Rivista Anarchica Online
Terzo mondo e
terzomondismo
di Fernando Ainsa
Superficialità,
manicheismo, assurde mitizzazioni hanno creato un grande polverone
intorno ai "dannati della terra". Fernando Ainsa,
scrittore uruguayano residente a Parigi, analizza lo stato attuale
del dibattito (e delle banalità) sul Terzo Mondo e propone un nuovo
approccio. La riscoperta delle tecnologie appropriate e il nodo del
razzismo.
Adesso
improvvisamente pare che il Terzo Mondo non esista. Il terzomondismo
non sarebbe altro che un insieme di rappresentazioni create dalla
sinistra intellettuale europea degli anni Cinquanta, priva di
qualsiasi valore per il mondo attuale. In concomitanza con il
processo iniziato recentemente in Francia con una serie di dibattiti
e opere pubblicate che stanno riscuotendo un grande successo, il
Terzo Mondo sarebbe un concetto "inconsistente e indefinito".
I titoli dei libri che lo dichiarano non potrebbero essere più
provocatori: II piagnucolio dell'uomo bianco di Pascal
Bruckner, Contro gli antiterzomondisti e contro certi
terzomondisti di Yves Lacoste, Miraggio egualitario e Terzo
Mondo di P.T. Bauer o Una bestia da giustiziare: il
terzomondismo, dossier preparato da Le Monde Diplomatique,
dove sono raccolti tutti gli elementi del problema. Naturalmente,
affermazioni tanto taglienti hanno scatenato una polemica nella
stampa e nei mezzi audiovisivi la cui conseguenza immediata pare sia
la revisione di alcune idee e stereotipi forgiati negli ultimi
decenni e - forse - l'abbozzo di un nuovo schema per il futuro. La
conseguenza più immediata e incredibile però, è la ricomparsa di
un manicheismo che si pensava ormai morto e sepolto nel dibattito
intellettuale europeo. Da un lato - secondo alcuni, abbarbicati ad un
neoliberalismo economico portato alle sue estreme conseguenze - il
Terzo Mondo non è altro che un insieme di paesi diretti da élite
incapaci e corrotte e dei cui mali (sottosviluppo economico,
diseguaglianze sociali, dittature sanguinose) sono gli unici
responsabili. Le cause di tutti i problemi sono interne ai vari paesi
e sarebbe inutile cercarle anche nella storia o nei rapporti
internazionali. Insomma: l'Occidente non ha nessun motivo di
continuare ad alimentare la cattiva coscienza della sua "condizione
coloniale o imperialista" e deve recuperare la sua vecchia
funzione civilizzatrice. Furono le sue stesse élite
intellettuali - a ben ricordare - che si colpevolizzarono per prime.
L'esempio di Jean Paul Sartre e Regis Debray è paradigmatico e va
superato. A questo
atteggiamento manicheista si oppone il suo contrario, non meno
schematico: i "paesi buoni" sono quelli poveri e i
"cattivi" sono quelli ricchi. Se c'è crisi nel Terzo
Mondo, la causa è unicamente esterna. Il responsabile di tutti i
mali del sottosviluppo è il capitalismo internazionale di stampo
imperialista, specialmente attraverso l'operato delle multinazionali
che agiscono di comune accordo con le direttive del Fondo Monetario
Internazionale. Il determinismo continua a guidare la visione
inalterata della storia, come avviene da quarant'anni a questa parte.
Tutto conferma questa messa a fuoco. Basti pensare al problema del
debito estero. Questa duplice
prospettiva non sarebbe una novità, se non si intuissero, al di là
delle semplificazioni, gli indizi di una riflessione necessaria in un
mondo dinamico e in via di trasformazione. Perché è evidente che
all'offensiva di una destra occidentale (neo-liberale in senso
economico e senza vincoli di solidarietà con la condizione unica del
pianeta, e ancor meno con il destino di paesi che ha abbandonato a
loro stessi) i ripetuti schemi della sinistra tradizionale europea
che si vogliono opporre a loro, non sembrano servire. Per questo
motivo, è opportuno analizzare i concetti realmente in gioco.
