Rivista Anarchica Online
I salti della
natura
di Carlo Oliva
Si apre, con
questo intervento del nostro collaboratore Carlo Oliva, il dibattito
sulle colonne di "A" a proposito di biotecnologie, ingegneria
genetica, "uomini-scimmia", ecc... E, soprattutto,
in merito ai problemi etici che implicano. Secondo Oliva,
si tratta di problemi tutt'altro che nuovi, che vanno affrontati
ricorrendo al vecchio metodo del confronto tra mezzi e fini. Riconoscere la
liceità astratta delle pratiche di bio-ingegneria - precisa - non
significa affatto fidarsi ciecamente di chi le conduce e delle
autorità che le permettono e le finanziano. Il sasso è
gettato.
È
strano, ma nel gran parlare che si fa, da un paio di mesi, in tema
d'ingegneria genetica, quasi nessuno, tra i tanti intervenuti più o
meno a proposito, ha fatto un'osservazione abbastanza ovvia: quali
che siano le prospettive aperte in merito dagli sviluppi della
ricerca biologica e delle tecnologie relative, il concetto in sé non
è particolarmente nuovo. E non lo sono, quindi, i relativi problemi
morali. Ciò non significa,
certo, che questi problemi non esistono. Ma, insomma, sono secoli,
forse millenni, che l'uomo manipola e trasforma l'ambiente, e questa
attività non s'è mai arrestata davanti alla realtà genetica della
biosfera. Le modificazioni ottenute mediante le attività tipiche
dell'agronomo e dello zootecnico, come a dire incroci, innesti e via
dicendo, non sono certamente più "naturali" di quelle
ottenibili in laboratorio con interventi, per così dire, "diretti"
sui geni o gli embrioni. Non c'è una barbatella di vite o una spiga
di grano, tra le tante varietà disponibili in commercio e utilizzate
in agricoltura, che non possa essere considerata, in un certo senso,
artificiale. E quanto agli animali che godono del dubbio privilegio
di condividere il nostro habitat e di fornirci le
indispensabili proteine, il discorso è probabilmente lo stesso. Certo, le nuove
tecniche sono molto più inquietanti delle vecchie. Ma è lecito
sospettare che lo siano soprattutto perché le percepiamo come capaci
di agire nell'immediato. Ci vuole un bel po' di tempo perché, da una
selezione ad un'altra, si ricavi una nuova varietà di lattuga o una
"razza" bovina che possa interessare gli allevatori e i
macellai, e la durata del processo aiuta a credere che l'equilibrio
naturale non sia stato turbato. Da un laboratorio, invece, può
balzar fuori da un momento all'altro l'ibrido più deplorevole (nel
senso di meno inquadrabile nella nostra gerarchia di mezzi e di
fini). Probabilmente è logico che la cosa appaia a molti più
pericolosa in quanto meno "naturale". Natura, si è
usi spesso ripetere, non facit saltus.
Mezzi e fini
Personalmente non
sono troppo convinto di quest'ultima affermazione, anche se mi
mancano quasi del tutto le competenze necessarie per discuterla. Ma
non è questo il punto. Ho sempre avuto il sospetto che la Natura con
la maiuscola sia una delle tante estrapolazioni concettuali cui
abbiamo il vizio di prestare una realtà ontologica quando abbiamo
bisogno di validificare qualcosa che ci sta a cuore (avete mai
pensato a come sono strane espressioni del tipo di "diritto
naturale" o "peccato contro natura"?). Che faccia o non
faccia dei salti, probabilmente, dipende da come gli scienziati
definiscono via via l'oggetto della loro ricerca. In altre parole,
chi crede che esista un modo "naturale" di fare certe cose,
(naturale nel senso che ce n'è un altro che invece no), è, nel
migliore dei casi, molto ottimista. E comunque non ha incertezze
morali relative al problema che qui ci interessa, perché
identificare il "naturale", con il "moralmente
lecito", a questo punto, diventa pressoché obbligatorio. Non è
neanche necessario invocare un principio trascendente, un dio garante
della naturalità del nostro agire e pronto a punire con adeguati
soggiorni in purgatorio o peggio ogni agire non naturale. Di fatto,
s'è visto che ci si può trovare perfettamente d'accordo con il
cardinale Ratzinger continuando ad essere dei laici di ferro. Chi non può
