Rivista Anarchica Online
Il gendarme
ecologico
di G. B.
Da qualche tempo,
accanto ai tradizionali compiti dello stato (quali il carabiniere, il
giudice, il gabelliere), è sorto un nuovo ruolo: lo stato ecologico.
La legittimazione di questa nuova pretesa del potere consisterebbe
nella difesa, da parte dello stato, della natura contro l'egoismo dei
singoli e degli interessi economici. La risibilità di
questa novella arcadia non deve, tuttavia, far dimenticare
l'importanza di una disamina del ruolo dello stato in questo campo.
Ciò al fine di comprendere attraverso quali meccanismi il potere
rinneghi, nei fatti, questa nuova "vocazione" di gendarme
della natura. L'intervento dello
stato italiano si è articolato, soprattutto sul diritto. Difatti in
questi ultimi anni sono usciti a valanga, anche su pressione della
C.E.E., leggi e regolamenti statali che si sono sovrapposti a leggi e
regolamenti regionali, ad ordinanze di sindaci, nonché a sedicenti
sentenze "esemplari" di cosiddetti Pretori d'assalto. Ed in
attesa di chiarimenti, di mitiche leggi-quadro, di nuove leggi e
regolamenti, nonché del pronunciamento della Corte Costituzionale
sui ricorsi presentati da alcune regioni, le quali ritengono lo stato
colpevole di avere invaso le loro competenze... non ci resta che
piangere, come direbbe qualcuno, sulle sorti del "verde" in
Italia. Essendo la confusione al colmo, capita che ciò che è
assolto dal pretore penale sia condannato dal pretore civile o
viceversa; oppure che ciò che lo stato non punisce sia severamente
punito dalla legislazione regionale. Questo forsennato
protagonismo legislativo non faccia, comunque, dimenticare che certe
norme come il divieto di escavazione del letto dei fiumi (Testo Unico
sulle opere idrauliche del 1904) non è mai stato applicato. Ne è
risultato, ad esempio, l'avanzamento del mare nelle falde acquifere
dove un tempo i Comuni costieri prelevavano l'acqua dolce.
Conflitti di
competenza
Una particolarità
tutta italiana che colpisce immediatamente è l'estrema
frammentazione delle competenze istituzionali in materia di ecologia:
comitati, inter e sotto-ministeriali, enti locali (comuni, province,
u.s.l., regioni), corpi statali, magistratura ed il neonato ministero
dell'ecologia si disputano le competenze che ciascuno ritiene di
avere. Ciò perché riesce difficile stabilire da un punto di vista
tecnico, prima ancora che giuridico, sotto quale veste rientri un
fatto. Ad esempio solo pochi eletti sanno che gli spurghi delle fosse
biologiche rientrano nell'ambito del controllo comunale (l. 319/76);
mentre lo spurgo dei pozzetti stradali rientra nelle competenze di
controllo delle province (D.P.R. 915/82). Lo stato italiano,
comunque, non contribuisce certamente a fare chiarezza, dal momento
che le divisioni di competenze seguono criteri a dir poco bizzarri.
Ad esempio tutta la materia "mare" è di competenza statale,
mentre gli scarichi abusivi in mare sono stati assegnati alle
regioni; l'inquinamento da idrocarburi, con moria di pesci, è di
competenza provinciale, mentre negli altri casi sono competenti
Comuni ed U.S.L. Questa
frammentazione lascia aperte le possibilità di latitanza, dal
momento che può accadere che due enti non si occupino di un fatto
perché non lo ritengano di propria competenza. Tanta frammentazione
crea, apparentemente, tanti interlocutori istituzionali ma, in
realtà, le vere scelte di fondo in materia ecologica sono tuttora di
stretta spettanza statale. Le realtà
decentrate dello stato sono solamente degli interlocutori politici e
quindi non reali, in quanto non hanno la possibilità di mutare le
scelte fatte ad altri livelli, sempre ammesso che non le condividano.
