Rivista Anarchica Online
L'anarchia possibile
di David Koven
Riconsiderando le mie idee anarchiche alla luce dei numerosi cambiamenti che sono avvenuti nella
società da quando per la prima volta ho preso coscienza del pensiero anarchico e la realtà di oggi,
riconosco che ci sono aspetti dell'anarchia che rimangono saldi in me quanto allora, se non di più:
l'analisi anarchica del ruolo dello Stato e l'accento su una mutua collaborazione come mezzo per
ottenere una società più libera, per esempio. Inoltre, il pensiero e gli scritti di uomini come
Kropotkin, Randolph Bourne, e uomini della mia epoca come Colin Ward, Paul Goodman,
Bartelemy Delight, Wilhelm Reich e Gandhi, esercitano ancora un'enorme influenza sul mio
pensiero. Colin Ward continua a richiamare il nostro pensiero all'applicazione pratica delle nostre idee
all'interno della struttura del nostro contesto sociale reale. Paul Goodman ha sempre insistito nel
dire che l'anarchia non è un concetto utopico, ma deve essere integrata nella nostra vita come un
processo dinamico. Wilhelm Reich ha insisitito sulla necessità di affermare l'importanza della
nostra sessualità e sugli effetti negativi della repressione. Bartelemy Delight, anarchico olandese,
non ha mai smesso di esortarci a trovare la via per una azione diretta nonviolenta per rafforzare la
nostra visione anarchica. E naturalmente la meravigliosa inventiva di Gandhì di ispirare l'azione
diretta nonviolenta che alla fine fu la vera forza che cacciò il governo inglese dall'India. Tutte queste idee, per me, sono importanti oggi come quando le scoprii per la prima volta, se non di
più. Questi concetti e queste influenze naturalmente coincidevano con la concezione della società
come una struttura che si autogoverna: una società di individui che si aiutano, che si rispettano, che
scelgono liberamente di collaborare per risolvere, pacificamente, i complessi problemi che abbiamo
di fronte. In breve, il modello incredibilmente bello, semplice ed eminentemente pratico di una
società che noi identifichiamo con quella anarchica. A causa della crescita dello statalismo e della minaccia alla sopravvivenza del genere umano che
questo rappresenta, è anche più urgente creare una consapevolezza delle nostre idee. Dobbiamo
trovare il modo di convincere la maggioranza dei popoli del mondo a lavorare insieme a noi per
costruire una società più giusta e vitale. Noi dobbiamo incoraggiare la resistenza all'incremento di
statisti portatori di morte. Io sono convinto che per fare questo, dobbiamo cominciare riesaminando e rivalutando alcune delle
nostre premesse di base, specialmente nell'area della tattica. Un riesame che deve farci mettere in
discussione il nostro passato storico e anche il ruolo che ricopre l'anarchia nella vita di ciascuno di
noi. Non dobbiamo risparmiare né «i padri dell'anarchia», né noi stessi.
Riflettendo sul passato Di tutti i miti che sopravvivono del nostro passato, la convinzione che le istituzioni esistenti si
possono cambiare con una rivoluzione violenta è stata forse una delle più dannose e frenanti per il
movimento. Questo concetto, radicato com'era nell'ottimismo e nel fervore rivoluzionario del 19°
secolo; la convinzione che la rivoluzione era imminente; che le contraddizioni interne al
capitalismo erano le immediate premesse al suo crollo; e forse la convinzione più illusoria di tutte,
che le masse, dalle «ceneri della vecchia società» avrebbero edificato un futuro luminoso, brillante
e libertario, ora sembra amaro e vuoto. Ahimé, il grido di battaglia del 19° secolo, «Alle
barricate!», sembra aver condotto solo al consolidarsi di società totalitarie ancora più grandi. Quand'ero giovane, penso che il concetto anarchico che trovavo più affascinante fosse l'idea,
radicata nell'etica anarchica, che i «mezzi che usiamo devono essere sempre proporzionati ai fini
che vogliamo raggiungere». Se accettiamo quest'idea come antitetica al motto marxista/capitalista
«il fine giustifica i mezzi», dobbiamo riesaminare il concetto di rivoluzione violenta come tattica
vitale per la realizzazione dell'anarchia. Oggi, con la conoscenza della storia che abbiamo ora, e la nostra consapevolezza del fallimento di
tutti i tentativi rivoluzionari che sono stati fatti, le rivoluzioni fallite sia a destra che a sinistra,
dobbiamo concludere che in nessun caso la violenza ha portato ad una società libertaria. Dobbiamo
smettere di pagare il prezzo del rovesciamento violento delle istituzioni esistenti e indirizzarci
verso l'ideazione di una tattica nonviolenta di azione diretta che rifletterà più direttamente la nostra
visione globale di come la società può essere organizzata. Nel tentativo di capire perché l'anarchia non ha prosperato durante il 20° secolo, sono giunto a
pensare che la tendenza delle speranze anarchiche ad accentrarsi attorno al concetto di
«Rivoluzione», un concetto ereditato dal 19° secolo, ha finito col creare una spaccatura nella vita
