Rivista Anarchica Online
Tra il dire e il fare
di Maria Teresa Romiti
Esistono dei temi che sembrano essere obbligatori, quasi che si voglia pagare un debito da troppo
tempo contratto. E' forse per questo che anche il convegno «1984» ha avuto la sua tavola rotonda
su «Anarchismo e femminismo». Una tavola rotonda che al di là del successo (sia per la
partecipazione al dibattito che per le persone presenti) risulta difficile da sintetizzare. Perché i
pensieri hanno bisogno di tempo per decantarsi, per poter emergere in un discorso chiaro e coerente
e soprattutto perché il problema principale delle tavole rotonde è sempre lo stesso: i problemi sul
tappeto sono sempre tanti e il dibattito si perde in mille canali (in fondo però eravamo a Venezia). Eppure era iniziata bene, le relazioni abbastanza omogenee, superando quasi tutte (ma dopotutto
parlavano compagne anarchiche) il problema del separatismo, dell'arroccamento su posizioni
puramente femministe. Unica eccezione è stata Barbara Koester che, dopo aver illustrato la storia
del movimento populista russo, ha sostenuto che anche nel movimento anarchico una donna per
emergere, per diventare «leader», deve rinunciare alla propria femminilità, al proprio essere donna,
facendo l'esempio (a dire il vero ben poco felice) di Emma Goldman. Le altre relazioni hanno invece fatto notare che il problema del separatismo può considerarsi
superato. Tutti gli interventi sono infatti partiti dall'affermazione che il lavoro comune tra uomini e
donne è la prima necessità per riuscire a cambiare veramente se stessi e gli altri. Può anche
sembrare un'ovvietà, ma bisogna riconoscere che non è certo un problema superato al di fuori del
movimento anarchico, e in qualche caso nemmeno all'interno. Il separatismo sembra essere ancora per molte donne una carta vincente. Anche se in realtà è solo
un cane che si morde la coda, e il rinchiudersi ancora una volta dietro i muri di protezione (anche
se, come sostiene Ursula Le Guin, bisognerebbe sempre tenere presente che lo stesso muro che
impedisce agli altri di entrare contemporaneamente ti chiude dentro). E' vero, è molto più difficile
lavorare insieme non accettando supinamente richieste e ruoli preconfezionati in un
confronto/scontro continuo. Sul problema che nasce da questa ricerca in comune si è soffermata la
bella relazione di Arianne Gransac (pubblicata sullo scorso numero della rivista): le donne devono
imparare a rifiutare il vittimismo che spesso ha imperato. E' ben poco funzionale scaricare la colpa
sugli altri protestando il proprio ruolo sottomesso. Ci si libera in prima persona dei propri
condizionamenti. E inoltre è fin troppo ovvio che se qualcuno domina è perché qualcun altro si
lascia dominare. E' vero che nella nostra società la struttura gerarchica penetra ovunque piegando
anche i nostri pensieri; è vero che il cambiamento è difficile quando si riproduce, almeno
inconsciamente, gli stessi meccanismi. Ma proprio per questo è importante rendersi conto delle
difficoltà, aprire gli occhi, smettere di essere sempre soggetti passivi. Sempre partendo dal lavoro comune si è trovato un altro problema scottante: teoria e pratica sono
raramente concordi. Un nodo che la tavola rotonda non ha potuto certamente risolvere, anzi non è
nemmeno riuscita ad affrontare. Posti di fronte al problema centrale della coerenza, cioè al fatto
(troppo accertato per poter essere contestato) di essere anarchici nel politico e spesso, troppo
spesso, ben poco anarchici nelle proprie sfere domestiche, nei propri rapporti interpersonali, uomini
e donne hanno elegantemente glissato senza un minimo beh. A nulla sono valsi i ripetuti interventi della stessa Gransac che si chiedeva se le donne anarchiche
siano più o meno anarchiche a casa loro, di Rosanna Ambrogetti che ha accusato senza mezzi
termini il movimento anarchico, uomini e donne, di non sapere mettere in pratica le proprie teorie,
e di altre compagne che, partendo dalla propria esperienza personale, avrebbero dovuto stimolare
almeno alcuni dei presenti visto che mettevamo in causa la realtà odierna del movimento. Niente. Silenzio. Nemmeno il tentativo di una difesa o il sorgere appassionato per negare, per
dimostrare che la realtà è diversa. Era forse pretendere troppo. Dopotutto è molto più facile
limitarsi a parlare, magari anche di fumo, assentire con gravità alle accuse se poi, una volta fuori,
niente cambierà. E' questo della cesura tra teoria e pratica quotidiana, tra costruzione intellettuale e rapporti
interpersonali, un problema non da poco. Perché è proprio attraverso i comportamenti quotidiani, i
rapporti tra noi e con gli altri che trasmettiamo l'immagine del movimento, che dimostriamo la
possibilità di credere praticamente alle teorizzazioni. Parole, solo parole. Anche queste destinate a
cadere nel vuoto... Forse i meccanismi sono troppo difficili da individuare o combattere. Forse è
l'introspezione, il lungo cammino dell'io dentro di sé che fa troppo male. Meglio, molto meglio limitarsi a sognarlo solo il nuovo mondo, viverlo potrebbe essere troppo
difficile anche per noi.
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