Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 16 nr. 137
maggio 1986


Rivista Anarchica Online

Terzo mondo e terzomondismo
di Fernando Ainsa

Superficialità, manicheismo, assurde mitizzazioni hanno creato un grande polverone intorno ai "dannati della terra". Fernando Ainsa, scrittore uruguayano residente a Parigi, analizza lo stato attuale del dibattito (e delle banalità) sul Terzo Mondo e propone un nuovo approccio. La riscoperta delle tecnologie appropriate e il nodo del razzismo.

Adesso improvvisamente pare che il Terzo Mondo non esista. Il terzomondismo non sarebbe altro che un insieme di rappresentazioni create dalla sinistra intellettuale europea degli anni Cinquanta, priva di qualsiasi valore per il mondo attuale. In concomitanza con il processo iniziato recentemente in Francia con una serie di dibattiti e opere pubblicate che stanno riscuotendo un grande successo, il Terzo Mondo sarebbe un concetto "inconsistente e indefinito". I titoli dei libri che lo dichiarano non potrebbero essere più provocatori: II piagnucolio dell'uomo bianco di Pascal Bruckner, Contro gli antiterzomondisti e contro certi terzomondisti di Yves Lacoste, Miraggio egualitario e Terzo Mondo di P.T. Bauer o Una bestia da giustiziare: il terzomondismo, dossier preparato da Le Monde Diplomatique, dove sono raccolti tutti gli elementi del problema.
Naturalmente, affermazioni tanto taglienti hanno scatenato una polemica nella stampa e nei mezzi audiovisivi la cui conseguenza immediata pare sia la revisione di alcune idee e stereotipi forgiati negli ultimi decenni e - forse - l'abbozzo di un nuovo schema per il futuro. La conseguenza più immediata e incredibile però, è la ricomparsa di un manicheismo che si pensava ormai morto e sepolto nel dibattito intellettuale europeo. Da un lato - secondo alcuni, abbarbicati ad un neoliberalismo economico portato alle sue estreme conseguenze - il Terzo Mondo non è altro che un insieme di paesi diretti da élite incapaci e corrotte e dei cui mali (sottosviluppo economico, diseguaglianze sociali, dittature sanguinose) sono gli unici responsabili. Le cause di tutti i problemi sono interne ai vari paesi e sarebbe inutile cercarle anche nella storia o nei rapporti internazionali. Insomma: l'Occidente non ha nessun motivo di continuare ad alimentare la cattiva coscienza della sua "condizione coloniale o imperialista" e deve recuperare la sua vecchia funzione civilizzatrice. Furono le sue stesse élite intellettuali - a ben ricordare - che si colpevolizzarono per prime. L'esempio di Jean Paul Sartre e Regis Debray è paradigmatico e va superato.
A questo atteggiamento manicheista si oppone il suo contrario, non meno schematico: i "paesi buoni" sono quelli poveri e i "cattivi" sono quelli ricchi. Se c'è crisi nel Terzo Mondo, la causa è unicamente esterna. Il responsabile di tutti i mali del sottosviluppo è il capitalismo internazionale di stampo imperialista, specialmente attraverso l'operato delle multinazionali che agiscono di comune accordo con le direttive del Fondo Monetario Internazionale. Il determinismo continua a guidare la visione inalterata della storia, come avviene da quarant'anni a questa parte. Tutto conferma questa messa a fuoco. Basti pensare al problema del debito estero.
Questa duplice prospettiva non sarebbe una novità, se non si intuissero, al di là delle semplificazioni, gli indizi di una riflessione necessaria in un mondo dinamico e in via di trasformazione. Perché è evidente che all'offensiva di una destra occidentale (neo-liberale in senso economico e senza vincoli di solidarietà con la condizione unica del pianeta, e ancor meno con il destino di paesi che ha abbandonato a loro stessi) i ripetuti schemi della sinistra tradizionale europea che si vogliono opporre a loro, non sembrano servire. Per questo motivo, è opportuno analizzare i concetti realmente in gioco.

