Rivista Anarchica Online
Io, sfrattata
di Lella Bodrato
Una delle
migliaia di vittime degli sfratti e della burocrazia racconta la sua
esperienza, tutt'altro che conclusa.
40 giorni di
sgomberi selvaggi, tremila sfrattati tra cui vecchi e bambini -
sistemati negli alberghi a spese del comune - 40 mila vani previsti
dal piano casa all'inizio degli anni '80 ma neppure un appartamento
ultimato. Ecco la situazione della "civilissima" ed
efficiente metropoli lombarda che ha portato recentemente al solito
provvedimento-tampone della proroga. E intanto? Intanto il comune
paga cifre astronomiche per la permanenza negli alberghi, intanto
3.000 persone vivono da mesi lontano dai loro quartieri, sradicati
dal loro tessuto sociale, in una situazione di totale precarietà
aspettando - come il famoso personaggio di Beckett - che insieme a
Godot arrivi anche una casa in cui poter vivere (pagando l'affitto,
naturalmente!). Tra questi 3.000
c'è un'amica libertaria che ha voluto raccontare cosa significa
vivere una simile esperienza, che ha voluto denunciare le
umiliazioni, la violenza, le sopraffazioni che questo stato
"democratico" riserva a chi non ha soldi né potere
attraverso i suoi fedeli servitori (efficientissimi gli ufficiali
giudiziari, ma conniventi tutti i ranghi della burocrazia). Lella Bodrato,
50 anni, un figlio di 15 anni che ha allevato da sola, è infermiera
professionale e cerca di sbarcare il lunario con il suo lavoro come
assistente sanitaria e con assistenze private. È ovvio che non abbia
mai pensato a comprarsi una casa. Come avrebbe potuto? Una volta
ricevuto lo sfratto, quindi, aveva due possibilità: cercare una casa
in affitto (ma si sa che sono introvabili, e comunque a canoni
inaccessibili per chi non dispone di redditi molto elevati) oppure
accettare di vivere fino in fondo l'esperienza sfratto e farsi
assegnare una casa popolare. Lella ha scelto
(ma si può parlare di scelta?) quest'ultima. Ecco la sua
testimonianza.
Abito in uno
stabile di via Barelli al 5 dal giugno del '71: mi ero trasferita
dalla casa di via Bragadino perché aspettavo Giulio e sarei stata
più comoda per il lavoro. Ci sono rimasta col bambino fino ad oggi.
Fino a quando si è parlato di sfratto. Le proprietarie sorelle Rapp,
non potendo più affrontare le spese, decisero di vendere. Così,
nell'autunno dell'82 gli operai iniziarono a rimettere a nuovo la
facciata che andava a pezzi, nel tentativo di ridarle un aspetto
presentabile in previsione della vendita. A quel tempo avevo chiara
la sensazione di entrare in una situazione di precarietà e di
disagio che sarebbe durata diversi anni. Pensandoci, il vero inizio
fu proprio quello. Finiti i lavori, la
casa sembrava nuova, anche se era solo un'apparenza. Cominciammo a
ricevere visite di agenti immobiliari che ci invitavano
insistentemente a comperare, dipingendoci a fosche tinte le peripezie
che avremmo dovuto affrontare nel caso contrario. Nei miei confronti
prendevano sempre Giulio come motivazione: "Lei poi che ha un
figlio non può fare altrimenti: glielo deve!". Ne avevo un po' pena. Il giorno 25/2/83
ricevemmo (eravamo 28 famiglie circa) lo sfratto. Fu il primo dei
"pezzi di carta importanti" e, anche se era scontato, ci
fece effetto. Fu come entrare in un labirinto da cui chissà quando