degli anarchici che ci hanno preceduto. A causa della loro preoccupazione per l'«Idea», sono stati
incapaci di rivolgere la loro attenzione alla realtà più prossima e così, per la maggior parte, sono
scivolati dentro strutture famigliari autoritarie e tendenze sessiste che erano quasi completamente in
contraddizione con la visione dell'anarchia che avevano. Non sorprende quindi constatare che tutto
questo ha portato ad una quasi completa assenza, nel movimento anarchico, dei figli degli
anarchici. Naturalmente ci sono alcune eccezioni, ma non fanno altro che evidenziare ulteriormente
l'assenza di tutti gli altri figli di famiglie anarchiche. Purtroppo i minatori, i marinai e i tessili che ho incontrato quando per la prima volta sono entrato
in contatto con il movimento anarchico, non pensavano che una vita di azione e di lotta anarchica,
una vita come la loro, sarebbe andata bene per i loro figli. Come la maggior parte degli immigrati,
volevano che i loro figli «avessero successo», diventassero medici, avvocati, insegnanti,
professionisti e artisti: cosa che per la maggior parte fecero. Nel migliore dei casi questi figli
divennero «liberals» e scomparvero nel sistema delle istituzioni esistenti. Inoltre, con qualche
sporadica eccezione, la maggior parte degli anarchici che conobbi a quel tempo era anche sessista,
come del resto lo era stata la maggior parte dei fondatori del nostro movimento. Tranne il caso di
poche radical, alle donne non era riconosciuta una posizione paritaria nei gruppi anarchici: proprio
come nel resto della società, erano relegate ai ruoli di casalinghe e di madri. Ricordo di aver assistito ad un incontro in California molti anni fa: un dibattito sulle idee
anarchiche a cui partecipavano un gran numero di famiglie anarchiche e di compagni. Audrey
Goodfriend fu una delle uniche due donne che prese la parola durante il dibattito. Il resto si spostò
nella cucina, a preparare il rinfresco che ci sarebbe stato alla fine dell'incontro. Quando mi sistemai
ai piedi di Audrey ci fu una certa agitazione fra i compagni più anziani. Quel mio atteggiamento
provocò non poche alzate di sopracciglia e risolini. Nessuno di loro si sarebbe abbassato a sedersi
ai piedi di una donna durante un pubblico dibattito: avrbbe offeso la loro dignità. Non mi si
fraintenda, questi erano compagni validi e impegnati che avevano sofferto molto per la loro
devozione alla causa anarchica. Avevano pagato nelle miniere e nelle fabbriche il prezzo per
sostenere i loro ideali anarchici, nonostante le loro precarie posizioni di stranieri ed immigrati. Li
amavo moltissimo e li rispettavo, ma avrei voluto che riuscissero a riconoscere con maggiore
sincerità la dicotomia, nella loro vita, tra le idee che sostenevano e la loro condotta nelle relazioni
sociali.
Il compromesso inevitabile Sono convinto che la necessità più urgente che ci troviamo ad affrontare in qualità di anarchici
oggi, è quella di inventare orientamenti e azioni che riflettano la gioia e la speranza derivanti dalle
nostre idee anarchiche, più che il pessimismo e lo sconforto. Dobbiamo inventare azioni che siano
belle e pratiche. La nostra valutazione critica del ruolo dello Stato deve concretizzarsi come
risposta alle persone capaci di entusiasmarsi e di aprire nuovi orizzonti basati sulle realtà della loro
vita. Paul Goodman, nel suo articolo «Riflessioni sulla linea da tracciare», scritto nel 1945, lo dice in
maniera sintetica. «Libera azione significa vivere nella società attuale come se fosse una società
naturale... il libertario è un millenario più che un utopista. Non vive proiettato in un futuro stato di
cose che cerca di realizzare con mezzi inattendibili, ma fa uso, per quanto gli è possibile, della
forza naturale, che è la stessa che ci sarà in una società libera, con la differenza che allora avrà più
valore e sarà immensamente più forte grazie alla lotta comune. Semplicemente continuando a
esistere e agire in natura e libertà, i libertari ottengono la vittoria e costruiscono la società; non è
necessario che siano vincitori su nessuno». Noi anarchici abbiamo sempre avuto la nostra parte di puristi e puritani che si sono sempre
affrettati a puntare il dito accusatore su di noi, poveri mortali che, ahimé, per esistere, abbiamo
dovuto anche scendere a compromessi e adattarci al sistema capitalistico. Tra di noi, non tutti sono
stati così fortunati o intelligenti da scoprire come fare a sopravvivere senza scendere a
compromessi. Forse, se uno scegliesse di non fare figli, o di non creare delle relazioni con altre
persone, riuscirebbe a ridurre i compromessi al minimo. Ma vivere senza compromessi in questa
società vuol dire vivere nel vuoto. Per la maggior parte di noi il compromesso è stato e continua ad essere una condizione di vita. Io
penso che il problema non sia tanto di come vivere senza compromessi, ma piuttosto di come
fissare dei limiti ragionevoli alle concessioni che dobbiamo fare. Faccio l'esempio della mia stessa vita: sono cresciuto in un quartiere poverissimo di New York.
