Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 17 nr. 147
giugno 1987


Rivista Anarchica Online

I salti della natura
di Carlo Oliva

Si apre, con questo intervento del nostro collaboratore Carlo Oliva, il dibattito sulle colonne di "A" a proposito di biotecnologie, ingegneria genetica, "uomini-scimmia", ecc... E, soprattutto, in merito ai problemi etici che implicano. Secondo Oliva, si tratta di problemi tutt'altro che nuovi, che vanno affrontati ricorrendo al vecchio metodo del confronto tra mezzi e fini. Riconoscere la liceità astratta delle pratiche di bio-ingegneria - precisa - non significa affatto fidarsi ciecamente di chi le conduce e delle autorità che le permettono e le finanziano. Il sasso è gettato.

È strano, ma nel gran parlare che si fa, da un paio di mesi, in tema d'ingegneria genetica, quasi nessuno, tra i tanti intervenuti più o meno a proposito, ha fatto un'osservazione abbastanza ovvia: quali che siano le prospettive aperte in merito dagli sviluppi della ricerca biologica e delle tecnologie relative, il concetto in sé non è particolarmente nuovo. E non lo sono, quindi, i relativi problemi morali.
Ciò non significa, certo, che questi problemi non esistono. Ma, insomma, sono secoli, forse millenni, che l'uomo manipola e trasforma l'ambiente, e questa attività non s'è mai arrestata davanti alla realtà genetica della biosfera. Le modificazioni ottenute mediante le attività tipiche dell'agronomo e dello zootecnico, come a dire incroci, innesti e via dicendo, non sono certamente più "naturali" di quelle ottenibili in laboratorio con interventi, per così dire, "diretti" sui geni o gli embrioni. Non c'è una barbatella di vite o una spiga di grano, tra le tante varietà disponibili in commercio e utilizzate in agricoltura, che non possa essere considerata, in un certo senso, artificiale. E quanto agli animali che godono del dubbio privilegio di condividere il nostro habitat e di fornirci le indispensabili proteine, il discorso è probabilmente lo stesso.
Certo, le nuove tecniche sono molto più inquietanti delle vecchie. Ma è lecito sospettare che lo siano soprattutto perché le percepiamo come capaci di agire nell'immediato. Ci vuole un bel po' di tempo perché, da una selezione ad un'altra, si ricavi una nuova varietà di lattuga o una "razza" bovina che possa interessare gli allevatori e i macellai, e la durata del processo aiuta a credere che l'equilibrio naturale non sia stato turbato. Da un laboratorio, invece, può balzar fuori da un momento all'altro l'ibrido più deplorevole (nel senso di meno inquadrabile nella nostra gerarchia di mezzi e di fini). Probabilmente è logico che la cosa appaia a molti più pericolosa in quanto meno "naturale". Natura, si è usi spesso ripetere, non facit saltus.