saremmo usciti. Per la prima volta venivamo a contatto con una
terminologia inconsueta che a poco a poco sarebbe diventata abituale. Per alcuni mesi non
ci furono cambiamenti: continuavamo a versare l'affitto alla vecchia
amministrazione. Alcuni di noi avevano acquistato il loro
appartamento. Il mio vicino aveva anche preso una delle mie due
camere, quella adiacente alle sue. Il tinello e i servizi li aveva
comperati una vecchia signora in pensione. Chi aveva acquistato
l'aveva fatto in linea di massima per evitarsi lo stress dello
sfratto e a prezzo di molti sacrifici. La mia nuova
proprietaria voleva entrare subito ed era molto preoccupata di dover
aspettare. Il 13 maggio '83 arrivò un avviso di "finita
locazione" dal tribunale e il mese dopo la conferma dello
stesso. Diverse volte ci
recammo al SUNIA per chiedere consigli sul modo di comportarci. Gli
avvocati ci invitarono a presentarci tutti alla televisione per una
protesta, ma poi non se ne fece niente perché noi inquilini non
eravamo molto uniti e ciascuno pensava ai fatti suoi. Gli avvocati ci
dissero che all'udienza in tribunale, fissata per dicembre '83, non
dovevamo "opporci alla sentenza ma affidarci alla decisione del
giudice". La "clemenza" del giudice fece sì che, in
dicembre, ci fosse concessa una proroga di 10 mesi. Nell'ottobre
dell'84 avremmo dovuto presentare i documenti per l'istanza di
rifissazione in base alla legge n.94 (Nicolazzi) che ci avrebbe
prolungato la proroga di un anno facendoci arrivare fino all'ottobre
dell'85. E così si fece. Nel frattempo io chiedevo in Comune se mi
era permesso di fare la domanda per le case popolari essendo l'unica
soluzione possibile per me, ma mi rispondevano che, non essendoci il
bando di concorso, non era possibile. Così non l'avrei fatta la
domanda e mi sarei trovata all'ultima proroga fuori casa nella
necessità di affidarmi ad un legale che non avrei saputo come
pagare.
Quello
scantinato buio e polveroso
Mi fu d'aiuto una
collega iscritta ad un sindacato autonomo che mi preparò la domanda
per l'edilizia popolare e la inoltrò. Devo esserle molto grata
perché fu un passo importante nella storia dello sfratto. Sembra che
si usi dissuadere la gente a fare la domanda con la scusa che non c'è
il bando: domande in meno insomma! La domanda fu presentata
nell'agosto dell'84. Appena in tempo. Da ricordare un episodio a
conferma della solita efficienza della macchina ministeriale. Sulla
nostra sentenza di sfratto (mia e della mia vicina Enrica) la
segretaria dell'avvocato delle sorelle Rapp aveva fatto un errore di
data: un semplice errore che dall'85 riduceva all'84 l'anno della
proroga finale. Una bazzecola che mi obbligò ad andare a casa
dell'avvocato a fare correggere la "svista" e poi ci
indusse a tornare al "Palazzo di Giustizia" per far
cambiare la data sulla copia. Ma in tribunale la nostra pratica era
già in archivio e di personale disponibile per la ricerca non ce
n'era. Così, l'Enrica (ottantenne) ed io passammo due ore nello
scantinato buio e polveroso a cercare tra mille scartoffie la nostra.
Quel giorno tornammo a casa sporche, stanche e avvilite. Cominciai a versare
gli affitti trimestrali ai nuovi proprietari. Il mio vicino è sempre
stato preciso e con lui tutto è filato liscio nei versamenti.