Come la maggior parte dei bambini di quel ghetto ebreo, fin dall'inizio ebbi la consapevolezza del
fatto che mi si prospettava una vita di fatica senza fine. Fu solo dopo che ebbi raggiunto una certa
sensibilità politica che fui in grado di sviluppare un valido tipo di approccio alla necessità di
vendere la mia fatica sul mercato libero. Per fortuna mi piaceva lavorare e per di più trovai un lavoro che mi dava grandi soddisfazioni.
L'idea di trovare piacevole il lavoro in un sistema capitalistico può suonare come un'eresia per
alcuni compagni, ma, quando Wilhelm Reich dichiarò che: «L'Amore, il Lavoro e la Conoscenza
sono le basi della vita umana e dovrebbero essere intrapresi con passione e coinvolgimento... », io
mi trovai totalmente d'accordo con lui. Scoprii che se uno diventava davvero esperto nel suo
lavoro, si poteva permettere il lusso di una grande indipendenza. I padroni hanno bisogno di te, più
di quanto tu non abbia bisogno di loro. E mi accorsi che fare un bel lavoro era una soddisfazione di
per sé. Permetteva anche di camminare a testa alta. Inoltre, riscontrai nel mio campo (industria di
materiale di costruzione) che essere un buon operaio aveva l'ulteriore vantaggio di garantire il
rispetto dei colleghi e li rendeva più disponibili all'ascolto delle mie opinioni su argomenti estranei
al lavoro. Per esempio, durante la guerra in Vietnam, quando salii sul palco della sede locale del
sindacato e li sollecitai ad approvare una risoluzione di condanna all'intervento americano, mentre
la maggior parte dei membri era ultra-conservatrice e patriottica e si mise ad attaccarmi gridando «a
morte lo sporco rosso», fui difeso da un gruppo di giovani compagni di lavoro che, sebbene non
condividessero le mie idee, mi rispettavano ed intervennero per impedire che gli altri mi facessero
del male. Successivamente fui contento di trovare qualcuno di quei giovani in una dimostrazione
contro la guerra in Vietnam. Certo, secondo una visione rigorosa, mi stavo compromettendo
producendo denaro per le compagnie per cui lavoravo. Ma presto imparai a stabilire dei limiti precisi ai lavori che avrei accettato. Persi diversi posti
perché mi rifiutavo di lavorare per qualsiasi azienda che fosse coinvolta in forniture militari o cose
del genere. Per esempio, lasciai una ditta quando scoprii che si trattava di costruire un carcere. Ma
la realtà della mia vita, convinto come sono che siamo ben lontani da una società libera - io
perlomeno certamente non riuscirò a vederla - la mia decisione di avere figli non mi ha lasciato
alcun dubbio sulla necessità o meno di lavorare. E mi ha anche costretto a mitigare questa realtà
scegliendo un lavoro che fosse socialmente utile e non anti-umano. Il compromesso è inevitabile,
ma se teniamo presenti le nostre umane inclinazioni e la nostra visione radicale, possiamo ridurre
questo compromesso al minimo.
