà per questo processato, condannato, battuto, costretto a baciare la mano al
suo «confessore» ed «educatore». Poi, rinchiuso in soffitta. Un film sul fantastico, sull'«immaginario» dunque, come risulta in maniera esplicita dalla citazione
conclusiva di Strindberg. Un film sul valore della fantasia per la vita dell'uomo. E sulla repressione di
tale parte intima dell'uomo, comune a culture ed ideologie che per altri versi si fronteggiano. E' grosso
modo il tema affrontato anche dall'ultimo film di Alain Resnais La vita è un romanzo. Anche per
Bergman la vita è un romanzo, dominio della fantasia, luogo dell'impossibile. Tutto ciò ha a che fare con la politica. Di ciò è indizio il fatto che il riferimento al fantastico è in
Bergman, come più apertamente nel film di Resnais, legato alla vita del bambino e alla sua
«educazione». E cosa vi è di più politico dell'educazione? Il fantasticare è manifestazione tipica dell'infanzia. Da ciò si è tratta sovente l'idea che sia una forma
di attività mentale immatura, della mente non ancora giunta alla razionalità di chi racchiude la realtà
entro la cornice dei fatti materiali e della dimensione spazio-temporale. Ma se invece il fantasticare
fosse l'attività tipica dell'essere uomini, il suo modo primitivo e spontaneo di esprimersi? Se la fantasia
cioè fosse in un certo qual modo l'elemento costitutivo della libertà umana, talché essa dovesse essere
repressa al fine di consentire lo stabilirsi di condizioni sociali che libere non sono? Tanto più oggi,
quando, dopo che con la rivoluzione liberal-democratica la società è divenuta affare dei consociati, ed
ha perso il suo mistero (la sua capacità), è possibile pensare di costruire la società come si vuole, e
quindi è possibile pensare ad una società come si vuole, e quindi è possibile pensare ad una società
razionale. In questo senso il pensiero democratico e quello socialista, l'uno con la teoria della sovranità
popolare (dove la socialità è tutta voluta), l'altro con l'utopia (dove la socialità è tutta razionale), hanno
svolto un ruolo fondamentale; nel senso cioè di concepire la socialità e la vita dell'uomo come oggetti
da plasmare, da dirigere, da razionalizzare. Così la politica e il diritto da attività etiche per eccellenza
si trasformano in tecniche di condizionamento sociale. Si parla di ingegneria sociale, come se la società
fosse un ponte, ed avesse la stessa consistenza del mattone o, ad essere più moderni, della vetroresina. Ma la società non è un mucchietto di mattoni che puoi sistemare come vuoi, entro le leggi della
meccanica s'intende. Parimenti non è manipolabile la vita degli uomini, ma nemmeno, alla fin dei conti,
la vita degli animali, delle piante, la vita tout court, come dimostra il disastro ecologico del nostro
tempo. Questa vita ha un'«anima», costituisce una dimensione globale, il cui equilibrio è precario,
«miracoloso». Qui, attenzione, non si vuole sostenere una tesi animistica (per cui dietro ogni cosa vi
è uno spirito vivente), e tantomeno una tesi metafisica di qualche tipo, o religiosa. Qui si vuol dire -
ed è, credo, il discorso di Bergman - che la vita non può essere trattata come una cosa. O meglio che
anche una cosa non può essere trattata così come le cose sono trattate all'interno del sistema culturale
industrialistico e capitalistico. Il non può non denota qui un'affermazione di tipo etico, e quindi un non
deve, non un enunciato prescrittivo, bensì un enunciato descrittivo. Non può, perché non è possibile,
e non già perché non è giusto. Ovvero si può pensare di trattare un uomo come una cosa (o come si
tratta la cosa in questo nostro ambito culturale dominato dalla produzione industriale e dal concetto di
profitto). Lo si può, cioè lo si può tentare, ma l'effetto sarà contrario a quello voluto o non sarà quello
voluto. Il ragazzo (Alexander) può essere costretto a baciare la mano al vescovo, e a dire la «verità», ma l'odio
nasce in lui, e l'odio è una forza potentissima, un fatto seppure non materiale. Talmente reale, talmente
fatto è l'odio che esso uccide. Così, la società può essere trattata come una gabbia di topi bianchi, ma
essa resiste, quasi sempre inconsapevolmente, qualche volta consapevolmente, secon do la sua natura,
e non sempre positivamente. Potrà essere anche l'autodistruzione di un tessuto sociale. L'eroina, le sette
mistiche, il fanatismo sportivo o politico: l'elemento fantastico da normale e fisiologico, se represso,
si farà patologico, anormale, agente cancerogeno dei tessuti sociali. Si potrebbe obiettare che accentuando il ruolo della dimensione fantastica, ritenendo che la realtà è