Non mancano del resto gli esempi della scemenza con cui i politici
locali si occupano di ecologia. Per gli assessori all'ecologia è
quanto mai impopolare chiudere una ditta, elevare contravvenzioni di
milioni, fare denunce all'autorità giudiziaria (specie se si tratta
di finanziatori del partito) mentre il vero serbatoio di preferenze
elettorali è rappresentato da cacciatori e pescatori. Non stupisca,
quindi, che ci sia stato chi invitava i cacciatori a sparare nei
parchi! Un altro aspetto
non meno importante è costituito dal fatto che lo stato italiano non
accetta la costituzione di controparti nel contenzioso ecologico. In
altri termini, brutta cosa per gli amanti del legalitarismo, lo stato
italiano non accetta la costituzione di quelli che solitamente si
chiamano gli "interessi diffusi", cioè la collettività
vittima degli scempi ecologici. Lo stato rimane l'unico protagonista
a livello giuridico di una situazione che non potrebbe che mettere il
potere sul banco degli accusati. Una situazione esilarante: giudice
ed accusato sono la medesima cosa! Tale realtà non è modificata
neanche da qualche pretore anche perché il penale non punisce le
intenzioni quanto le azioni (vedasi Seveso). Al di là di tutto
ciò che si è detto sinora rimane comunque una realtà penosa: la
situazione ecologica generale in Italia peggiora di giorno in giorno
e gli organi statali o locali che dovrebbero occuparsene nuotano
nella confusione, nell'incompetenza se non anche nella corruzione.
Grandi città come Milano, incredibile ma vero, non posseggono alcun
impianto di depurazione per le acque fognarie che si riversano nei
fiumi. Esempi clamorosi di
demenza se ne potrebbero citare in gran quantità; basti pensare che
presso molti Enti locali la reperibilità per i compiti di protezione
civile è assicurata da funzionari laureati in giurisprudenza e
materie affini. Difatti, come è noto, la giurisprudenza è ciò che
ci vuole in caso di terremoto o se scoppia una centrale nucleare!
Per esempio, i
rifiuti
Vediamo un esempio
pratico di come non funzioni l'intervento dello stato e degli enti
locali in un campo dell'ecologia: i rifiuti. A parte facili ilarità
si tratta di uno dei settori più importanti della realtà ecologica
dietro al quale giocano enormi interessi economici. In Italia, difatti,
ogni anno si produce una quantità di rifiuti pari al monte Everest.
Se fossero correttamente smaltiti, o meglio ancora recuperati, la
conservazione dell'ambiente avrebbe fatto un grosso passo in avanti.
Ad occuparsi di ciò c'è un decreto statale che per ammissione dei
suoi stessi estensori è stato fatto in una settimana (e si vede!):
il D.P.R. 915/82. Già dalla definizione di rifiuto (ciò che è
destinato all'abbandono) si capisce che nessuno ha informato i
relatori del fatto che le nuove tecnologie permettono di poter
riciclare quasi tutto. Un altro esempio di
come lo stato risolva i problemi ecologici è dato da come viene
affrontato lo scarico abusivo di rifiuti che tanto danno arreca. Tale
attività viene punita con sanzioni amministrative differenziate per
tipologia di rifiuto (da 100.000 lire a 10 milioni per i rifiuti
industriali, sino a sei mesi di arresto per i tossici-nocivi). Tanta
severità draconiana ha, beninteso, dei limiti. In primo luogo il
pagamento "liberatorio" della sanzione non fa differenza
fra le quantità: scaricare abusivamente un secchio di macerie oppure
un camion costa lo stesso (lire 200.000). In secondo luogo, a quasi
tre anni dall'uscita del decreto, non c'è ancora stata applicazione
di quanto concerne i rifiuti tossici e nocivi che, dal punto di vista
giuridico, non esistono ancora. In terzo luogo il
naufragio dello stato è completo di fronte al fatto che le
amministrazioni locali, tanto prodighe nello spendere quando si
