Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 17 nr. 151
dicembre 1987 - gennaio 1988


Rivista Anarchica Online

Una libreria e i suoi limiti
di Fausta Bizzozzero

Laura Lepetit, Elena Modiano, Zulma Paggi, Luciana Percovich ed Elena Tunesi hanno recentemente scritto una "lettera aperta dalla Libreria delle donne di Milano", dal titolo "Una libreria ed i suoi doni". Mettono in discussione la teoria e la pratica dell'affidamento. E tra le femministe italiane si è subito accesa la discussione. Fausta Bizzozzero ne parla con alcune delle autrici.

Correva l'anno 1982, il nostro collettivo "Le scimmie" si era da poco costituito e avevamo da poco iniziato il nostro lavoro di ricerca antropologica quando uscì un documento della storica Libreria delle Donne (via Dogana 2, Milano). Il suo titolo era "Sottosopra", sottotitolo "Più donne che uomini". Il suo contenuto, che subito divenne oggetto di ampi dibattiti e trovò eco su tutti i mass-media, ci fece allibire al punto da indurci a interrompere momentaneamente il nostro appassionante lavoro per discutere tale documento e preparare una risposta.
Prima ciclostilata e portata nei luoghi dove il documento veniva discusso pubblicamente, poi pubblicata su "A" (Cfr. A 109), la nostra risposta, intitolata significativamente "Più uomini che donne" fu comunque la sola voce levatasi per controbattere quel documento e le sue tesi. Con nostro grande rammarico. Al contrario, esso fu accolto da tutti con estremo interesse e favore, e non a caso salutato come l'inizio di un nuovo corso del femminismo storico. Non poteva che essere così, visto che quella elaborazione colmava il vuoto di progettualità del movimento femminista, lo toglieva dalle secche in cui si dibatteva da anni indicando una strada, un percorso, un obiettivo decisamente rassicuranti e perfettamente funzionali all'esistente, anzi quasi una sua immagine speculare.
L'obiettivo era la costruzione di un "mondo delle donne", il percorso era la liberazione dei desideri femminili: voglia di vincere, voglia di affermazione, voglia di vivere con agio, da signore nel mondo; la strada da percorrere per arrivare a tanto era quella, allora solo enunciata ma non approfondita, dell'affidamento, vale a dire la costruzione di rapporti diseguali - e rivendicati come tali - tra donne che "valgono di più" (affidanti) e donne che "valgono di meno" (affidate). Questo in sintesi, ovviamente, ma chi volesse approfondire può richiedere "Sottosopra" alla Libreria delle donne e consultare la nostra risposta. Recentemente, a distanza di anni, questa teoria dell'affidamento è stata sviluppata in un libro (Non credere di avere dei diritti, Edizioni Rosemberg & Sellier) che ripercorre parallelamente la storia della libreria e si presenta come parto della libreria stessa. È quindi con grande stupore - ma anche con grande piacere - che abbiamo scoperto l'esistenza di un gruppo di donne "dissidenti": donne che fanno parte della libreria sin dall'inizio e che, con motivazioni e modalità diverse, hanno maturato una critica profonda a questa impostazione e l'hanno espressa in un documento pubblico firmato con nome e cognome (La libreria e i suoi doni). Abbiamo voluto parlarne con loro per cercare di capire meglio il senso e il segno di questa "dissidenza".


Arrivare a questa vostra presa di posizione pubblica non deve essere stato facile né indolore. Quali sono stati i motivi che vi hanno portato a questa decisione?

L - Debbo dire che sino all'uscita di "Sottosopra" a livello teorico io mi riconoscevo nelle tesi elaborate e ritenevo anzi importante questo documento che segnava un passaggio da una pratica di circolo chiuso al riconoscimento del mondo esterno, della necessità di esserci, e dei desideri che su di esso le donne proiettano. Mi sembrava un passo avanti rispetto all'autocoscienza, al credere che per quelle due ore in cui si stava insieme nessuna di noi dovesse avere più altre ambizioni, uomini, amanti, ecc... Poi, nella pratica, lo sviluppo di questo pensiero ha assunto una struttura gerarchica, chiusa, dogmatica, e quello che poteva essere una possibilità da esplorare cioè tentare la strada del desiderio femminile attraverso figure di riferimento donne anziché uomini si è trasformata nell'imposizione, nella forzata accettazione di un rapporto gerarchico di potere con le donne che esprimevano con maggior forza questi desideri e avevano quel "di più" che veniva loro riconosciuto. Si è risolta, cioè, in una struttura rigida che dovrebbe essere funzionale non si sa bene a che cosa.