L'altra non mi ha mai mandato una "nota spese" né una
ricevuta per cui ogni volta è stato uno stress terribile indovinare
quello che le dovevo. Ancora adesso non so se sono in debito o in
credito. Ricordo l'ansia che
ci ha preoccupato nei mesi prima della proroga per la legge
Nicolazzi. La conferma è arrivata nel giugno dell'85, quando
dall'ottobre dell'84 noi avevamo esaurito la proroga che il giudice
ci aveva concesso nel dicembre '83. Insomma per 6 mesi noi non
sapevamo niente di preciso se avremmo avuto la proroga o no! Tutte le
nuove convocazioni arrivavano ora a nome del mio vicino e dell'altra
proprietaria. Il 24/1/85 arrivò
l'ordine di precetto. Fu la prima volta che dovetti andare al
"Pirellone" o Palazzo del Comune di piazza Einaudi a
portare un foglio di proroga. L'Atto di precetto mi intimava di
lasciare libero da persone e cose il mio appartamento entro 10
giorni. Andai a Palazzo
Pirelli alla mattina alle 8: vidi una gran folla di gente che gridava
e gesticolava. Tutti erano ammassati in un esiguo spazio con un caldo
incredibile e un'aria irrespirabile. La prassi mi era nuova: confesso
di avere avuto un attimo di panico e un netto rifiuto mi obbligò a
scappare via e a tornare a scuola senza aver combinato niente. Il
medico scolastico mi disse quel giorno molto realisticamente che non
dovevo fare storie e che temeva che la cosa sarebbe entrata a far
parte del "quotidiano" e che la dovevo accettare. Dentro di
me continuavo a ripetere che non era possibile, che a me non poteva
succedere, che io avrei usato un sistema diverso! E per quella volta
infatti chiesi il privilegio, e lo ottenni, di farmi aiutare da
commessi comunali che conoscevo da tempo immemorabile. Mi andò bene,
non feci nessuna fatica: salii per scale segrete e attraverso
corridoi interni arrivai allo sportello senza fare coda. Insomma mi
si fece "passare". Solo che, quando vidi tutta la gente
dietro di me, e mi resi conto che erano tutte persone che da giorni
aspettavano di essere ricevute, mi vergognai come un ladro e giurai
che quella era la prima e l'ultima volta che avevo accettato "il
privilegio". Effettivamente per
tutti gli altri invii dell'Ufficio Giudiziario ho seguito la prassi
cosiddetta normale anche se è la cosa più allucinante che mi sia
mai capitata. Quello che è grave è che ci hanno ridotto a un punto
tale di stanchezza e di insofferenza che abbiamo perso di vista le
vere dimensioni del problema e siamo entrati in un'ottica assurda per
cui questo "iter" assolutamente fuori dalla norma ci sembra
l'unica via possibile. Soltanto in rari momenti mi accorgevo che
stavo vivendo un'esperienza inaccettabile e allora, data
l'impossibilità a fare qualcosa per cambiare la situazione, mi
riempivo di rabbia. Dopo il precetto è
arrivato "lo sloggio". Il solo fatto di considerare questi
termini non come astrazioni ma come cose concrete che venivano a far
parte della nostra vita ha del patologico.
Al miglior
afferrante
Per lo sloggio
andai al palazzo una mattina che c'era una gran confusione. Non si
era ancora costituito quel corpo volontario che avrebbe messo un po'
di ordine nelle file della gente che attendeva: sarebbe arrivato
pochi giorni dopo e avrebbe fatto senz'altro molto comodo
all'amministrazione e ai vigili. Il giorno che andai
per avere il numero o meglio il biglietto col numero (che serve per
andare a portare il foglio di proroga) non ci fu bisogno di aspettare
molto una volta entrati nell'atrio (si aspettava comunque da ore
prima dell'apertura dell'Ufficio, per la strada). Un commesso forse
indeciso sul da farsi o intimorito dalla massa (chi gli poteva dar
torto?) per non farsi avvicinare troppo dalla gente, gettò in aria i
biglietti come offrendoli al miglior "afferrante". Io non
riuscii ad afferrarne neppure mezzo. Mi presi quel giorno una
gomitata nello stomaco che si trasformò in una fastidiosa dolorosa
nevrite intercostale duratami per molto tempo. Quel giorno non feci
niente ma ricordo che parlando con una vecchietta venni a sapere che
a volte i numeri venivano venduti e c'era gente che aveva pagato
anche 100 mila lire per ottenerli. Non ho mai avuto occasione di
vedere lo scambio personalmente: l'ho solo sentito raccontare. Durante le mie
"visite" al palazzo mi ha colpito dolorosamente la presenza
degli anziani, la loro fatica, la loro sofferenza, i loro disagi. A
volte c'era accettazione paziente nella loro attesa, a volte invece