La retorica del
terzomondismo
Tre fenomeni
convergono nella problematica attuale del terzomondismo: in primo
luogo, le differenze che si colgono tra i paesi in via di sviluppo. Va tenuto presente
che non sono la stessa cosa i paesi bruciati dalla siccità della
zona del Sahel, e la Nigeria e il Messico, con il loro sottosuolo
ricco di petrolio e un mercato interno potenziale di milioni di
abitanti. La povera gente delle isole di Capo Verde non ha niente a
che vedere - sia ben chiaro - con quella dei quartieri residenziali
di Abidjan sulla Costa d'Avorio, esattamente come la prospera
economia della Corea del Sud o di Singapore non può essere
paragonata alla miseria della Repubblica Centroafricana. Vitalità
economica, risorse naturali e sistemi politici si contrappongono in
una serie di paesi con popolazioni e territori molto diversi tra
loro. Con azioni che presentano livelli di sviluppo sociale e
culturale tanto differenti - si conclude - è impossibile continuare
a usare la vecchia definizione di Terzo Mondo, come fu forgiata
nell'entusiasmo degli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale,
quando si accelerò il processo di indipendenza dei paesi colonizzati
in Asia, in Africa e in America Latina. In secondo luogo,
quando si parla di Terzo Mondo si chiamano in causa gli
intellettuali. Li si accusa di ripetere sempre gli stessi luoghi
comuni (la langue de bois di un discorso conformista nel
non-conformismo, ci sia permesso il gioco di parole) e di volare
ancora a mezza aria in un'epoca che ritennero propizia - gli anni
Sessanta - ma che è stata implacabilmente smentita dalla storia
contemporanea. Gli intellettuali sono "responsabili di aver
costruito castelli di parole con la sabbia di illusioni romantiche,
sul mito della rivoluzione", si scrive. Basta eliminare
l'imperialismo - citando il Libretto Rosso di Mao - perché "il
deserto del Sahel diventasse un paradiso terrestre" - ricorda
con ironia Claude Julien in un numero recente di Le Monde
Diplomatique dedicato all'argomento, per concludere che:
"chiunque osasse dubitare dei benefici immediati della
rivoluzione era accusato di essere un intellettuale
piccolo-borghese". È
bene ricordare che tutto ebbe inizio con la guerra d'Algeria,
l'assassinio di Patrice Lumumba, il Manifesto dei 121, per continuare
con la Tricontinentale e raggiungere il culmine con la Guerra del
Vietnam. A partire da quel momento, il Terzo Mondo poté apparire
come una unità politica e una vera alternativa intellettuale per
raggiungere, nei paesi in via di sviluppo, quello che non sembrava
più possibile in Europa. Depositari delle speranze del vecchio
continente, i paesi ormai indipendenti diventano il pretesto per
continuare a invocare le cause utopiche perse nelle aree
metropolitane. Era un modo di sfuggire ai problemi urgenti della
realtà immediata, rifugiandosi nell'immaginario. L'impegno risultava
più facile con cause lontane e permetteva di evitarne uno più
diretto. Bisogna riconoscere
che questa sensibilità forgiata negli anni Cinquanta copriva
un'ampia gamma di atteggiamenti: il rifiuto della miseria, del
razzismo e delle "guerre sporche" in nome dei valori
umanitari; l'affermazione di un internazionalismo esteso alle forze
di tre continenti che lottavano contro l'imperialismo, e infine la
conversione ai grandi miti rivoluzionari. Tutto sembrava espresso
dalla frase di Franz Fanon: "Si tratta, per il Terzo Mondo, di
ricominciare la storia dell'umanità". Adesso, tuttavia,
sembrano lontani i tempi della guerra del Vietnam, del maoismo e
quelli gloriosi della rivoluzione cubana. Sono lontani anche gli anni
in cui la Francia si trovò di fronte alla lacerazione della guerra
d'Algeria, i paesi occidentali di fronte ai mali della colonizzazione
nell'effervescenza del processo d'indipendenza dei paesi africani,
asiatici e dei Caraibi. E sembrano altrettanto lontani anche il
compiaciuto stupore con cui si scoprì l'altro in senso
filosofico e antropologico, l'alterità e il pluralismo culturale. In
definitiva - si riassume con scetticismo - l'entusiasmo non è durato
più di una quindicina d'anni.
Assolvere
l'occidente?