Mezzi e fini
Personalmente non sono troppo convinto di quest'ultima affermazione, anche se mi mancano quasi del tutto le competenze necessarie per discuterla. Ma non è questo il punto. Ho sempre avuto il sospetto che la Natura con la maiuscola sia una delle tante estrapolazioni concettuali cui abbiamo il vizio di prestare una realtà ontologica quando abbiamo bisogno di validificare qualcosa che ci sta a cuore (avete mai pensato a come sono strane espressioni del tipo di "diritto naturale" o "peccato contro natura"?). Che faccia o non faccia dei salti, probabilmente, dipende da come gli scienziati definiscono via via l'oggetto della loro ricerca.
In altre parole, chi crede che esista un modo "naturale" di fare certe cose, (naturale nel senso che ce n'è un altro che invece no), è, nel migliore dei casi, molto ottimista. E comunque non ha incertezze morali relative al problema che qui ci interessa, perché identificare il "naturale", con il "moralmente lecito", a questo punto, diventa pressoché obbligatorio. Non è neanche necessario invocare un principio trascendente, un dio garante della naturalità del nostro agire e pronto a punire con adeguati soggiorni in purgatorio o peggio ogni agire non naturale. Di fatto, s'è visto che ci si può trovare perfettamente d'accordo con il cardinale Ratzinger continuando ad essere dei laici di ferro.
Chi non può ricorrere né alla Natura né a Domineddio, e non intende per questo rinunciare ad esprimere, sull'attività dei suoi simili, dei giudizi morali, deve per forza ricorrere al vecchio metodo del confronto tra mezzi e fini. Non sarà un gran che, soprattutto non sarà applicabile automaticamente come i precetti delle chiese, ma resta il metodo migliore di cui disponiamo.
Naturalmente, non fidarsi è meglio. Sappiamo tutti che in nome dei fini più nobili sono state commesse turpitudini terrificanti. Concetti cui siamo affezionati, come quelli di "progresso" e di "utile generale", poi, sono un po' dei jolly, variamente utilizzati per giustificare quasi tutto: nel caso, la degradazione sistematica dell'ambiente, biosfera compresa. Ma l'utile rappresenta un dilemma cui proprio non si può sfuggire, o visto che un qualche livello di modificazione della natura oggi è sicuramente utile ("modo di vivere naturale" è solo una metafora), converrà aderire, con la cautela del caso, al punto di vista di chi sostiene che anche l'ingegneria genetica va giudicata sulla base dei benefici che comporta, della sua utilità. È un criterio applicato a molte pratiche umane storicamente invalse, e sarebbe irrazionale rifiutarlo perché questa pratica riguarda i nostri cromosomi, il nostro DNA o le nostre abitudini e modalità di riproduzione. Non c'è niente di sacro negli uni o nelle altre.
Certo, con tutta la cautela del caso. E quando si tratta di pronunciare giudizi di valore in nome dell'utile, ciò significa precisare sempre a chi è utile quell'utile, e chi ha deciso che lo è. Gli scienziati, intesi come comunità, hanno rinunciato da tempo al privilegio (o forse hanno perso il diritto, non so) di esprimere giudizi di merito sull'utilizzazione pratica delle loro scoperte, e quale che sia il giudizio da dare su questa pretesa neutralità (ricordate la problematica del Galileo di Brecht?), è indubbio che essa aumenta le responsabilità di chi scienziato non è.
In altre parole, riconoscere la "liceità" astratta delle pratiche di bio-ingegneria, non significa affatto fidarsi ciecamente di chi le conduce e delle autorità che le permettono e le finanziano.

Attraverso l'autogestione
Sarà l'abitudine inveterata di buttarla sempre in politica, ma, checché ne dicano gli allegri profeti del postmoderno, non riesco a fare a meno di credere che queste problematiche non si risolvano con la competenza scientifica né con gli ukase morali. Si risolvono solo attraverso la messa in comune dei dati, delle consapevolezze e delle possibilità di giudicare vantaggi e svantaggi. Arrischiandomi ad utilizzare un termine fuori moda, direi che si risolvono attraverso l'autogestione.
Tutto ciò non è particolarmente originale, soprattutto dopo che un decennio abbondante di lenta diffusione degli ideali ambientalisti nella lotta politica ha insegnato come il problema sia sempre quello d'individuare e difendere l'interesse generale, negando quelli particolari (e sempre nella consapevolezza che allo stato attuale delle cose quelli particolari sono in genere più potenti). Ma insomma, forse vale la pena di ribadirlo, quando si legge di ipotesi orripilanti, come quella al centro del dibattito giornalistico mentre scrivo, della creazione d'un ibrido tra uomo e non so che scimmione, da utilizzare - pensate un po' - nei lavori più pesanti e ripetitivi o come serbatoio di organi da trapiantare. Di una scienza che si propone la creazione di un essere da adibire allo sfruttamento totale c'è ogni ragione di diffidare.
Altrettante ragioni di diffidenza abbiamo nei confronti di molti tra coloro che hanno sparso pubbliche lacrime sulla sorte di questo nostro futuro fratello. In genere, queste lacrime rappresentano la falsa coscienza di quanti, oggi come ieri, considerano e utilizzano come carne da cannone e da macello i loro simili, magari in nome della necessità o delle leggi dell'economia. Da loro, oggi come ieri, non è proprio il caso di farsi ingannare.