Rivista Anarchica Online
Il sindacato
prossimo venturo
di Luce Fabbri
Nonostante gli
attuali sindacati siano ormai da tempo burocratizzati, politicizzati,
strumentalizzati, non è possibile pensare ad una loro scomparsa. Il lavoro occupa
un posto ancora troppo importante nella vita di tutti noi, perché si
possa trascurare il sindacato. Urge però pensarne un nuovo modello.
Pago un vecchio
debito che ho con "A" cercando oggi di delineare la mia
visione del problema sindacale, che nel 1981 non coincideva (o non
era chiaro se coincidesse o no) con quella della rivista. Nel secolo scorso,
e più precisamente nel 1864, sorse la Prima Internazionale con la
bandiera dell'unità di tutti i lavoratori del mondo contro lo
sfruttamento capitalista, reso possibile dall'appoggio dell'autorità
politica, ch'era lo stato borghese com'era uscito da quella gran
matrice che fu la Rivoluzione Francese. È
vero che il capitalismo, allora in pieno rigoglio, trovava già
troppo pesante tale appoggio e contro le sue ancora deboli tendenze
al controllo dell'economia elevava le proteste d'un liberalismo di
segno retrogrado. Però di fronte al pericolo rappresentato
dall'associazione dei lavoratori mise subito gli internazionalisti
fuori della legge. Da allora, la
situazione è radicalmente cambiata. L'economia di mercato ,
caratteristica del capitalismo, è entrata in una serie di crisi di
sovrapproduzione e sottoconsumo, il cui ritmo uniformemente
accelerato è stato perturbato da due guerre mondiali, che l'hanno
ritardato mentre rendevano le crisi stesse più acute e più
universalmente inumane. Alla vigilia della seconda guerra mondiale si
ebbe la sensazione che il capitalismo fosse arrivato al suo punto di
rottura e questa fu tra le cause non ultime del conflitto. Dalla
guerra è nato un neocapitalismo ultra-tecnificato, che è entrato
anch'esso nella spirale delle crisi progressive, mentre su tutti
incombe la minaccia d'una terza - e stavolta davvero ultima - guerra
mondiale. Il totalitario capitalismo di Stato, che si propone
dall'Est come alternativa, soffre degli stessi mali (conserva il
salariato e accentua la divisione della società in classi) ed
elimina inoltre le possibilità di sopravvivenza che vengono
dall'esistenza di nuclei di base relativamente indipendenti. Nello stesso
periodo di tempo (che - non sembrerebbe - è già di un secolo e un
quarto), il movimento sindacale si è fatto potente, tanto da
diventare teatro di una lotta per la supremazia tra i vari partiti
politici: l'unità sindacale, norma considerata ovvia agli inizi
("Proletari di tutti i paesi, unitevi!") si trasformò
allora in un principio da difendere. Già nella lotta fra Marx e
Bakunin in seno alla Prima Internazionale, il nucleo del problema,
secondo Bakunin, stava nella necessità di mantenere l'associazione
operaia al di fuori dei partiti e della competizione politica, perché
i sindacati stessi non si strumentalizzassero al servizio di forze
aspiranti a inserirsi nello Stato. Marx invece voleva fare
dell'organizzazione sindacale un partito che prendesse il potere. La
divergenza portò alla scissione, ma solo molto più tardi gli
sviluppi del movimento sindacale e dei partiti finirono col dar
ragione alle previsioni di Bakunin, giacché al principio il Partito
Socialista d'ispirazione marxista crebbe molto ed ebbe il sopravvento
la Seconda Internazionale, che, nei due primi decenni del secolo
costituì la forza dominante nel campo del lavoro ed era una forza
che i lavoratori sentivano come umanitaria, malgrado ci fossero
all'altro estremo anche i sindacati cattolici - collaborazionisti -,
usciti dalla Rerum Novarum.