Nella crisi del
concetto di Terzo Mondo, tuttavia, si possono leggere altri segni.
Prima di tutto, quello di revanche storica delle vecchie
potenze coloniali. In nome di un pragmatismo e realismo escogitati
come contraltare alla vulgata terzomondista, si vuole
dimostrare che la miseria del Terzo Mondo e i problemi strutturali
della maggioranza di quei paesi non sono causati dal neo-colonialismo
o dall'imperialismo e non hanno alcuna relazione con questi
fenomeni. Al contrario - come si è sostenuto recentemente in un
dibattito a Parigi - "il mezzo più rapido per farla finita con
le carestie è la libertà del mercato". Il famoso giornalista
Jean Francois Revel, dal canto suo, scrive: "Denunciare il
debito dell'America Latina come una catastrofe caduta dal cielo,
significa dimenticare un po' troppo in fretta il cattivo uso che quei
governi hanno fatto delle somme gigantesche ricevute in prestito".
Dov'è finito quel denaro? Ci si chiede con falsa innocenza. La
storia deve dunque essere riscritta partendo da questa prospettiva.
Il risultato deve essere un Occidente assolto e senza responsabilità
retroattiva e ancora meno futura. Il problema è
questo. Bisogna farla finita con "il processo di
colpevolizzazione dell'Occidente", come scrive Jacques Broyelle,
arrivando ad affermare: "Se la guerra del Vietnam dovesse
riscoprire adesso, questa volta ci si dovrebbe schierare dalla parte
degli americani". Le stesse idee compaiono nell'opera di Peter
Bauer, Miraggio egualitario e Terzo Mondo: "È
perverso suggerire che le relazioni commerciali internazionali sono
la causa dei problemi del sottosviluppo e del basso livello del
tenore di vita dei paesi del Terzo Mondo". Partendo da questo
presupposto, il Terzo Mondo deve far parlare di sé sia per la
produzione di materie prime (caffè, stagno , zucchero, rame, ecc.),
sia per le sanguinose dittature di molti dei suoi paesi (da Pinochet
a Marcos, passando per gli ubueschi esempi di Bokassa e
Amin-Dada) e per la facile corruzione dei suoi politici. Il cocktail
risultante da questa mistura di dittatura e corruzione, miseria e
incompetenza, permette di alimentare la contro-immagine, non meno
caricaturale, di barbuti guerriglieri che hanno la pretesa di porre
rimedio a tutti questi mali a colpi di mitra. Si dice anche che
il terzomondismo alimenta le ideologie di "nazionalismi
astratti" o di "mistica religiosa" con fenomeni del tipo
integralismo musulmano. Non manca, in quest'affermazione,
l'aspetto rudemente politico. I paesi del Terzo Mondo sono oggetto di
una congiura sovversiva da parte dell'Unione Sovietica e dei suoi
alleati. La sinistra dei paesi occidentali (dominata da una
"ideologia del senso di colpa" e da una "cattiva
coscienza") sarebbe loro complice cosciente o incosciente e in
tutti i casi "fa il gioco" del comunismo internazionale.
Bisogna farla finita con tutto questo e la reazione si è già fatta
sentire, si sintetizza orgogliosamente. Nella crisi
annunciata compare anche il dialogo Nord-Sud. Davanti alle differenze
sempre maggiori tra i paesi, anziché proporsi soluzioni per la
distribuzione mondiale delle risorse (il che risulta illusorio e
utopico, come è facilmente dimostrabile attraverso dati statistici)
o di estraniarsi dalla lotta facendo dichiarazioni contro il
capitalismo, si afferma che i paesi del Terzo Mondo farebbero meglio
a meditare seriamente sulle loro responsabilità nel fallimento dei
loro progetti nazionali.
Si riscoprono le
tecnologie appropriate
Questa serie di
considerazioni sul Terzo Mondo portata avanti dal neo-liberalismo
occidentale non è rimasta senza risposta, anche se per far questo si
è partiti dall'interrogativo che congloba buona parte della
problematica del mondo attuale, e cioè: "Quali possono essere le
conseguenze per definire le preoccupazioni di un mondo che, da un
lato è sempre più unito attorno ad una problematica comune e alla
rete delle sue comunicazioni simultanee, e che dall'altro si trova di
fronte all'esplosione dei suoi particolarismi, nazionalismi e
conflitti centenari sepolti, nelle ultimi decadi, sotto lo schema
polarizzato dei grandi sistemi ideologici?". La risposta che ci
si deve attendere dal Terzo Mondo, nel contesto attuale, inizia con
l'ammissione che bisogna operare una valutazione sincera dei mali
reali che affliggono i paesi dell'America Latina, l'Asia e l'Africa.
