Rivista Anarchica Online
La rivolta di
Ragusa
di Stefano Fabbri
In
quest'intervista l'anarchico siciliano Franco Leggio rievoca alcuni
momenti del suo impegno militante: dalla rivolta di Ragusa (1945)
all'attuale lotta contro la base missilistica di Comiso. La
magistratura, nel frattempo, non si è rifatta viva con lui. E lo
psichiatra, incaricato di esaminare se Leggio è "matto", lo
sta ancora aspettando.
La vita di Franco
Leggio come quella di molti ragazzi del Sud è segnata, sin
dall'adolescenza, da uno scontro quotidiano con l'ingiustizia: a 14
anni, orfano di padre, è costretto a lavorare nelle miniere
d'asfalto di Ragusa. Appena diciassettenne fa per cinque giorni lo
sciopero della fame in segno di protesta contro il paternalismo del
regime fascista e le regole che impone ai giovani. Da allora in poi
porterà avanti un'instancabile opera d'agitazione sociale e
cominceranno per lui le "attenzioni" della regia polizia
prima, delle gerarchie militari poi, quindi delle "forze
dell'ordine" della "repubblica democratica nata dalla
resistenza". Nella conversazione
Franco ci guida, lungo il filo rosso dell'antagonismo operaio che
s'intreccia con quello dell'azione anarchica, fino ai giorni nostri.
Risalgono però all'immediato dopoguerra le vicende più singolari
fra quelle narrate in queste pagine. Dalle sue parole emergono i
contorni di esperienze intensissime vissute dal proletariato
siciliano e cancellate dalla storiografia ufficiale con l'ausilio ed
il beneplacito dell'intellighenzia marxista. Esperienze soffocate nel
sangue, nella repressione delle quali emerge con troppa evidenza la
responsabilità del primo governo "democratico" della
Repubblica, ove erano coinvolti tutti i partiti dell'"arco
costituzionale", inclusi i comunisti i quali vantavano ministeri
come quelli delle Finanze e della Giustizia, tenuti rispettivamente
da Mauro Scoccimarro e Palmiro Togliatti. Ma contrariamente a
quanto ci si voglia far credere, la rivolta di Ragusa del '45 ove
Leggio fu protagonista, o la stessa occupazione dei cantieri minerari
del '49, furono solo due dei momenti di altissima conflittualità fra
i tanti prodotti in modo spontaneo, ma assai determinato, da larghe
masse di lavoratori meridionali all'indomani della cosiddetta
"liberazione" e non certo "casi" isolati.
Domenico Tarantini, nel suo libro "La maniera forte, elogio
della polizia" (Bertani Editore, Verona 1975), introduce bene a
quei fatti: "Il 17 maggio 1944, dopo la costituzione del governo
di "unità nazionale", la polizia spara a Regalbuto: due
morti. Il giorno dopo, fuoco a Licata sui mietitori disoccupati che
tumultuano contro l'ufficio di collocamento: tre morti, centoventi
arresti. Ma arriva anche l'occasione di far intervenire l'esercito.
Il 19 settembre 1944, gli impiegati del comune di Palermo scendono in
piazza perché non ricevono da alcuni mesi lo stipendio. Alla
manifestazione si unisce anche una grande folla che tumultua
chiedendo lavoro. Contro i manifestanti vien fatto intervenire il
139° reggimento di fanteria, che spara anche con le mitragliatrici:
novanta morti e centocinquanta feriti; molti sono bambini e donne".
Quali furono gli
antefatti della rivolta di Ragusa?
C'è da
sottolineare che in quell'epoca i fascisti ed i monarchici erano in
fermento e noi, pensando che stessero organizzando qualcosa,
c'eravamo preparati ad ogni evenienza sia facendo opera di agitazione
che armandoci. Io all'epoca ero ricoverato nel sanatorio civile di
Ragusa per incipiente tubercolosi e per essere presente a riunioni ed
azioni ne uscivo di nascosto. Avevamo costituito dei gruppi d'azione.