L'equivoco
dell'antimperialismo
Conseguenza a
distanza della politicizzazione del movimento operaio voluta da Marx
fu, in clima autoritario, la dittatura dei capi del "partito del
proletariato" sul proletariato stesso, e, in clima democratico,
il frazionamento sindacale. Tutte e due le cose si produssero
successivamente nell'ambito cronologico e nell'epicentro geografico
della prima guerra mondiale. Infatti, per
ritardare una crisi interna, che non appariva ancora come definitiva,
ma era già molto minacciosa, e perché il movimento operaio faceva
paura, il capitalismo scatenò nel 1914 la guerra (vedi, a questo
proposito, le prime otto pagine del libro di Luigi Fabbri: "Dittatura
e rivoluzione", Ed. Bitelli, Ancona, 1921), che in un primo
momento ottenne il suo scopo: si ebbe la rottura del movimento
operaio europeo, come conseguenza del suo vincolo con i due potenti
partiti socialisti francese e tedesco, che seguirono la politica dei
rispettivi governi. Lo sciopero generale, tante volte proclamato a
freddo, si dissipò come un mito sorpassato nella mente degli uomini
concreti, tutti presi dal clima rovente del conflitto. In Italia, il
partito socialista non si lasciò trascinare, ma rimase isolato. Il
movimento operaio aveva le reni spezzate. Tutti i timori
delle classi dominanti risorsero quando, in piena guerra, nel 1917,
scoppiò la rivoluzione russa, che sembrò l'attuazione degli ideali
della Prima Internazionale, giacché la sua parola d'ordine fu: "Il
potere ai soviet" cioè alle associazioni locali d'operai,
contadini e soldati. Il trionfo del partito bolscevico, marxista,
accentratore, stalinista all'ennesima potenza, iniziò la
controrivoluzione. Lenin riprese la linea di Marx nelle sue più
accese affermazioni antibakuniniste (ci sono molti Marx) e vi
aggiunse due elementi non fatti per conservare l'unità sindacale: a) quella che si
chiamò la "partiticità" (il termine credo sia di Gramsci),
cioè la trasformazione del Partito in un valore assoluto e
indiscutibile, come in passato la Compagnia di Gesù o la Carboneria,
stabilendo in Russia il dispotismo del "partito unico" e la
conseguente statalizzazione dei sindacati, mentre negli altri paesi
rompeva l'unità sindacale a profitto delle varie tendenze politiche; b)
l'"antimperialismo", che, giusto nella valutazione dei
fattori in gioco, ne traeva conseguenze errate sul terreno della
tattica di lotta e divideva il proletariato con le stesse frontiere
segnate dal capitalismo: il conflitto non era più fra classi, ma fra
nazioni. In quest'ultimo terreno, non faceva che continuare la linea
dei socialisti francesi e tedeschi che trascinarono i due rispettivi
proletariati a una lotta fratricida: anche la guerra del '14 si
giustificava con la necessità di combattere contro l'imperialismo
tedesco. In un caso e nell'altro, prevaleva la ragion di Stato. Se il 1914 segna la
nazionalizzazione (cioè la divisione secondo le nazioni) del
movimento sindacale, il 1917 segna l'inizio della sua statizzazione.
Trasformati in organi dello Stato, che è, nello stesso tempo, il
successore del capitalismo privato come possessore delle fabbriche e
sostituisce quindi il padrone, i sindacati diventano, in Russia,
strumenti di controllo, non solo economico, ma anche politico, sulla
classe operaia. Diventano uno dei settori dell'apparato statale.
Qualcosa di simile successe poi in regime fascista e nazista e, in
America Latina, col peronismo in Argentina e col varghismo in
Brasile. Tale trasformazione ebbe un'immediata ripercussione nei
paesi in cui non s'era prodotta nessuna rivoluzione e imperava un
regime demo-plutocratico. Sorsero dappertutto, come conseguenza della
Rivoluzione Russa, i "partiti del proletariato" che, con la
bandiera d'una nuova Internazionale, la Terza, ancora a Mosca,
produssero la scissione dei diversi partiti socialisti e avviarono a
future scissioni anche il movimento sindacale, legato, a partire da
allora, alla lotta per il potere delle due frazioni. Il sindacato soffre
in questo clima, anche nei paesi democratici, una trasformazione
profonda. Non solo la lotta sindacale perde importanza di fronte agli
obiettivi politici della lotta dei rispettivi partiti per il potere,
ma i suoi dirigenti si trovano spiritualmente nella situazione di chi
si prepara a esercitare il potere stesso attraverso il sindacato, una
volta che il suo partito arrivi al governo. E, nei casi in cui
veramente ci arriva, il processo si accelera. Le vittorie in terreno
economico si cercano perché fruttano voti e perché servono come
moneta sul mercato politico. D'altro canto
(l'ultimo libro di Ziegler lo dimostra palmariamente), l'apparato
statale assorbe e snatura i partiti (soprattutto quelli di sinistra,
vino nuovo in botti più che stagionate) svuotandoli di contenuto
ideologico per metterli al servizio del fatto nudo, brutale, del
potere. L'aveva visto così bene Machiavelli e nessuno gli ha badato.