In questa valutazione, le colpe si ripartiscono ragionevolmente e i
rimedi risultano molto poco spettacolari. Tanto per
cominciare, si tratta di ammettere che il gigantismo di alcuni
progetti smisurati, intrapresi con esagerato ottimismo negli anni
scorsi, ha reso evidente che il modello occidentale non sempre è il
migliore. Catastrofi ecologiche possono seguire alla costruzione di
bacini idroelettrici, all'apertura di strade, alla crescita
disordinata di grandi città sepolte sotto nubi d'aria inquinata e
all'installazione di industrie sovradimensionate in rapporto alle
capacità reali dei paesi che sono stati costretti a indebitarsi con
l'estero. Perché, anche se si è trattato di megalomania e
leggerezza da parte di molti dirigenti politici o dittatori del Terzo
Mondo che hanno preteso di passare alla storia o di garantirsi una
fortuna personale, l'analisi non può essere tanto ingenua. Le banche
internazionali che hanno prestato il denaro per questi progetti non
possono essersi sbagliate fino a questo punto. Avrebbero investito il
colossale debito che ora reclamano (questa vertiginosa cifra di
ottocento miliardi di dollari) in un momento di distrazione? Nessuno
è stato capace di prevedere il disastro finanziario incombente? È
evidente che i colpevoli non possono essere solo i "corrotti e
incoscienti" politici del Terzo Mondo. Se è triste dover
riconoscere che molti ministri "si possono comperare" con
dollari depositati alle Bahamas o in Svizzera e che i negoziati
scandalosi sono all'ordine del giorno, bisogna aggiungere che le
complicità sono molteplici. Gli acquisti di armamenti da parte di
militari di paesi con popolazione sottoalimentate presuppongono
l'esistenza di venditori e di fabbricatori degli
armamenti stessi. Le somme dei crediti concessi allegramente, e che
ora gravano penosamente sull'economia del Terzo Mondo, sono state
trafugate e si trovano di nuovo depositate nelle banche
svizzere o nordamericane da cui provenivano. Non è un segreto la
notizia che parte del debito è già recuperato attraverso le
evasioni di capitali. Nel contesto di una
visione attuale e razionale della problematica del Terzo Mondo, si
parla con sempre maggiore urgenza della necessità di prospettive
modeste e meno grandiose nella pianificazione dei vari paesi. Si
parla così di tecnologie appropriate, meno costose e più
adatte di quelle scadenti generalmente proposte dai paesi
industrializzati: processo che può supporre il recupero di tecniche
tradizionali, scartate troppo rapidamente negli anni dell'euforia. Il
bufalo sostituisce il trattore nel Sudest asiatico, le tecniche di
irrigazione degli Inca vengono ripristinate da ingegneri peruviani e
il vomero di legno ara meglio di quello meccanico nelle fragili terre
africane. In questo contesto si parla anche di un razionale sviluppo
autonomo che, pur tendendo a enfatizzare un po' le forze
endogene, allo stesso tempo è cosciente del fatto che non è
più possibile vivere al margine degli scambi internazionali, dalle
cui regole non si può più prescindere. Insomma: niente sogni
autarchici da un lato, e niente liberalismo sfrenato dall'altro. Né
l'Albania né Taiwan fanno testo in questo senso. Questa nuova
prospettiva della problematica del Terzo Mondo per di più si basa
sulla riprova che il sottosviluppo della maggioranza dei paesi non è
il risultato di un ristagno economico, ma di una dinamica di crescita
in molti casi maggiore a quella dei paesi europei. Il problema
quindi, è il carattere contraddittorio di questa crescita e non la
sua carenza.
Verso una
militanza umanitaria
La visione
entusiastica degli intellettuali di qualche anno fa ha ceduto il
posto a uno sguardo distaccato e, in molti casi, indifferente.