Dal primo giorno, fino alla conclusione della rivolta non vi entrai
più. La scintilla fu
data nel dicembre del '44 dal decreto Badoglio che imponeva la
mobilitazione per continuare la guerra, questa volta sotto la
bandiera degli alleati. La ribellione fu istintiva soprattutto fra le
donne, perché la cartolina precetto richiedeva la presentazione dei
giovani al più vicino distretto militare. Bisognava andarci,
oltretutto, già muniti di coperte e finanche d'un cucchiaio. Le cartoline
vennero presto bruciate in piazza, ed in un primo momento alle
manifestazioni parteciparono anche i fascisti la cui presenza veniva
di volta in volta da noi denunciata. Le riunioni si tenevano in un
campo alla periferia della città, chiamato "'a ciusa",
dove ci s'incontrava nelle ore notturne. In particolare ricordo lo
smascheramento e l'espulsione da una di queste di un caporione
squadrista, tale Rocco Gurriero. Il suo intervento, mirante a fare
del malcontento uno strumento in favore dei "camerati del Nord"
della Repubblica di Salò, venne interrotto da Franco Calamusa. In
seguito al discorso di questo nostro compagno, alla parola d'ordine
"non si parte" adottata sino allora, venne aggiunto "ma
indietro non si torna", motto che poi si trasformò in "fari
u partigianu 'cca". Intanto polizia,
carabinieri e mezzi dell'esercito davano la caccia di casa in casa ai
giovani precettati, rastrellando tutti i diciottenni. La mattina del
4 gennaio '45 una pattuglia entrata nel quartiere "'a Russia"
- così chiamato perché particolarmente "rosso" - scovò in
un'abitazione un gruppo di ragazzi che vennero arrestati e caricati
su un camion. Il fatto suscitò l'indignazione delle donne che,
vedendosi strappare i figli, corsero da Maria Occhipinti. Questa
aveva fondato la sezione femminile del PCI a Ragusa, forte di
centinaia di presenze, ma all'epoca dei fatti aveva già abbandonato
il partito per costituire, assieme a Erasmo Santangelo, un gruppo
comunista dissidente. Fu proprio lei che, uscita precipitosamente di
casa si gettò sotto le ruote del camion quando l'autista lo stava
mettendo in moto; le altre poterono così liberare i cinque ragazzi
che, protetti dalla massa vennero sottratti alla coscrizione. Nel frattempo
alcuni giovani del gruppo del quale facevo parte, stavano
trasportando nelle vicinanze dei fucili "91" e delle bombe
a mano rubati da una masseria di clericali e monarchici. Vennero però
intercettati dai carabinieri e all'intimazione dell'alt risposero
aprendo il fuoco".
Le decisioni
venivano prese chiaramente al di fuori dei partiti. Si trattava di un
confluire spontaneo di spirito rivoluzionario e volontà di riscatto?
Sì. Da quel
momento iniziò la mobilitazione e la sera ci ritrovammo in trecento,
armati, al solito appuntamento dove prendemmo la decisione di dare
l'assalto ad un posto di blocco in contrada Beddio, un importante
nodo stradale. Il giorno dopo si passò nelle abitazioni per
promuovere l'azione invitando ognuno a portare con sé le armi di cui
poteva disporre. La mattina seguente dopo un conflitto a fuoco i
militari vennero disarmati.
Parteciparono
anche donne?
All'assalto, come
riportato anche nel suo libro "Una donna di Ragusa" (Landi
Editore, Firenze 1957), partecipò la stessa Maria Occhipinti.
Che successe in
seguito?
Ci venne segnalata
un'autocolonna militare proveniente da Catania. Ci disponemmo quindi
in modo adeguato e fermammo e catturammo tutto il convoglio.
C'impadronimmo così di tre camion , alcune casse di bombe a mano e
fucili, una mitragliatrice pesante, altri materiali e viveri. Facemmo
inoltre cinquanta prigionieri in tutto, (tra i quali dieci fra
carabinieri e finanzieri) che vennero dati in consegna ad alcuni di
noi e portati all'acquedotto.