ribellione orgogliosa e fiera: sempre comunque la loro presenza mi è
stata di aiuto e di incentivo a non mollare. Sono passati ormai molti
mesi da quei primi giorni ma ho presente come fosse ieri tutti quei
visi, quelle voci, quelle storie. Tornai il giorno
dopo ma, essendosi costituito quel gruppo di volontari, mi dissero di
tornare la sera per le 21. La sera andai e mi ritrovai insieme a 300
persone in un salone a piano terra. Eravamo pigiati e sudati,
qualcuno fumava e molti stavano male. Alle 21.30 i
volontari cominciarono a leggere i nomi su una lista che era stata
compilata quella stessa sera. I primi 140 numeri dovevano presentarsi
il giorno dopo in mattinata e nel pomeriggio. Io ricevetti un numero
alto, così avrei dovuto ritornare la sera dopo per avere un numero
più basso e potermi ripresentare l'indomani in giornata; ovvio che
il numero serve per andare e portare il foglio di proroga! C'è una
signora anziana che viene da Crescenzago e ha lasciato a casa il
marito paralizzato; ogni tanto chiede al "signore" in
milanese di "far presto, lo sai che lui ha bisogno di me!". Qualche giorno
prima, mi dicono, una donna operata di cancro al seno, tornando da
piazza Gorini, dopo l'intervento e la degenza, ha trovato la porta
sigillata per sfratto eseguito. Vorrei conoscere l'ufficiale
giudiziario e l'avvocato che hanno potuto fare una cosa simile. C'è
gente di ogni colore, anche coreani. I bambini di colore sono
bellissimi. Mi diedero quella sera il numero 140 e la sera dopo
ottenni il 33. Il 33 mi dava
diritto al pomeriggio. Fu allora che l'impiegato allo sportello non
trovando la mia pratica mise in dubbio che avessi mai presentato la
pratica stessa. Quel giorno ebbi un attimo di panico: che fosse vero,
che l'avessi solo sognata tutta quella storia? "Ma non è
possibile" ricordo la mia voce stridula per la paura "Ci
deve essere! Forse non ha capito il nome: è un nome difficile". "Per sua norma
io capisco i nomi, siete voi che non scandite bene le parole". Alla fine la
pratica è saltata fuori. Non è una cosa inconsueta: succede anche
che vadano perse. Ho parlato con un muratore che ha dovuto rifare
tutti i documenti e, per di più, loro non credevano che a suo tempo
avesse già presentato la pratica! Quella volta ho preso un tale
spavento!
La vecchia
signora piangeva
Devo dire che ogni
volta che mi sembra di non poterne più e rasento la disperazione
viene sempre qualcosa a tirarmi fuori. Spesso è il racconto di
qualche esperienza più disperata della mia, talvolta una forza che
mi viene dal di dentro che mi dice che non devo cedere. Insomma mi
risollevo sempre e ricomincio. Se penso a tutti i giorni di permesso
che mi è costata 'sta storia! Anche quando deve venire l'ufficiale
giudiziario in casa perdo i giorni di lavoro. Non so mai a che ora
arriva! A volte i proprietari vengono anche loro ad aspettarlo
insieme a me. La vecchia signora un giorno piangeva disperandosi. Sia
a loro che a me sembra che non verrà più il tempo in cui questa
allucinante storia sarà solo un ricordo! Dopo lo sloggio
cominciarono ad arrivare le proroghe mensili: marzo, aprile, maggio,
giugno, fino al 20/6. Seguì una "proroghetta" di 10 giorni
fino al 30/6 concessa a tutti. Poi, per luglio dovevamo andare in
casa albergo. Invece arrivò per tutti la proroga fino ad un giorno
non precisato di settembre. Sono a questo punto ora. Stiamo
aspettando. La pausa dell'estate ci ha un po' ritemprati, nonostante
il disagio del caldo. Durante questi mesi, ogni qualvolta andavo a
palazzo Pirelli trovavo dei cambiamenti nella prassi. Non si dovette
più andare la sera ma la mattina presto. Mi capitò di arrivarci
alle sei col primo metrò. La mattina ci si metteva in lista poi si
tornava il giorno dopo, sempre a seconda del numero. Un episodio
rilevante da ricordare è quello di quel vecchio signore di 80 anni
buttato fuori dalla "forza dell'ordine" per sfratto
esecutivo che, avendo rifiutato la "casa albergo" passò quasi
tutta la notte fuori dal palazzo. Tra l'altro era il periodo delle
nevicate. Quando aprirono gli uffici alle 8 lui non si reggeva più
in piedi e dovettero portarlo dentro a braccia. Gli dettero del the
caldo e poi lo portarono dal Signor Assessore all'Edilizia che, per
quell'occasione si concretizzò. Quel giorno ci fu un urlo di
ribellione quando si vide quel vecchio portato dentro di peso. Quel
vociare irato ci fece capire che non eravamo vinti del tutto, che si