La retorica del terzomondismo
Tre fenomeni convergono nella problematica attuale del terzomondismo: in primo luogo, le differenze che si colgono tra i paesi in via di sviluppo.
Va tenuto presente che non sono la stessa cosa i paesi bruciati dalla siccità della zona del Sahel, e la Nigeria e il Messico, con il loro sottosuolo ricco di petrolio e un mercato interno potenziale di milioni di abitanti. La povera gente delle isole di Capo Verde non ha niente a che vedere - sia ben chiaro - con quella dei quartieri residenziali di Abidjan sulla Costa d'Avorio, esattamente come la prospera economia della Corea del Sud o di Singapore non può essere paragonata alla miseria della Repubblica Centroafricana.
Vitalità economica, risorse naturali e sistemi politici si contrappongono in una serie di paesi con popolazioni e territori molto diversi tra loro. Con azioni che presentano livelli di sviluppo sociale e culturale tanto differenti - si conclude - è impossibile continuare a usare la vecchia definizione di Terzo Mondo, come fu forgiata nell'entusiasmo degli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, quando si accelerò il processo di indipendenza dei paesi colonizzati in Asia, in Africa e in America Latina.
In secondo luogo, quando si parla di Terzo Mondo si chiamano in causa gli intellettuali. Li si accusa di ripetere sempre gli stessi luoghi comuni (la langue de bois di un discorso conformista nel non-conformismo, ci sia permesso il gioco di parole) e di volare ancora a mezza aria in un'epoca che ritennero propizia - gli anni Sessanta - ma che è stata implacabilmente smentita dalla storia contemporanea. Gli intellettuali sono "responsabili di aver costruito castelli di parole con la sabbia di illusioni romantiche, sul mito della rivoluzione", si scrive. Basta eliminare l'imperialismo - citando il Libretto Rosso di Mao - perché "il deserto del Sahel diventasse un paradiso terrestre" - ricorda con ironia Claude Julien in un numero recente di Le Monde Diplomatique dedicato all'argomento, per concludere che: "chiunque osasse dubitare dei benefici immediati della rivoluzione era accusato di essere un intellettuale piccolo-borghese".
È bene ricordare che tutto ebbe inizio con la guerra d'Algeria, l'assassinio di Patrice Lumumba, il Manifesto dei 121, per continuare con la Tricontinentale e raggiungere il culmine con la Guerra del Vietnam. A partire da quel momento, il Terzo Mondo poté apparire come una unità politica e una vera alternativa intellettuale per raggiungere, nei paesi in via di sviluppo, quello che non sembrava più possibile in Europa. Depositari delle speranze del vecchio continente, i paesi ormai indipendenti diventano il pretesto per continuare a invocare le cause utopiche perse nelle aree metropolitane. Era un modo di sfuggire ai problemi urgenti della realtà immediata, rifugiandosi nell'immaginario. L'impegno risultava più facile con cause lontane e permetteva di evitarne uno più diretto.
Bisogna riconoscere che questa sensibilità forgiata negli anni Cinquanta copriva un'ampia gamma di atteggiamenti: il rifiuto della miseria, del razzismo e delle "guerre sporche" in nome dei valori umanitari; l'affermazione di un internazionalismo esteso alle forze di tre continenti che lottavano contro l'imperialismo, e infine la conversione ai grandi miti rivoluzionari. Tutto sembrava espresso dalla frase di Franz Fanon: "Si tratta, per il Terzo Mondo, di ricominciare la storia dell'umanità".
Adesso, tuttavia, sembrano lontani i tempi della guerra del Vietnam, del maoismo e quelli gloriosi della rivoluzione cubana. Sono lontani anche gli anni in cui la Francia si trovò di fronte alla lacerazione della guerra d'Algeria, i paesi occidentali di fronte ai mali della colonizzazione nell'effervescenza del processo d'indipendenza dei paesi africani, asiatici e dei Caraibi. E sembrano altrettanto lontani anche il compiaciuto stupore con cui si scoprì l'altro in senso filosofico e antropologico, l'alterità e il pluralismo culturale. In definitiva - si riassume con scetticismo - l'entusiasmo non è durato più di una quindicina d'anni.

