Rivista Anarchica Online
Dimenticare
Pinelli
di Carlo Oliva
Bisogna fare uno
sforzo, a volte, di fronte alle provocazioni del potere, per non
cadere nelle trappole che ci vengono tese, reagendo nel modo in cui
il potere crede, appunto, che reagiremo. Non è sempre facile, ma
vale la pena di fare uno sforzo. Le trappole sono sempre trappole e,
per definizione, non portano da nessuna parte. Così, di fronte a
una provocazione particolarmente squallida e dolorosa, come la
decisione della giunta municipale di Milano di rimuovere da piazza
Fontana la lapide che ricordava Giuseppe Pinelli, "ferroviere
anarchico ucciso innocente in Questura", bisogna evitare le
reazioni prevedibili e previste, per non cadere nella trappola della
lamentazione e del vittimismo. Non ci chiederemo,
quindi, perché mai la giunta di Milano, una giunta democratica, con
tanto di sindaco socialista, abbia preso una simile decisione. Non
faremo appello alle contraddizioni ideologiche degli uomini e dei
partiti che ne fanno parte. Non faremo finta di stupirci di questo
ennesimo tentativo di cancellare un pezzetto di storia. Accade spesso
che dopo uno scontro ideale, piccolo o grande, i vincitori cerchino
di cambiare la storia, secondo un modello operativo che è più o
meno lo stesso dai tempi in cui il Senato romano ordinava la damnatio
memoriae di qualche imperatore uscito repentinamente di scena. George Orwell non
ha inventato niente. Da sempre i vincitori, i potenti, rimuovono
lapidi, abbattono monumenti, cambiano i nomi dei luoghi e riscrivono
i libri, indifferenti alle accuse di stupidità che un simile agire
suscita inevitabilmente. E non c'è motivo di pensare che chi
gestisce il potere oggi sia meno stupido di quanto questo paradigma
comporta, solo perché la sua storia ideologica ha coinciso, fino a
un certo punto, con la nostra. Ci rifiuteremo,
anche, di pagare il prezzo che qualcun altro ha pagato, con maggior o
minor entusiasmo (per non far nomi, l'ottimo Giuliano Zincone sul
Corriere del 15 novembre), sposando la difesa della lapide di
Pinelli con la condanna di qualche cosa d'altro, per esempio dei
pessimi esiti, reali o presunti, di un movimento allora tanto
virtuoso. Fino a qualche anno fa, non si poteva pronunciarsi su
alcunché senza dichiararsi solennemente contrari a ogni forma di
violenza. Era una pratica orrendamente ipocrita, ma almeno il tema
aveva un suo spessore morale. Oggi, a quanto parte, per difendere la
democrazia è necessario parlar male dei COBAS. Che tristezza. Il fatto è che
quella lapide, con la sua stessa esistenza, a qualcuno dava
evidentemente fastidio. E forse non tanto per le parole che vi erano
incise o per le polemiche che rievocava, in fondo è vero, come hanno
scritto con compiacimento tanti giornali, che gli adolescenti di oggi
non sanno nemmeno chi sia quel personaggio, e buona parte di quanti
gridavano per le strade che Valpreda era innocente e Pinelli era
stato assassinato oggi hanno ottimi motivi personali per incoraggiare
questa ignoranza. In fondo, ci sono
in giro tante lapidi in memoria di personaggi un tempo parecchio
scomodi, che oggi non danno fastidio a nessuno. Anzi, è lecito
persino supporre che l'esistenza stessa di una lapide consacri una
certa ufficialità del soggetto cui è dedicata, ne attenui in un
certo modo la scomodità, relegandolo in un limbo di cittadini
illustri e beatificati. Ma questa lapide
no. Non aveva niente di ufficiale. Non era stata installata per
delibera di qualche organo pubblico, in presenza di un sindaco, di un
paio di ministri e dei relativi operatori televisivi, dopo un
adeguato dibattito nella sede opportuna e il raggiungimento d'un
"ragionevole" compromesso tra le componenti politiche. Non
era, in altre parole, un documento istituzionale. L'avevamo collocata
noi, come atto di sfida, come mezzo per affermare una nostra verità,
come tentativo di praticare uno dei nostri obiettivi al di fuori
delle mediazioni che zelantemente ci proponevano. Il che significa,
in definitiva, che quella lapide era comunque destinata ad essere
rimossa, di qualunque messaggio fosse portatrice e ad opera di
chiunque gestisse, al momento opportuno, la cosa pubblica. Era una
lapide "anarchica" appunto, di un anarchismo non tanto ideologico
quanto funzionale. Era assolutamente incompatibile con il sistema, le
sue istituzioni e la sua miserabile cultura. Ecco, senza fare
della retorica movimentista o del reducismo a tutti i costi, pensiamo
che su questa incompatibilità valga la pena di riflettere un poco.
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