poteva ancora trovare la forza di protestare. Ogni tanto la nostra
dignità di esseri umani saltava fuori. Io devo alla
meravigliosa gente che ho incontrato in quelle stanze, se non ho
perso la voglia di lottare. Donne, uomini, gente del sud e milanesi e
anche dell'Eritrea e della Somalia, tanta gente con tutte le loro
storie e col loro coraggio. Molte volte mi sono sentita piccola al
loro confronto; forse l'esagero un po' questa via crucis, c'è di
peggio, c'è di peggio! Dopo la terza
proroga che arrivava fino al 16/5/86 la minaccia della casa albergo
diventò un'altra realtà quotidiana. Molte famiglie, anche numerose
vi erano alloggiate con il disagio che si può immaginare. Ogni otto
giorni bisogna andare al palazzo a farsi dare i buoni per
l'albergatore. All'albergo non si possono portare gli animali: e la
nostra micia? La casa può essere sigillata e si porta via solo una
valigia. E il computer di Giulio? In questi mesi già due volte
abbiamo preparato la valigia e impacchettato il computer. Ma la micia
rimaneva sempre un grosso problema. Il 26/5/86 la
COMMISSIONE COMUNALE ASSEGNAZIONE ALLOGGI mi aveva assegnato una casa
E.R.P. (quelle più modeste per chi ha pochi soldi. Il tutto è
puramente teorico perché non si sa quando o dove ma è, si dice, un
passo avanti. Il guaio è che, essendoci l'assegnazione, io non posso
muovermi da Milano perché tutti i momenti sono buoni e se non siamo
a casa quando ci chiamano perdiamo il diritto alla casa. Mettiamo in
conto anche questo: un'estate rovinata! Chi ce la renderà? Chi ci
compenserà delle ansie, delle fatiche, dell'avvilimento, delle
ribellioni dei nostri ragazzi che non vogliono accettare perché non
capiscono? Qualcuno ci ripagherà di tutto questo? Che senso ha poi
tutta questa storia che non ha avuto in tutto il suo svolgimento un
solo momento logico? Comunque a
settembre, se l'assegnazione non diventa una realtà lo diverrà
senza dubbio la casa albergo perché ormai sembra non esserci più
alcuna possibilità di prolungare ancora l'abbandono della casa. E,
forse, non sarebbe male andarcene, magari è l'unico mezzo per
sollecitare l'assegnazione e mettere fine a questa incredibile,
interminabile e insopportabile attesa.
Movimenti un po'
impacciati
Sul foglio
dell'ultima proroga non c'è segnata la data precisa del giorno in
cui devo lasciare la casa. Suppongo che sia il 16/9 ma non essendo
certa non preparo nessun bagaglio per quella data. La vicina di casa,
che è la persona che deve entrare nella mia casa e che certamente
essendo in contatto con l'avvocato (Russo) e con l'ufficiale
giudiziario (dott. De Cuia), sa quando è il giorno dello sfratto ma
non ne fa parola con me per paura forse che, sapendolo, io possa
prendere tempo. Il giorno 16/9 arrivano insieme al fabbro per il
cambio della serratura. Forte dell'errore dell'ufficiale giudiziario
riesco ad ottenere una piccola proroga di dieci giorni tra la
costernazione generale. Comunque il comportamento del mio vicino che,
se gli fosse riuscito l'intervento a sorpresa, mi avrebbe fatto
uscire senza neppure lo spazzolino da denti, mi lascia l'amaro in
bocca. Nei giorni seguenti mi preparo ad uscire: sistemo le piante,
porto gli abiti in un armadio che ho, vuoto, in sala medica e prendo
accordi con Fausta per la micia. La vicina non mi
aveva dato molta speranza infatti sulla possibilità di lasciare
queste cose e la micia in casa perché non sapeva (a suo dire) se la
legge le avrebbe consentito di permettermi di entrare in casa una
volta al giorno (in effetti la legge lo consente). All'inquilina del
quarto piano che è nelle mie condizioni viene inspiegabilmente
permesso di restare in casa invece di andare in albergo. Arriva velocemente
il 26/9 e arrivano di nuovo i nostri personaggi che devono "eseguire"
lo sloggio in tutta fretta perché hanno premura. L'avvocato e
l'ufficiale giudiziario mi fanno fretta affinché racimoli le ultime
poche cose ed esca di casa così che il fabbro possa "fare il
suo lavoro". Sul tavolo ho qualche cosa da "far su": una
busta da toilette, una tessera del tram, la borsetta, l'inseparabile
cartelletta marrone e la rivista "A". Mi costa fatica riunire
il tutto perché i miei movimenti sono un po' impacciati ed io sto
pensando ad altro. Sono così lontano col pensiero che non sento più
le loro voci. Rivivo in un attimo tutti quanti gli anni passati lì
con Giulio e ho un momento di smarrimento mentre mi assale lo spleen.