Se però oggi si può sospettare il rifiuto di certa militanza da
parte degli intellettuali e una specie di rivendicazione della
cultura come risposta polemica al compromesso politico, non per
questo si è autorizzati a ritenere che tutto il terzomondismo
sia in crisi. Se è vero che ci sono blasés in francia e
pasotas in Spagna, non tutti sono scettici, indifferenti o
egoisti. Le coordinate delle preoccupazioni giovanili passano
altrove. Nel rifiuto attuale
della militanza e nella ridefinizione politica dei suoi contenuti, si
è andati progressivamente scivolando dal compromesso ideologico a
quello umanitario, dalle "grandi cause" astratte alle
azioni tangibili e dalle "soluzioni globali" e
volontaristiche ai progetti limitati e accentrati attorno alle
"comunità di base". Ci si mobilita per obiettivi precisi.
I passi da formica vengono preferiti ai "grandi balzi". Logicamente, una
dittatura come quella di Pinochet in Cile può provocare solo
reazioni manichee. Tuttavia i paesi del Terzo Mondo che si possono
identificare con una realtà schematica (e che per questo si
prestano ad una interpretazione riduttiva e facile della storia) sono
sempre meno numerosi. Il Terzo Mondo presenta un panorama sempre più
complesso. L'economismo "causalista", dominato dallo schema
del centro-periferia e usato per circa vent'anni come la panacea
chiarificatrice di tutti i mali, ha ceduto il posto a studi
particolareggiati sulla dinamica della società. Il corollario
inevitabile è l'affiorare di culture marginali, di minoranze non
meno rappresentative di certi grandi miti di identità nazionali
utilizzati fino ad oggi, la rivendicazione di simboli e archetipi non
spiegabili razionalmente, ma indicativi della vera ricchezza sommersa
dei vari paesi. Se si respinge
l'"ideologizzazione" eccessiva del passato più prossimo,
la sensibilità terzomondista non deve necessariamente cadere in una
specie di vago filantropismo simile a quello delle organizzazioni
caritatevoli e paternalistiche del passato. Per fortuna ci sono altri
margini d'azione. Perché, se non si ha fiducia nelle grandi
costruzioni tattiche degli anni Sessanta, questo non vuole
necessariamente dire dover accettare il neo-liberalismo selvaggio che
di solito ne è il contraltare. Lo spirito comunitario risorto, le
associazioni, il quartiere - attuali forme di autogestione e di
decentramento - propongono interessanti alternative intermedie. La
funzione di organizzazioni "non governative" - come "medici
senza frontiere", Amnesty International, il "comitato
contro la fame" e le quattrocento istituzioni di questo tipo che
(partendo da un paese come la Francia) agiscono concretamente nel
Terzo Mondo mobilitando più di cinquantamila militanti, ne
sono un esempio. E Germania e Inghilterra ne offrono altrettanti. Per di più i paesi
occidentali - Europa e Stati Uniti - hanno scoperto recentemente (e
non senza allarmarsi, in qualche caso!) che il Terzo Mondo si trova
anche all'interno delle loro frontiere. Le abitudini pittoresche,
l'abbigliamento e i cibi esotici descritti da antichi viaggiatori ed
esploratori, sono ora reperibili in qualsiasi quartiere di New York,
Parigi e Londra. L'altro può essere il nostro vicino e non
più solamente il protagonista di un libro di etnologia o di un
documentario che si guarda standosene sdraiati comodi davanti alla
TV. Da qui la comparsa di fenomeni come il razzismo, le esplosioni di
violenza urbana, le rivendicazioni di concetti come quello di
identità nazionale da parte dell'estrema destra - i cui
vessilli si alzano contro la presenza dello straniero nella
terra che ritiene sua. L'arabo che si va a fotografare in un viaggio
turistico diventa il vicino con cui ci incrociamo sul
pianerottolo. Tutto sembra
indicare dunque, che se un certo concetto del Terzo Mondo è morto
insieme agli ultimi echi della rivoluzione del Maggio '68, un altro
sta nascendo. In qualsiasi caso, i "condannati della terra"
di cui parlò trent'anni fa Franz Fanon, ci sono sempre, anche se si
è deciso di chiamarli in un altro modo.
(traduzione
di Tiziana Tosolini)
|