Assolvere l'occidente?
Nella crisi del concetto di Terzo Mondo, tuttavia, si possono leggere altri segni. Prima di tutto, quello di revanche storica delle vecchie potenze coloniali. In nome di un pragmatismo e realismo escogitati come contraltare alla vulgata terzomondista, si vuole dimostrare che la miseria del Terzo Mondo e i problemi strutturali della maggioranza di quei paesi non sono causati dal neo-colonialismo o dall'imperialismo e non hanno alcuna relazione con questi fenomeni. Al contrario - come si è sostenuto recentemente in un dibattito a Parigi - "il mezzo più rapido per farla finita con le carestie è la libertà del mercato". Il famoso giornalista Jean Francois Revel, dal canto suo, scrive: "Denunciare il debito dell'America Latina come una catastrofe caduta dal cielo, significa dimenticare un po' troppo in fretta il cattivo uso che quei governi hanno fatto delle somme gigantesche ricevute in prestito". Dov'è finito quel denaro? Ci si chiede con falsa innocenza. La storia deve dunque essere riscritta partendo da questa prospettiva. Il risultato deve essere un Occidente assolto e senza responsabilità retroattiva e ancora meno futura.
Il problema è questo. Bisogna farla finita con "il processo di colpevolizzazione dell'Occidente", come scrive Jacques Broyelle, arrivando ad affermare: "Se la guerra del Vietnam dovesse riscoprire adesso, questa volta ci si dovrebbe schierare dalla parte degli americani". Le stesse idee compaiono nell'opera di Peter Bauer, Miraggio egualitario e Terzo Mondo: "È perverso suggerire che le relazioni commerciali internazionali sono la causa dei problemi del sottosviluppo e del basso livello del tenore di vita dei paesi del Terzo Mondo".
Partendo da questo presupposto, il Terzo Mondo deve far parlare di sé sia per la produzione di materie prime (caffè, stagno , zucchero, rame, ecc.), sia per le sanguinose dittature di molti dei suoi paesi (da Pinochet a Marcos, passando per gli ubueschi esempi di Bokassa e Amin-Dada) e per la facile corruzione dei suoi politici. Il cocktail risultante da questa mistura di dittatura e corruzione, miseria e incompetenza, permette di alimentare la contro-immagine, non meno caricaturale, di barbuti guerriglieri che hanno la pretesa di porre rimedio a tutti questi mali a colpi di mitra.
Si dice anche che il terzomondismo alimenta le ideologie di "nazionalismi astratti" o di "mistica religiosa" con fenomeni del tipo integralismo musulmano. Non manca, in quest'affermazione, l'aspetto rudemente politico. I paesi del Terzo Mondo sono oggetto di una congiura sovversiva da parte dell'Unione Sovietica e dei suoi alleati. La sinistra dei paesi occidentali (dominata da una "ideologia del senso di colpa" e da una "cattiva coscienza") sarebbe loro complice cosciente o incosciente e in tutti i casi "fa il gioco" del comunismo internazionale. Bisogna farla finita con tutto questo e la reazione si è già fatta sentire, si sintetizza orgogliosamente.
Nella crisi annunciata compare anche il dialogo Nord-Sud. Davanti alle differenze sempre maggiori tra i paesi, anziché proporsi soluzioni per la distribuzione mondiale delle risorse (il che risulta illusorio e utopico, come è facilmente dimostrabile attraverso dati statistici) o di estraniarsi dalla lotta facendo dichiarazioni contro il capitalismo, si afferma che i paesi del Terzo Mondo farebbero meglio a meditare seriamente sulle loro responsabilità nel fallimento dei loro progetti nazionali.