Mi riprometto di non avere altri momenti di debolezza perché so di
avere in futuro bisogno di tutta la mia forza per vivere i giorni che
verranno. Il fabbro "fa il suo lavoro" ed io lo guardo
mentre sono ormai sul pianerottolo. Lui vede "A" sui
gradini della scala e osserva: "Non sapevo che gli anarchici
avessero ANCHE un giornale". Già è tanto che sappia
dell'esistenza di quegli esseri strani che sono gli anarchici e non
si chieda troppo. Firmo un verbale dove mi impegno a non entrare per
più di due ore in casa per preparare i bagagli e portare via i
mobili entro il 31/10. Le chiavi resteranno alla portinaia. Sia l'avvocato che
il De Cuia ripetono che sanguina loro il cuore a fare queste cose ma
non è colpa loro. Il ritornello "la colpa non è nostra"
si ripeterà all'infinito in tutta questa faccenda. Saluto tutti i
vicini tra cui la cara Enrica e i Grison che dovranno andarsene tra
un mese e vado a Palazzo Pirelli per l'assegnazione dell'albergo.
Quella che mesi fa era solo una lontana eventualità diventa ora una
realtà: si deve andare in albergo. A palazzo Pirelli
trascorrono cinque ore prima che mi assegnino l'albergo. Mi tocca il
residence Leonardo da Vinci di Bruzzano che è un albergo elegante e
costosissimo per il quale il Comune chissà quanto paga. Ci vado alla
sera con Giulio e dormo per la prima notte fuori da casa mia. Tutto sommato però
non è una tragedia. Dopo otto giorni ritorno a palazzo Pirelli per
il rinnovo del "buono" albergo e così per altri otto
giorni sono a posto. Mio figlio sta con mia zia Ida perché sarebbe
troppo lontano per lui andare a scuola il mattino.