Gli altri si
diressero verso il centro della città?
Esattamente. Per
prima cosa occupammo il campanile della chiesa di via Ecce Homo, dove
piazzammo una mitragliatrice pesante. Da lì controllavamo la strada
che divide in due la città, in fondo alla quale c'era un edificio
scolastico nel cui poggiolo era di stanza una pattuglia di cinque
militari, anche loro muniti di una mitragliatrice pesante, con la
quale controllavano la prospettiva sia da nord che da sud. Ci si pose
così il problema di neutralizzare questa postazione.
Come avete fatto
a raggiungerli senza essere visti?
Non si poteva
naturalmente scendere lungo i marciapiedi. Passammo quindi di casa in
casa per l'adiacente ed aristocratica via Roma, facendo irruzione
nelle residenze di molti tra i signorotti locali, ed attraverso i
tetti giungemmo di fronte all'obiettivo. Proprio da dentro il
tribunale, da un piano sopraelevato rispetto al balcone dove erano i
soldati, lanciammo una bomba a mano che fece saltare il portone della
scuola. Vista la malaparata, i componenti del presidio si
consegnarono a noi. In seguito venne occupato anche il distretto
militare. Ulteriori
prigionieri venivano fatti frattanto da altri gruppi di rivoltosi
sorti spontaneamente. La sommossa si stava estendendo rapidamente a
tutta la città: le pattuglie venivano disarmate e con loro gli ex
fascisti, circondate la tenenza dei carabinieri e la questura.
Eravamo ormai padroni del campo. Gli agrari vennero
espropriati dei loro averi ed ottenemmo così anche quanto ci serviva
per approvvigionarci.
Che posizione
prese il Partito Comunista?
Venne inviato sul
posto con urgenza il segretario della Federazione Regionale, Gerolamo
Li Causi, membro anche della Direzione Nazionale. La sua posizione
era nettamente contraria a quanto stava accadendo ma non poté fare
altro che verificare la completa rottura con la base stessa del
partito, tanto che si rinchiuse all'interno della federazione senza
mai farsi vedere.
Quale era la
composizione politica dei rivoltosi?
La base del PCI era
con noi, ma la maggioranza era gente comune o operai delle miniere
che il nostro gruppo conosceva bene. Infatti nei cantieri di Ragusa,
nei quali tra l'altro io ho lavorato dall'età di 14 anni, il livello
di coscienza era stato sempre piuttosto alto. Nel '44 poi, di notte,
assentandomi dall'ospedale, assieme agli anarchici Mario Perna,
minatore e Pino Catanese, aiutante tipografo, iniziammo la stesura
del manoscritto "La Scintilla darà la Fiamma", foglio che
veniva diffuso tra i "picciaruoli" delle miniere e che
indubbiamente aveva contribuito a preparare il terreno per
l'imminente rivolta.
Ricordi qualche
episodio particolare?
Ricordo che
disarmammo e chiudemmo nella sua abitazione, sotto sorveglianza, un
certo Puleo, ex capitano della milizia fascista che deposti gli
abiti, faceva ancora il nostalgico anche dopo la caduta del regime.
Per i
prigionieri come avete fatto?
Erano già quasi
200 e ci si poneva la questione di come sfamarli. Debbo dire che a
questo proposito accadde qualcosa di estremamente significativo: le
famiglie degli operai e dei contadini, che spesso avevano già dei
figli nell'esercito al Nord, si immedesimarono nella situazione dei
militari catturati e cominciarono a portar loro spontaneamente da
mangiare. Da parte nostra ci preoccupammo di trovare degli abiti
civili perché avevamo l'intenzione di far sì che tornassero liberi
alle loro case.
Che
ripercussioni ebbero all'esterno i fatti di Ragusa?