Si riscoprono le tecnologie appropriate
Questa serie di considerazioni sul Terzo Mondo portata avanti dal neo-liberalismo occidentale non è rimasta senza risposta, anche se per far questo si è partiti dall'interrogativo che congloba buona parte della problematica del mondo attuale, e cioè: "Quali possono essere le conseguenze per definire le preoccupazioni di un mondo che, da un lato è sempre più unito attorno ad una problematica comune e alla rete delle sue comunicazioni simultanee, e che dall'altro si trova di fronte all'esplosione dei suoi particolarismi, nazionalismi e conflitti centenari sepolti, nelle ultimi decadi, sotto lo schema polarizzato dei grandi sistemi ideologici?".
La risposta che ci si deve attendere dal Terzo Mondo, nel contesto attuale, inizia con l'ammissione che bisogna operare una valutazione sincera dei mali reali che affliggono i paesi dell'America Latina, l'Asia e l'Africa. In questa valutazione, le colpe si ripartiscono ragionevolmente e i rimedi risultano molto poco spettacolari.
Tanto per cominciare, si tratta di ammettere che il gigantismo di alcuni progetti smisurati, intrapresi con esagerato ottimismo negli anni scorsi, ha reso evidente che il modello occidentale non sempre è il migliore. Catastrofi ecologiche possono seguire alla costruzione di bacini idroelettrici, all'apertura di strade, alla crescita disordinata di grandi città sepolte sotto nubi d'aria inquinata e all'installazione di industrie sovradimensionate in rapporto alle capacità reali dei paesi che sono stati costretti a indebitarsi con l'estero. Perché, anche se si è trattato di megalomania e leggerezza da parte di molti dirigenti politici o dittatori del Terzo Mondo che hanno preteso di passare alla storia o di garantirsi una fortuna personale, l'analisi non può essere tanto ingenua.
Le banche internazionali che hanno prestato il denaro per questi progetti non possono essersi sbagliate fino a questo punto. Avrebbero investito il colossale debito che ora reclamano (questa vertiginosa cifra di ottocento miliardi di dollari) in un momento di distrazione? Nessuno è stato capace di prevedere il disastro finanziario incombente? È evidente che i colpevoli non possono essere solo i "corrotti e incoscienti" politici del Terzo Mondo. Se è triste dover riconoscere che molti ministri "si possono comperare" con dollari depositati alle Bahamas o in Svizzera e che i negoziati scandalosi sono all'ordine del giorno, bisogna aggiungere che le complicità sono molteplici. Gli acquisti di armamenti da parte di militari di paesi con popolazione sottoalimentate presuppongono l'esistenza di venditori e di fabbricatori degli armamenti stessi. Le somme dei crediti concessi allegramente, e che ora gravano penosamente sull'economia del Terzo Mondo, sono state trafugate e si trovano di nuovo depositate nelle banche svizzere o nordamericane da cui provenivano. Non è un segreto la notizia che parte del debito è già recuperato attraverso le evasioni di capitali.
Nel contesto di una visione attuale e razionale della problematica del Terzo Mondo, si parla con sempre maggiore urgenza della necessità di prospettive modeste e meno grandiose nella pianificazione dei vari paesi. Si parla così di tecnologie appropriate, meno costose e più adatte di quelle scadenti generalmente proposte dai paesi industrializzati: processo che può supporre il recupero di tecniche tradizionali, scartate troppo rapidamente negli anni dell'euforia. Il bufalo sostituisce il trattore nel Sudest asiatico, le tecniche di irrigazione degli Inca vengono ripristinate da ingegneri peruviani e il vomero di legno ara meglio di quello meccanico nelle fragili terre africane. In questo contesto si parla anche di un razionale sviluppo autonomo che, pur tendendo a enfatizzare un po' le forze endogene, allo stesso tempo è cosciente del fatto che non è più possibile vivere al margine degli scambi internazionali, dalle cui regole non si può più prescindere. Insomma: niente sogni autarchici da un lato, e niente liberalismo sfrenato dall'altro. Né l'Albania né Taiwan fanno testo in questo senso.
Questa nuova prospettiva della problematica del Terzo Mondo per di più si basa sulla riprova che il sottosviluppo della maggioranza dei paesi non è il risultato di un ristagno economico, ma di una dinamica di crescita in molti casi maggiore a quella dei paesi europei. Il problema quindi, è il carattere contraddittorio di questa crescita e non la sua carenza.