tratta di voti, non hanno denaro per pagare qualche ora di
straordinario alle guardie ecologiche e così, dopo una certa ora, si
può scaricare tranquillamente. Peraltro i Comuni, cui spetta la
competenza di pulire, in realtà non lo fanno perché ciò nelle zone
densamente abitate costerebbe milioni e milioni. In realtà spesso
queste istituzioni mettono le persone nelle condizioni di dover
effettuare gli scarichi abusivi, non ritirando determinati rifiuti e
nello stesso tempo sanzionano i "polli" che si fanno
scoprire. La dose è
rincarata dalle sanzioni regionali. In regioni come la Lombardia
bruciare qualche foglia del proprio giardino costa, in via
"liberatoria", oltre 200.000 lire, un registro dei rifiuti non
compilato circa 700.000 lire, per non parlare di violazioni come la
mancata domanda di autorizzazione per uno stoccaggio di rifiuti che,
pur essendo una cosa puramente amministrativa, supera i quattro
milioni. Tanta severità
diviene pagliacciata quando di fronte ai danni subiti dalla natura si
rende obbligatorio il ripristino. Le spese della bonifica dovrebbero
essere a carico dei colpevoli ma, quando si tratta di pagare, chi ha
privatizzato i propri profitti si eclissa socializzando le perdite.
Dovrebbero pagare i Comuni, le cui casse sono già vuote. Non ci si
deve quindi stupire se si finisce, da parte dei comuni, col preferire
di tacere piuttosto che pagare e magari rendere più drammatica la
situazione occupazionale nella propria zona. Analisi simili a
questa se ne potrebbero fare per gli altri campi dell'intervento
istituzionale contro la natura, ma il risultato non cambierebbe: lo
stato italiano e le regioni sono attenti solo agli aspetti
sanzionatori che rimpinguano le proprie casse, mentre sono "sbadati"
su quelli di conservazione della natura, quando non partecipano allo
scempio in prima persona. La sequela dei
"come non si fa" vista finora suggerisce alcune, sia pur
sintetiche, considerazioni. In primo luogo chi pensa di trovare nelle
istituzioni dei validi interlocutori si illude. Al di là delle
chiacchiere elettoralistiche, non esiste alcuna volontà di far
funzionare gli organi della pubblica amministrazione né di applicare
leggi contraddittorie fatte in modo da non funzionare. L'ecologia non
è l'impostazione giuridico-amministrativa della pubblica
amministrazione ma soprattutto un fatto di cultura e di informazione.
Ciò sembra banale ma ci sono, ad esempio, meccanici che in buona
fede bruciano a scopo di riscaldamento gli oli esausti senza sapere
che, se questi hanno una base clorurata, le emissioni gassose
contengono, sia pure in minimissima quantità, diossina. In secondo luogo,
la gravità di certe situazioni e gli interessi economici (specie
turistici) spingono stato ed enti locali a fare bonifiche. I costi di
questi ripristini vengono immancabilmente scaricati sulla
collettività, in barba al principio del "chi inquina paghi".
Questa socializzazione degli oneri attualmente viene patita troppo
passivamente, anche perché allorché si arriva alla bonifica la
situazione è già drammatica. Di questo passo i danneggiati stessi,
di fronte al fatto di dover pagare per i profitti altrui,
preferiranno lasciar perdere, per non avere la beffa oltre al danno. In terzo luogo
bisogna constatare che il decentramento delle competenze tecniche in
materia di ecologia non sta funzionando. Strutture come i L.P.I.P.
(Laboratori Provinciali di Igiene e Profilassi), centralizzati ma
almeno da un punto di vista tecnico competenti, sono collassate nel
passaggio alle Unità Sanitarie. In molti casi "piccolo" si
è rivelato arrogante, incompetente, corrotto oltre ogni
immaginazione e più del grande. Inoltre la mancanza di omogeneità
lascia aperti molti spazi a chi ne approfitta per inquinare.
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