A Catania ci fu un
assalto al tribunale militare che però rimase un fatto isolato.
Invece la rivolta si estese a tutti i paesi della provincia:
Vittoria, Comiso, Acate, Modica, Sicli, Monterosso. In alcuni di
questi, come a Giarratana, disarmati i militari di stanza nel luogo,
i latifondisti vennero espropriati delle riserve di granaglie e
frumento, distribuite gratuitamente alle famiglie dei lavoratori,
soprattutto per opera del compagno Bartolo Nasello. Generalmente
vennero bruciati gli uffici delle imposte ed i distretti.
Dopo aver
ottenuto il controllo sulla città che provvedimenti avete preso per
difendere le conquiste raggiunte?
Cercammo di
bloccare gli accessi e ci fortificammo nella contrada Annunziata per
impedire il passaggio di eventuali rinforzi. Di lì a poco, infatti,
arrivarono i primi plotoni da Catania e Siracusa, appoggiati da un
aereo che controllava le nostre posizioni. Si trattava della
"Divisione Sabaudia". Cominciarono i
primi scontri e presto finirono le munizioni delle nostre due
mitragliatrici pesanti. Vennero a scarseggiare anche le altre scorte
di proiettili così che dopo quattro giorni e quattro notti i
combattimenti terminarono del tutto e fummo costretti ad arretrare
sotto l'incalzare del fuoco. I militari, appena entrati in città
cominciarono a reprimere ed a rastrellare.
Maria
Occhipinti, nel suo libro, citando le cifre ufficiali
sull'insurrezione in tutta la provincia parla di 18 morti e 24 feriti
fra carabinieri e sodati, e di 19 morti e 63 feriti fra gli insorti,
aggiungendo però che le stime reali potevano essere sensibilmente
diverse. Tu rispetto a ciò cosa ricordi?
Il numero dei morti
non s'è saputo mai veramente. Siamo andati a fare un'inchiesta in
comune e non ci hanno mai fornito cifre esatte. S'è parlato, per
Ragusa, di 5 o 6 morti fra i rivoltosi e di 11 (ma c'è anche chi dice
17) fra i militari. "L'Unità" diede la notizia della rivolta
solo con i militari già all'opera quando, senza neanche denunciare i
pericoli insiti nella grande libertà d'azione concessa alle forze
armate, il 9 gennaio '45 titolava proditoriamente: "Rigurgiti
della reazione fascista. I latifondisti siciliani contro il popolo e
contro l'Italia".
Che effetti ebbe
la repressione?
Per tre, quattro
giorni i soldati impazzarono nella città. Passando per le abitazioni
portavano via tutti gli uomini che trovavano e con loro tutto ciò
che gli faceva comodo: alimenti, lenzuola, suppellettili ed altro.
Dalle malversazioni non vennero risparmiate neanche le donne e molti
degli arrestati, una volta condotti in questura, furono costretti a
subire torture. Nonostante ciò in
tanti riuscirono a scappare. Alcuni si rifugiarono in altre città
dove poi si stabilirono. Ci fu, anche nel nostro gruppo, chi
addirittura migrò verso l'America Latina. Io ed altri ci nascondemmo
sino alla fine della bufera. A quel punto, salutati i compagni,
riuscii a rientrare indenne al sanatorio. Lì il direttore decise in
un primo momento di espellermi, ma anche per l'intervento degli altri
sanitari fui riammesso con l'obbligo di non muovermi più. Così
feci, ed in giugno venni dimesso. Fino ad allora la
polizia non aveva avuto nessuna prova contro di me; solo i
carabinieri, sospettando la mia partecipazione ai moti erano venuti a
cercarmi ma, sia il portiere che la suora del reparto (la quale
arrivò, per difendermi, a giurare sulla Bibbia), avevano dichiarato
che non mi ero mai allontanato. Di lì a poco però venni denunciato
con una telefonata da una dottoressa, la quale affermò che durante i
giorni degli scontri mi ero assentato dall'ospedale passando per la
finestra. Arrestato in casa, fui associato direttamente alle carceri
dove rimasi per 16 mesi. Non vi fu processo poiché incorsi nella
cosiddetta "amnistia Togliatti" (quella che rese l'impunità
anche ai fascisti).