«immaginario», non si fa che riproporre la concezione del mondo pre-illuministica, che immergeva
ogni aspetto della vita sociale e personale in un mare di miti, di riti, di superstizioni. Non pullulano
ancora oggi le nostre città di maghi, cartomanti, veggenti, guaritori, santi e imbroglioni consimili (tra
cui una schiera di psicoterapisti e psicanalisti)? Parlare di fantastico non contribuisce a mantenere o
restaurare l'ignoranza e il terrore che per secoli rendevano attonito il popolino dinanzi ad una
guarigione, ad un plenilunio, ad una mestruazione? No; se per fantastico si intende un modo, ed uno
tra tanti, di essere della realtà: non il solo modo di manifestarsi di questa. No ancora; se il fantastico
viene visto come un elemento della realtà tipicamente umana, cioè della cultura dell'uomo, che si
sviluppa, senza negarle, sulle altre sfere (fisica, biologica, animale) della realtà. Ciò vuol dire che all'ippogrifo non si dedicherà una gabbia allo zoo, in primo luogo perché, per quanto
si faccia, non lo si potrà catturare, ma soprattutto perché si sa che esso è solo un parto
dell'immaginazione. Ma non si dirà, d'altra parte, che l'ippogrifo «non esiste», e che quindi tale
concetto deve essere abbandonato. Né si picchierà un ragazzino perché afferma di cavalcarlo ogni
mattina per andare a far merenda sulla luna. L'ippogrifo sta lì a segnalarci che per l'uomo tutto è
possibile, tutto può avere senso, perché nell'ambito della sua vita, dei suoi sentimenti, delle sue idee,
e quindi dei suoi comportamenti è lui il creatore, l'artefice. Parafrasando l'operaio che Carlo Cafiero
cita nell'epigrafe al suo Compendio del Capitale, «chi tutto può creare tutto può immaginarsi perché
tutto può ricreare». Oggi ci si dice che non è vero che ci si può immaginare tutto. O meglio, poiché si continua ad
immaginarsi di tutto (e ad agire di conseguenza), che ciò non ha senso, e spingersi più in là solo di un
passo che ciò è immorale. Su questo punto concordano le due visioni del mondo che sembrerebbero
doversi costantemente dilaniare a vicenda: la metafisica religiosa e il realismo comportamentistico e
funzionalistico. Entrambe pensano l'essere come determinato o determinabile un volta per tutte. Nell'un
caso è dio che dà forma e origine a tutte le cose, principio primo e inalterabile. Nell'altro sono le leggi
dell'universo che sono ferree, causalmente date. In entrambi i casi l'uomo è una palla di bigliardo
lanciata da una stecca mossa da un ente infallibile. La vita, per gli uni e per gli altri, per i preti come
per gli scientisti (marxisti compresi), non è che un tabulato. Ciò non è vero. Perché, se fosse vero che la società è causalmente data, come si spiegherebbe la storia
e il fatto che a cause costanti si diano degli effetti differenti? La fame è sempre la stessa, eppure
abbiamo il pudding britannico, la ghiotta di pescestocco alla messinese, il kebap turco. Il freddo è
sempre lo stesso, eppure abbiamo il peplo ellenico, il kilt scozzese, i pantaloni alla zuava. Ed allora? Ed allora la vita è, invece, un romanzo - come dice Alain Resnais. E come ci dice Bergman. E'
significativo che questa rivendicazione del lato fantastico della realtà umana provenga da un artista
svedese, da un intellettuale vissuto cioè in uno dei climi culturali più intrisi di realismo (si pensi alla
scuola di Uppsala di Axel Hagerstrom). Eppure, è proprio nei paesi nordici più viva la tradizione
spirituale e animistica le cui radici affondano nelle saghe germaniche e normanne pullulanti di streghe,
draghi, folletti, principi azzurri e fanciulle eternamente addormentate. La vita è un romanzo, graziaddio, per due motivi essenziali. Primo: perché la vita è intessuta di
relazioni casuali e non causali, retta dal caso e non dalla causa, per la quale, si badi, si porrebbe il
problema della «causa prima», e quindi dio, «motore immobile». Secondo: perché l'uomo la propria
vita se la costruisce lui. Se la costruisce come vuole. Anche quando si «buca», o si trascina giorno dopo
giorno tra ufficio/fabbrica, casa/letto e televisione/vacanza. Anche quando sono gli altri che la
costruiscono per lui. La posta in gioco è tutta qui: sapere o non sapere che la propria vita è invenzione.
Ovvero esercitare consapevolmente e liberamente la propria fantasia, e quindi pensarsi come soggetto,
soggetto autonomo che si dà i propri fini, o piuttosto reprimerla, e cioè ancora costruirsi un
immaginario in cui ci si rappresenta come oggetto, soggetto eteronomo, mosso da altri per fini che gli
sono estranei e intangibili.
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