Senza il bagno
no
Dopo 16 giorni si
arriva alla prima assegnazione di una vecchia casa in via
Ricciarelli. La casa è vecchia ma all'esterno decorosa. Ci
accompagna un custode-sorvegliante-capo fabbricato che dovrebbe farci
vedere la casa. Questo signore si rammarica che io non gli abbia
fatto una telefonata prima: è evidente che la sorpresa non gli fa
piacere. Mi fa tornare due ore dopo, dice che i vecchi inquilini non
gli hanno lasciato le chiavi e mi fa vedere una casa vicina che, a
suo dire, è uguale. Comunque nella casa non c'è il bagno ed io la
rifiuto comunicandolo a Palazzo Pirelli. L'impiegato mi dice: "Allora
rifiuta?". "Perché non ci va lei in un posto senza
bagno?". "Nella sua situazione io, grazie a Dio, non ci
sono". Per un attimo mi sento addosso la colpa di essere io in
questa situazione. Venerdì 17/10 torno a palazzo per il rinnovo del
buono e non c'è nessuna nuova. Mi metto l'animo in pace pensando che
il sabato e la domenica loro non lavorano ed invece mi viene una
comunicazione per domenica 18/10. Penso con sollievo che è la prima
volta che non perdo un giorno di lavoro per questa storia, e penso
anche che sono bravi a lavorare la domenica. Quando arrivo al
Pirellone mi accorgo che loro sono lì solo per fregarci coi loro
straordinari e che io era meglio che perdessi un giorno di lavoro
piuttosto di dovere subìre l'ingiustizia che avrei subìto. Mi era sembrato un
po' strano il non vedere i soliti vigili e sindacalisti che in genere
gli altri giorni stazionavano giù di sotto. Di vigili poi ce n'erano
sempre troppi. Un po' sospetta mi presento allo sportello dove c'è
tra l'altro una tizia che è madre di una alunna che abita nella
nostra zona. L'impiegata mi mette sotto il naso la mia pratica e mi
ingiunge di firmare per l'accettazione di un alloggio a scatola
chiusa, senza possibilità di scelta, dicendo che se non accetto la
sera mi ritrovo a dormire ai giardini. Come una scema firmo per
accettazione. Quando leggo
l'indirizzo mi accorgo che è la via più scalcinata della mia zona:
glielo dico e lei ha anche ii coraggio di dirmi che, in fondo non è
male e che quando vedrò l'appartamento cambierò idea. Dentro di me
mi auguro che a sua figlia insegni ad essere più sincera. Ritorno a
Bruzzano a prendere mio figlio ed insieme andiamo all'indirizzo per
contattare il solito custode che è quello dell'altra volta. Siccome
è domenica lui non c'è così scopro che fa il gioco dello gnorri,
perché prima permette agli abusivi di entrare nelle abitazioni, poi,
all'assegnatario dice che non ha le chiavi. Ora dato che non c'è lui
alla casa ci vado da sola e incontro l'inquilino abusivo che oltre
tutto mi tratta male.
E tutto tace
Torno a palazzo
Pirelli, faccio una scena da trivio urlando a più non posso e mi
accorgo che più si urla e più si è ascoltati. Mi dicono di tornare
in albergo e di aspettare la prossima chiamata. Io mi accerto prima
che provvedano a riconfermare la mia stanza e poi me ne vado. Quando
scendo trovo un cartello affisso al muro all'esterno del palazzo che
dice: "Gli sfrattati che sabato e domenica hanno avuto
un'assegnazione di alloggio occupato abusivamente o in condizioni
inagibili o che comunque sono stati obbligati a firmare per
l'accettazione prima di vedere la casa, subendo cioè un abuso di
potere da parte dell'amministrazione, si presentino domani alla
nostra roulotte". Firmato sindacalisti ecc. La sera della
domenica ho ancora la stanza in albergo. La mattina vado alla
roulotte a dare il mio nome per protestare contro il tiro mancino che
ci avevano giocato il giorno prima e la sera del lunedì, tornando in
albergo, mi dicono che palazzo Pirelli ha disdetto la mia camera ed
io non ho più diritto a dormire lì. Non riuscivo a capire ma,
pensandoci bene non era poi così difficile. Loro, quelle perle
di correttezza, presi dalla frenesia di eliminare più gente
possibile dagli alberghi, avevano comunicato una lista di nomi prima
ancora di sapere se le persone che a quei nomi corrispondevano
avrebbero o meno accettato o, per lo meno, potuto entrare nelle case
loro assegnate; così il mio nome faceva parte del gruppo di gente
che doveva per forza essere sistemato entro lunedì perdendo il
diritto all'albergo, essendo destinato ad occupare una casa che in
realtà non era occupabile. Per farla breve la notte mi si concedeva
di dormire ancora nella stanza (concessione gentile del portiere)
l'indomani altra visita a palazzo Pirelli e altro giorno di lavoro
perso (chissà se i miei datori di lavoro leggeranno questa storia?).
Il buono mi è ulteriormente confermato. Ad oggi sono
passati ancora 10 giorni ma tutto tace. I sindacalisti della
"roulotte" mi dicevano l'altro giorno che noi che abbiamo
firmato la protesta contro quel "trattamento speciale" non
ne dovremmo subire altri: che sia vero?
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