E dopo la tua
permanenza in galera che si formalizza il gruppo "La Fiaccola"?
Fino ad allora, pur
essendo anarchico il nostro era un gruppo informale. Mentre ero in
carcere ebbi il sostegno di Giuseppe Fiorito di Catania e
dell'avvocato Albanese, che mi diedero tutta l'assistenza possibile.
Quando fui fuori li andai quindi subito a trovare. In seguito,
scendendo per Siracusa, passai da Umberto Consiglio e tramite lui
venni a sapere che a Modica c'era un vecchio compagno anarchico:
Giuseppe Alticozzi. Fu proprio questi che durante un incontro a
Ragusa ci suggerì di chiamare il nostro gruppo "La Fiaccola".
Eravamo nel 1946. Cominciammo subito
a prendere contatti con gli altri compagni della Sicilia e della
Penisola. Attraverso Alfonso Failla stringemmo rapporti anche con il
gruppo di Messina di Placido La Torre, Gino Cerrito, e degli altri. A
Ragusa avevamo lasciato al sanatorio un buon numero di compagni, e
con il loro apporto realizzammo tra i degenti il necessario per
stampare un numero unico "La Diana". Intensificammo
quindi l'attività propagandistica organizzando conferenze con
Failla, Consiglio, Carbonaro (di Bologna) ed altri. Anche Maria
Occhipinti, dopo avere subito una pena di 22 mesi, entrò nel nostro
circolo, che aderì poi alla Federazione Anarchica della Sicilia
Sud-Orientale.
Pochi mesi appresso
io tornai a lavorare nelle miniere. Riprendemmo quindi
un'intensissima propaganda tra i minatori fino a che, nel '49, la
direzione minacciò 200 licenziamenti fra impiegati ed operai. Fu
allora che presero l'avvio forme di lotta durissime. Tutti rifiutarono
il piano padronale, naturalmente anche i comunisti ed i sindacati. Ma
noi riuscivamo sempre a scavalcare il PCI: se questi consigliava uno
sciopero di tre giorni, appoggiati dai lavoratori imponevamo lo
sciopero ad oltranza; se scendeva sullo stesso terreno portavamo la
gente ad occupare il cantiere; se quindi dopo vari tentennamenti
anche la Camera del Lavoro aderiva a tale forma di lotta, si
proponeva l'autogestione come unico sbocco vincente.
Quanto durò la
lotta?
Quasi due mesi. Con
l'occupazione ad oltranza e l'autogestione licenziammo tutti gli
elementi ligi alla direzione: alcuni tecnici ed i capi cantiere.
Vennero bloccati gli accessi alle miniere e tenuti a bada poliziotti
e carabinieri venuti a portare un vero e proprio assedio. Eravamo
circa 1500 fra manovali, picconieri, minatori ed aiutanti; la lotta
riguardava tutte le miniere di Ragusa del gruppo ABCD (Asfalto,
Bitume, Catrame e Derivati).
Che contatti
avevate con l'estero?
Erano le donne che
facevano da tramite fra noi e l'estero. Lasciavamo entrare anche
tutti i politici ed i sindacalisti ma con l'impegno di voler
accettare il contraddittorio. Comizi, conferenze e trattative
dovevano essere tenuti all'aria aperta.
Come andò a
finire?
I sindacati e gli
esponenti del PCI, senza chiedere il parere dei lavoratori,
arrivarono ad un "accordo" separato: accettarono 40
licenziamenti indiscriminati a scelta della direzione dell'azienda.