Ed io penso che sia urgente un ritorno dalla visione della storia di
Marx a quella di Machiavelli, per capire qualcosa del processo
attualmente in corso su scala mondiale. Stando così le
cose, che ha a che fare l'anarchismo con il burocratizzato,
politicizzato, strumentalizzato movimento sindacale? Beh, il lavoro
occupa ancora troppo spazio nella vita di tutti noi, perché
ci si possa disinteressare della sua posizione nella struttura
sociale e del suo avvenire. Le trasformazioni in corso diminuiranno
in modo sensibile le ore di fabbrica, ma non quelle del laboratorio
d'investigazione. Si richiederà meno forza di braccia, più acutezza
di mente, più tempo di studio previo. Una moltitudine di problemi e
soprattutto i vantaggi e i pericoli dell'informatica dovranno essere
studiati dal punto di vista della difesa di chi lavora. Urge, come
sempre, difendere il pane, sì, ma anche proteggere il sistema
nervoso e le capacità di sviluppo fisico e mentale di un nuovo
proletariato, che non sappiamo come sarà. Questo non si può fare
altro che con l'associazione; e l'associazione di chi lavora si
chiama sindacato. Il sindacato non è quindi destinato a sparire,
anche se oggi ci appare svuotato delle sue vere funzioni. Richiamiamo
tali funzioni. Esse sono: a) difendere ed
accrescere il salario, b) capacitare i
suoi membri per una futura autogestione c) organizzare la
solidarietà internazionale per l'appoggio mutuo e la lotta contro lo
sfruttamento e la ragion di stato (che esige in cambio la solidarietà
con gli sfruttatori su un piano nazionale). L'ipocrisia - che
deplorava Machiavelli quando ironizzava sui trattati circa "il
perfetto principe" - regna oggi anche in campo sindacale e compie
una funzione utile, in quanto le suddette tre aspirazioni, grazie a
lei, hanno diritto di cittadinanza, almeno credo, in qualunque
ambiente sindacale. E conviene stare a difenderle, finché si può,
dove sta il maggior numero, se tale presenza non implica una perdita
di dignità personale o adesione a norme inaccettabili (come
succedeva in tempi remoti a chi, con l'argomento di "stare con
la massa", s'iscriveva ai sindacati fascisti). Quando
quest'appartenenza si riveli del tutto impossibile o sterile, allora
sarà il momento di fondare un nuovo sindacalismo, con la bandiera
dell'indipendenza reale da tutti i partiti e da tutti gli
stati e da tutti i nazionalismi, in difesa del lavoro serio e
dell'incolumità del pianeta terra (questa nostra povera patria così
maltrattata) e in rapporto con i movimenti comunitari e cooperativi
d'autogestione, che un po' dappertutto sorgono come infime minoranze
ma con buone prospettive di futuro (se le forze distruttive non
prevalgono a breve scadenza).
Al di fuori
dello stato
Nel mondo che si
prepara, i libertari sono gli eredi - sembra bene che saranno gli
unici - della vecchia tendenza liberale a creare forme organizzate di
base al di fuori dello stato. Solo che allora si trattava
dell'impresa privata capitalista, all'interno della quale tutti i
principi liberali erano negati e violati in nome del potere assoluto
del denaro; e quando si producevano ribellioni contro tale
assolutismo, gli impresari, gli unici "liberi", ricorrevano
allo stato perché esercitasse la repressione al loro servizio. Mai
c'è stata nella storia una menzogna così sfacciata e nello stesso
tempo così accettata nelle disquisizioni accademiche, come il
preteso carattere liberale dell'impresa privata capitalista. Ma
quando tale impresa si socializza e tutti i lavoratori rispettivi ne
assumono l'autogestione, basando i suoi rapporti esterni non più
sulla concorrenza, ma sulla solidarietà federativa, allora sì, la
sua rivendicazione d'una libertà di fronte al potere politico
diventa autentica ed è il potere politico ad essere svuotato della
sua pretesa missione provvidenziale. Forse sarebbe il
caso di rileggere gli articoli di Gobetti in "Rivoluzione
liberale", spogliandoli delle illusioni che gli ulteriori sviluppi
della Rivoluzione Russa e il fascismo non avevano ancora distrutte. Qui il tema per me
sarebbe finito e ne comincia un altro, che credo sarà domani assai
più importante di quello sindacale, ma che bisognerebbe affrontare,
con soluzioni libertarie, fin da oggi: quello dei disoccupati, che
non sono più, e saranno sempre meno, "mano d'opera da
riassorbire", ma saranno sempre più forze disponibili per la
creazione di qualcosa di nuovo, o per la degradazione della specie
umana nella droga e nella violenza gratuita. È
la maggiore sfida che si sia presentata, nei secoli, all'umanità. Su
questo terreno, cominciano ad esserci esperienze interessanti (una
primaria "economia d'alternativa", fuori della cornice
capitalista, sta sorgendo, dalla miseria, nel Cile) e pullulano i
problemi (per esempio, le possibilità dell'educazione permanente e
il modo d'evitare che degeneri in un mezzo di massificazione). Ma
questo è un altro e ben più complicato discorso, per cui "A",
credo, dovrebbe convocare tutta la gamma degli specialisti
disponibili.
|