Compagni non disperate! Per quanto riguarda il futuro dell'anarchia, ritengo che la cosa più importante per noi sia quella di
sostituire il nostro atteggiamento critico e negativo nei confronti delle istituzioni esistenti con una
sperimentazione positiva di nuove direttive e azioni. Forse non è una novità, visto che il vecchio
adagio dice: «Niente di nuovo sotto il sole», ma rinnovare il nostro entusiasmo, indirizzandolo
verso posizioni che sono umanistiche, coraggiose e sperimentali, può offrire una ristrutturazione
del mondo gioiosa ed esaltante. A causa della minaccia che il militarismo in aumento in tutto il mondo fa gravare su tutti noi,
cercare di unirsi il più possibile in movimenti antimilitaristi è di primaria importanza. Riconosco
che la maggior parte degli appartenenti a questo movimento non è anarchica e nemmeno libertaria,
ma bisogna riconoscere anche che la natura stessa della lotta contro il militarismo è un attacco allo
Stato. Forse la ragione per cui quelle donne coraggiose e anarchiche di Greenham Common non
riconoscono la loro natura anarchica, è che c'era un gruppo troppo esiguo di noi anarchici,
riconosciuti come tali, a lottare al loro fianco. E' ora di finirla con l'immagine degli anarchici che combattono contro la polizia e che cavillano su
quale genere di violenza sia accettabile e corretta. In ogni caso, quel genere di azione può alleviare
le frustrazioni e le tensioni create dalla nostra debolezza, può aiutarci a ripigliar fiato e, quanto a
quella violenza, è una politica di emergenza che crea un'immagine di noi come attivisti e
combattenti, ma nonviolenti. Questo vorrebbe dire una svolta in una direzione che definirei anti-statalismo creativo, ed anche una seria voce tra quelli che lottano per allontanare l'attenzione del
mondo da soluzioni militaristiche. Consapevoli come siamo della necessità degli innumerevoli servizi che mancano ai paesi più
poveri; del bisogno di combattere la fame nel mondo, di garantire l'assistenza agli anziani e alle
donne sole che devono allevare i loro figli in questo mondo così ostile; coscienti inoltre
dell'inadeguatezza dell'assistenza sanitaria, del sistema scolastico e di quella interminabile serie di
mali di cui è affetta la nostra società sotto il sistema capitalistico; e coscienti anche del fatto che
chiedere ai governi di rivolgere la loro attenzione verso questi bisogni otterrebbe, come unico
risultato, la più totale indifferenza o al massimo una svogliata adozione di soluzioni disumane e
burocratizzate, dobbiamo unirci a tutti coloro che hanno bisogno di questi servizi e cercare di
creare i mezzi per soddisfarli agendo in modo diretto, scavalcando le soluzioni burocratiche
proposte dai governi. Agendo così, dovremmo riuscire a dare un senso reale alla nostra visione
anarchica di mutua collaborazione e sperimentazione. Per esempio, 25 anni fa, un gruppo di noi, anarchici e pacifisti che avevano fatto obiezione di
coscienza nella Seconda Guerra Mondiale (molti di noi pagarono questa scelta con il carcere) si
associò per dare vita ad una scuola tutta nostra. Avevamo tutti i figli piccoli e nessuno di noi voleva
delegare la responsabilità di educare queste menti vergini al sistema scolastico retto dallo Stato.
Insomma, anziché protestare a vuoto e inveire contro la scuola pubblica, agimmo in modo concreto
e creammo la nostra scuola alternativa, «Centro Scuola Walden» che è tuttora funzionante e in cui
lavorano ancora alcuni dei soci fondatori. Oltre all'istruzione dei nostri figli, il cui numero è sempre
più elevato (siamo arrivati in poco tempo ad un massimo di 90 ragazzi) il centro funzionava da
nucleo di resistenza contro l'invadente militarismo dello Stato. La nostra scuola si schierò in prima
linea nella lotta contro gli esperimenti nucleari e contro la guerra in Vietnam. Infatti, quando
l'Università della California proibì al Comitato di Lotta per il Vietnam (Viet Nam Day Committee)
di riunirsi nel Campus di Berkeley, noi aprimmo il centro per metterlo a sua disposizione durante i
giorni di formazione del comitato e il movimento, da allora, crebbe molto rapidamente. Fu anche
grazie al coinvolgimento di alcuni di noi anarchici nei giorni in cui il comitato nasceva, che si evitò
una tendenza a centralizzare e catturare il movimento da parte dei gruppi marxisti di Berkeley. Entrando a far parte di gruppi che cercano di soddisfare i bisogni dell'umanità in modo concreto gruppi volontari come scuole gestite in cooperativa, cooperative di consumo, (non le gigantesche
cooperative monolitiche burocratizzate) - ed esperimentando nuovi piani di vita e di lavoro, e anche
opponendo resistenza alle interferenze dello Stato, l'anarchia crescerà sempre più prospera.
Appassirà e morirà invece, se continuerà ad affondare le sue radici nei dogmi passati della
tradizione. Non solo, ma posso dirlo per esperienza mia e della maggior parte dei miei compagni:
l'Anarchia viva infiammma ed arricchisce la vita ed è una inesauribile sorgente di gioia. Non
disperate, compagni, l'anarchia c'è e ci sarà sempre: perché non esistono altre alternative
ragionevoli.
(traduzione di Tiziana Tosolini)
|