Il consigliere regionale ing. Nicastro ed il deputato Virgilio
Failla, ex fascista, ambedue del PCI, ci comunicarono pubblicamente
che si richiedevano "40 teste". Vennero trattati come
meritavano, a schiaffi e sputi, da vigliacchi e traditori. Dopo questa
sorpresa, grazie quindi all'opera di pompieraggio delle burocrazie
politiche e sindacali, gli operai decisero di abbandonare le miniere
e si ritirarono in assemblea permanente fuori dal paese, tanto che la
polizia e padronato temettero il peggio. Ma le privazioni e
la stanchezza poterono più delle minacce e la lotta venne
gradatamente riassorbita. Dopo 7 giorni si tornò al lavoro e
passatine altri 20 cominciarono a fioccare i licenziamenti. Io venni licenziato
in tronco per aver strappato un ordine di servizio. Decisi però di
continuare a presentarmi sul posto di lavoro, dove ero stato
conduttore dei forni, e nonostante venissi spesso prelevato e
condotto in questura, continuai così per un altro mese. Mi si
propose, se avessi accettato il licenziamento, una liquidazione di
70.000 lire. La rifiutai.
Vi furono altre
lotte in quegli anni?
In tutto il Sud
c'era un forte movimento d'occupazione delle terre, nel quale si
profusero le migliori energie dei contadini, che credevano in un
cambiamento concreto, mentre per il PCI si trattava essenzialmente di
un gioco demagogico per condurre una lotta più simbolica che reale.
Molte azioni vennero così abbandonate a se stesse ed all'opera
della reazione. Si praticavano poi
i cosiddetti "scioperi del lavoro".
Tu però di li a
poco ti allontanasti da Ragusa.
Mi trasferii a
Napoli già nel 1950 e vi rimasi per 6 anni. Qui Giovanna Berneri,
che insieme a Cesare Zaccaria animava il gruppo "Volontà",
mi trovò un lavoro nella tipografia dove si stampava l'omonima
rivista. Andai poi a lavorare come manovale edile nei cantieri della
SILM. A Napoli collaborai
anche con il gruppo "Anarchismo" di Giuseppe Grillo ed
Emanuele Visone. In seguito fui a
Genova dove per vivere scaricavo merci al porto. Qui rimasi qualche
anno e presi precisi contatti con la resistenza libertaria spagnola e
con i suoi esponenti dell'interno, fra cui Alberto Facerias, e
dell'esterno, come Cipriano Mera che rappresentava, con altri,
l'esilio anarcosindacalista iberico in Francia. Fra le altre cose
fui delegato dell'Unione Sindacale di Genova al congresso AIT
(Associazione International des Travailleurs) di Bordeaux. Partecipai
quindi all'attività del movimento'"Nuova Resistenza" che
aveva sede all'interno dei "Gruppi Anarchici Riuniti" di
Genova. Tornai a Ragusa
proprio nel luglio '60 quando si profilavano tentativi di golpe,
poiché anche con altri compagni ci si rese conto che, a causa
dell'emigrazione, il Sud s'era andato svuotando di militanti
rivoluzionari.
Fu allora che
sorse l'editrice "La Fiaccola"?
Nei primi anni '60
rilevai la collana "Anteo", alla quale affiancai quella de
"La Rivolta" e cominciai l'attività editoriale con "La
Fiaccola". Il resto è storia
recente. Sono stato tra i
fondatori della rivista "Anarchismo", dalla quale sono
uscito nel '78 quando la redazione si trasferì a Forlì.
Negli anni '80
il gruppo di Ragusa ha avuto una parte notevole nella promozione
della campagna contro l'installazione dei missili Cruise.
Fummo noi anarchici
di Ragusa a promuovere la costituzione del "Gruppo Provvisorio"
ed a iniziare l'agitazione contro l'installazione dei missili Cruise.
Tra le altre cose si creò il giornale "Sicilia Libertaria"
che ha affiancato sin dall'inizio quella campagna, la quale continua
tutt'ora con comizi ed iniziative dopo che nel 1983, con il
contributo del movimento anarchico a livello nazionale, si tentò
l'occupazione della base di Comiso.
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