ricorrere né alla Natura né a Domineddio, e non intende per questo
rinunciare ad esprimere, sull'attività dei suoi simili, dei giudizi
morali, deve per forza ricorrere al vecchio metodo del confronto
tra mezzi e fini. Non sarà un gran che, soprattutto non sarà
applicabile automaticamente come i precetti delle chiese, ma resta il
metodo migliore di cui disponiamo. Naturalmente, non
fidarsi è meglio. Sappiamo tutti che in nome dei fini più nobili
sono state commesse turpitudini terrificanti. Concetti cui siamo
affezionati, come quelli di "progresso" e di "utile
generale", poi, sono un po' dei jolly, variamente utilizzati per
giustificare quasi tutto: nel caso, la degradazione sistematica
dell'ambiente, biosfera compresa. Ma l'utile rappresenta un dilemma
cui proprio non si può sfuggire, o visto che un qualche livello di
modificazione della natura oggi è sicuramente utile ("modo di
vivere naturale" è solo una metafora), converrà aderire, con
la cautela del caso, al punto di vista di chi sostiene che anche
l'ingegneria genetica va giudicata sulla base dei benefici che
comporta, della sua utilità. È un criterio applicato a molte
pratiche umane storicamente invalse, e sarebbe irrazionale rifiutarlo
perché questa pratica riguarda i nostri cromosomi, il nostro
DNA o le nostre abitudini e modalità di riproduzione. Non c'è
niente di sacro negli uni o nelle altre. Certo, con tutta la
cautela del caso. E quando si tratta di pronunciare giudizi di valore
in nome dell'utile, ciò significa precisare sempre a chi è
utile quell'utile, e chi ha deciso che lo è. Gli scienziati,
intesi come comunità, hanno rinunciato da tempo al privilegio (o
forse hanno perso il diritto, non so) di esprimere giudizi di merito
sull'utilizzazione pratica delle loro scoperte, e quale che sia il
giudizio da dare su questa pretesa neutralità (ricordate la
problematica del Galileo di Brecht?), è indubbio che essa aumenta le
responsabilità di chi scienziato non è. In altre parole,
riconoscere la "liceità" astratta delle pratiche di
bio-ingegneria, non significa affatto fidarsi ciecamente di chi le
conduce e delle autorità che le permettono e le finanziano.
Attraverso
l'autogestione
Sarà l'abitudine
inveterata di buttarla sempre in politica, ma, checché ne dicano gli
allegri profeti del postmoderno, non riesco a fare a meno di credere
che queste problematiche non si risolvano con la competenza
scientifica né con gli ukase morali. Si risolvono solo
attraverso la messa in comune dei dati, delle consapevolezze e delle
possibilità di giudicare vantaggi e svantaggi. Arrischiandomi ad
utilizzare un termine fuori moda, direi che si risolvono attraverso
l'autogestione. Tutto ciò non è
particolarmente originale, soprattutto dopo che un decennio
abbondante di lenta diffusione degli ideali ambientalisti nella lotta
politica ha insegnato come il problema sia sempre quello
d'individuare e difendere l'interesse generale, negando quelli
particolari (e sempre nella consapevolezza che allo stato attuale
delle cose quelli particolari sono in genere più potenti). Ma
insomma, forse vale la pena di ribadirlo, quando si legge di ipotesi
orripilanti, come quella al centro del dibattito giornalistico mentre
scrivo, della creazione d'un ibrido tra uomo e non so che scimmione,
da utilizzare - pensate un po' - nei lavori più pesanti e ripetitivi o
come serbatoio di organi da trapiantare. Di una scienza che si
propone la creazione di un essere da adibire allo sfruttamento totale
c'è ogni ragione di diffidare. Altrettante ragioni
di diffidenza abbiamo nei confronti di molti tra coloro che hanno
sparso pubbliche lacrime sulla sorte di questo nostro futuro
fratello. In genere, queste lacrime rappresentano la falsa coscienza
di quanti, oggi come ieri, considerano e utilizzano come carne da
cannone e da macello i loro simili, magari in nome della necessità o
delle leggi dell'economia. Da loro, oggi come ieri, non è proprio il
caso di farsi ingannare.
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