Verso una militanza umanitaria
La visione entusiastica degli intellettuali di qualche anno fa ha ceduto il posto a uno sguardo distaccato e, in molti casi, indifferente. Se però oggi si può sospettare il rifiuto di certa militanza da parte degli intellettuali e una specie di rivendicazione della cultura come risposta polemica al compromesso politico, non per questo si è autorizzati a ritenere che tutto il terzomondismo sia in crisi. Se è vero che ci sono blasés in francia e pasotas in Spagna, non tutti sono scettici, indifferenti o egoisti. Le coordinate delle preoccupazioni giovanili passano altrove.
Nel rifiuto attuale della militanza e nella ridefinizione politica dei suoi contenuti, si è andati progressivamente scivolando dal compromesso ideologico a quello umanitario, dalle "grandi cause" astratte alle azioni tangibili e dalle "soluzioni globali" e volontaristiche ai progetti limitati e accentrati attorno alle "comunità di base". Ci si mobilita per obiettivi precisi. I passi da formica vengono preferiti ai "grandi balzi".
Logicamente, una dittatura come quella di Pinochet in Cile può provocare solo reazioni manichee. Tuttavia i paesi del Terzo Mondo che si possono identificare con una realtà schematica (e che per questo si prestano ad una interpretazione riduttiva e facile della storia) sono sempre meno numerosi. Il Terzo Mondo presenta un panorama sempre più complesso. L'economismo "causalista", dominato dallo schema del centro-periferia e usato per circa vent'anni come la panacea chiarificatrice di tutti i mali, ha ceduto il posto a studi particolareggiati sulla dinamica della società. Il corollario inevitabile è l'affiorare di culture marginali, di minoranze non meno rappresentative di certi grandi miti di identità nazionali utilizzati fino ad oggi, la rivendicazione di simboli e archetipi non spiegabili razionalmente, ma indicativi della vera ricchezza sommersa dei vari paesi.
Se si respinge l'"ideologizzazione" eccessiva del passato più prossimo, la sensibilità terzomondista non deve necessariamente cadere in una specie di vago filantropismo simile a quello delle organizzazioni caritatevoli e paternalistiche del passato. Per fortuna ci sono altri margini d'azione. Perché, se non si ha fiducia nelle grandi costruzioni tattiche degli anni Sessanta, questo non vuole necessariamente dire dover accettare il neo-liberalismo selvaggio che di solito ne è il contraltare. Lo spirito comunitario risorto, le associazioni, il quartiere - attuali forme di autogestione e di decentramento - propongono interessanti alternative intermedie. La funzione di organizzazioni "non governative" - come "medici senza frontiere", Amnesty International, il "comitato contro la fame" e le quattrocento istituzioni di questo tipo che (partendo da un paese come la Francia) agiscono concretamente nel Terzo Mondo mobilitando più di cinquantamila militanti, ne sono un esempio. E Germania e Inghilterra ne offrono altrettanti.
Per di più i paesi occidentali - Europa e Stati Uniti - hanno scoperto recentemente (e non senza allarmarsi, in qualche caso!) che il Terzo Mondo si trova anche all'interno delle loro frontiere. Le abitudini pittoresche, l'abbigliamento e i cibi esotici descritti da antichi viaggiatori ed esploratori, sono ora reperibili in qualsiasi quartiere di New York, Parigi e Londra. L'altro può essere il nostro vicino e non più solamente il protagonista di un libro di etnologia o di un documentario che si guarda standosene sdraiati comodi davanti alla TV. Da qui la comparsa di fenomeni come il razzismo, le esplosioni di violenza urbana, le rivendicazioni di concetti come quello di identità nazionale da parte dell'estrema destra - i cui vessilli si alzano contro la presenza dello straniero nella terra che ritiene sua. L'arabo che si va a fotografare in un viaggio turistico diventa il vicino con cui ci incrociamo sul pianerottolo.
Tutto sembra indicare dunque, che se un certo concetto del Terzo Mondo è morto insieme agli ultimi echi della rivoluzione del Maggio '68, un altro sta nascendo. In qualsiasi caso, i "condannati della terra" di cui parlò trent'anni fa Franz Fanon, ci sono sempre, anche se si è deciso di chiamarli in un altro modo.

(traduzione di Tiziana Tosolini)