Rivista Anarchica Online
Dietro la
stangata
di Maria Teresa Romiti
La natura, lo
sappiamo bene, ama la ciclicità: a primavera aspettiamo i fiori
mentre le giornate si allungano, in autunno le foglie ingialliscono e
cadono, arrivano i primi freddi. Forse perché
influenzati dall'ambiente, anche gli uomini tendono ad avere
ricorrenze cicliche: Natale, Pasqua, le vacanze estive, le settimane
bianche e, perché no, le stangate settembrine. Arrivano tutti gli
anni, insieme alle vendemmie, mentre le giornate si accorciano. Tutti
gli anni ci vengono propinate come l'ultimo sforzo richiesto per
riportare alla salute economica l'Italia. Ma la salute dell'Italia,
alle porte a fine anno, subito dopo l'approvazione della legge
finanziaria, immancabilmente, ricomincia a deteriorarsi fino a
tornare allo stato comatoso il settembre successivo. Per fortuna i
ministri sopportano ben altro che simili contraddizioni. Dopotutto,
in politica, la memoria labile è una virtù, non un vizio. Tutti gli
anni si parte dai massimi sistemi discutendo per tutto il mese sulla
necessità di diminuire lo stato assistenziale, sull'imperativo per
uno stato moderno ed efficiente di ritornare, almeno in parte, al
mercato; si discute, seriamente o quasi, di morte del Welfare State,
di stato minimo, di economia mista. Tutti gli anni si arriva alla
traduzione concreta in termini spiccioli: diminuzione dei bilanci
della sanità, dell'educazione, degli enti locali, pioggia di aumenti
tariffari (dai trasporti alle tariffe elettriche, dai ticket alla
tassa più dimenticata). L'unico tabù sono le spese militari, al
minimo accenno di taglio o di aumento contenuto sale un coro da
tragedia greca sulla necessità di mantenere fede ai patti di
alleanza, sull'impossibilità di sopportare la minima diminuzione
senza dover mettere in pericolo la difesa essenziale del nostro
"sacro territorio" e via dicendo. Quest'anno è bastata la
ventilata diminuzione della leva di sole 20.000 unità perché i
militari cominciassero le loro geremiadi. Anche quest'anno le
idee in cantiere non brillano per originalità: aumento del ticket
sui medicinali e sulle prestazioni sanitarie di circa il 10%, aumenti
vari di tariffe telefoniche, luce, gas, trasporti, tasse scolastiche,
eliminazione delle tariffe preferenziali, diminuzione degli assegni
familiari, aumenti della tassazione INPS e via dicendo. La solita
stangata che verrà solo parzialmente (e solo per i redditi medi e
alti) ricompensata da una diminuzione del fiscal drag, per permettere
ai cosiddetti ceti medi di sentire un po' meno il prelievo fiscale. E
tutto questo servirà solo per riuscire a recuperare poco più di
10.000 miliardi, una cifra che è appena in grado di evitare che il
disavanzo quest'anno raggiunga punte astronomiche. Il solito
rattoppo, quindi: del resto non sarebbe possibile fare di più
conciliando clientelismo, protezione a lobbie agguerrite, salvataggi
vari, interessi contrastanti con un'operazione che vorrebbe essere di
puro risanamento. E poi la
macchina-stato costa per tutti. Perfino gli Stati Uniti sono alle
prese con disavanzi incredibili, non più controllabili. Le spese
sembrano dotate di vita propria. Lo stato assomiglia sempre di più
al Golem sfuggito al controllo del proprio creatore, l'idea diventata
realtà: è un incubo, un buco nero che divora energia e nessuno sa
più come fermarlo. Si tenta la strada dell'abbandono dello stato
assistenziale per tornare al mercato, allo stato minimo, caro alla
nuova destra, figlia della reagonomics, ma i risultati non sono
troppo soddisfacenti. L'Inghilterra della signora Thatcher ha gli
stessi problemi della Svezia, stato assistenziale per antonomasia. Il problema è che
lo stato moderno difficilmente può essere uno stato minimo. Non si
può abbandonare la strada seguita fino ad oggi. Nell'ultimo scorcio
di secolo i compiti della macchina-stato si sono notevolmente
ampliati: salvagente di aziende in crisi, dispensatore di pubblico
benessere, imprenditore, educatore, controllore e manager. Lo stato è
diventato presenza costante in campi diversi. Ruoli costosi, che
hanno offerto però indubbi vantaggi: controllo accurato e incrociato
sulla vita quotidiana delle persone, gestione di diversi rami
dell'economia, dell'educazione, della salute, dell'informazione. Lo
stato è diventato un referente sempre più importante per fasce
diverse della popolazione, una presenza indispensabile o presunta
tale. Ovvio che non si può dire: da oggi basta. Non è possibile
ristrutturare la macchina, forse non è neppure conveniente,
dopotutto. Ci si deve limitare a tagliare qualche ramo vistosamente
secco, ridurre qualche spesa, ma non più di tanto. La macchina ha i
suoi ingranaggi ben oliati, ormai automatici, che non possono essere
cancellati. Le discussioni sul Welfare State sono solo disquisizioni
teoriche, la realtà è che smantellare la macchina o solo
razionalizzarla è troppo difficile. E poi nessuno lo vuole
veramente. Non certo la burocrazia statale, sempre più potente, che
prospera come un cancro nelle maglie della rete; non i politici,
troppo interessati al mantenimento di funzioni e privilegi e
preoccupati di dover pagare con l'impopolarità le decisioni; neppure
i cittadini, combattuti tra l'oscura sensazione di vivere in un mondo
da Grande Fratello quindi alla ricerca di spazi di libertà di uno
stato meno presente e asfissiante, e nello stesso tempo
stato-dipendenti, incapaci di pensarsi autonomi e di agire in prima
persona, privi di alternative valide e che alla fine chiedono ancora
maggiori interventi in aree diverse. Così non resta
altro che il pendolo tra destra e sinistra, tra stato assistenziale e
stato meno assistenziale, tra più tasse e meno tasse, tra un partito
e l'altro alla ricerca di una soluzione che non si trova. Non restano
allora che le solite stangate, condite con le solite parole.
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