Evidentemente funzionale all'esistente, al mondo così com'è, ai suoi valori, alle sue leggi! Ma concretamente, nella vostra esperienza nella libreria, com'è stata vissuta questa pratica dell'affidamento?

EM - Io ho sempre, sin dall'inizio, fatto i turni in libreria e si sa che quando c'è di mezzo il lavoro è più facile ed immediato il riscontro, la verifica nella pratica è inevitabile. Ebbene, all'uscita di Sottosopra ho subito avvertito una sensazione di pericolo per cui mi sono messa in una posizione di attesa e quando si è cominciato a parlare di farne un libro non ho partecipato alle riunioni isolandomi rispetto all'elaborazione della teoria dell'affidamento pur continuando a lavorare in libreria. I rapporti si sono subito deteriorati ma io ho preferito restare, anziché andarmene come tante altre, perché avevo creduto e investito molto nel progetto politico della libreria e perché, man mano che mi chiarivo le idee, mi sembrava impossibile che tutte fossero d'accordo, che si fosse persa la capacità di critica. La mia era quindi una posizione di attesa sia all'interno che all'esterno, ed effettivamente per un po' di tempo non si sono udite voci discordi, nessuna proposta o pensiero alternativo, nulla, nessuna ha osato. Bisogna anche dire che quando si cominciano a creare delle regole in un movimento che di regole non ne aveva mai avute, quando si parla di "divinità", quando si ricrea e si ridà forza al mito della "madre", tutto questo risulta estremamente suggestivo e affascinante, e inoltre questa teoria riconosceva e legittimava la disparità tra le donne, il loro non essere tutte uguali e buone come sempre si era pensato e come in realtà non è. Poi, piano piano, altre hanno espresso il loro disaccordo e siamo arrivate alla decisione di prendere posizione.
E - Io debbo dire che ho sempre avuto l'impressione di essere in un ambiente molto chiuso e asfissiante, non certo con rapporti allegri e sereni tra donne. Purtroppo femministe si nasce, e quindi io sono sempre rimasta dal lontano '75 per una sorta di deformazione mentale, forse perché ho sempre avuto un privato molto ricco che quindi compensava la freddezza e la chiusura della libreria. E così ho assistito all'andarsene di tutte le donne migliori, donne di grande intelligenza che però quando conoscevano "alcune" salutavano e se ne andavano. E io sempre lì, forse per masochismo, forse per vocazione femminista, per la diversità che ho sempre sentito in me rispetto al classico destino della donna. Ed anche, forse, perché c'era in me il desiderio del "Verbo" e pensavo che restando prima o poi potesse nascere una teoria che mi avrebbe illuminato la vita risolvendo tutti i miei problemi. Poi, invece, quando questa teoria si è rivelata purtroppo io ho cominciato a scalpitare, già da Sottosopra, e ho convocato una riunione in cui ho detto che se si fosse andate avanti su quella strada facendo il libro io me ne sarei andata spiegando ovviamente i motivi per cui ritenevo tale strada estremamente pericolosa e inaccettabile. Infatti la mia intenzione era quella di andarmene subito dopo, ma poi si è coagulato anche il dissenso di altre e allora abbiamo cominciato a pensare che forse si poteva fare qualcosa insieme; per me, a quel punto, si trattava di salvare il mio buon nome perché io mi vergognavo profondamente dell'affidamento ed anche in teoria, non solo nella pratica, lo trovavo spaventevole e inaccettabile, mentre L., ad esempio, ne era abbastanza affascinata a livello teorico. Io ho sempre avuto un nome onorato - mi sono detta - e lo voglio portare sino alla fine.
In quella riunione che è diventata storica, ho toccato con mano cosa significa concretamente la pratica dell'affidamento, ho visto le dipendenze che crea, l'interiorizzazione di questa dipendenza e della madre simbolica per cui si resta figlie che non crescono mai. E ho visto anche la stupidità delle affidate che non ha limiti, e contro cui non si può nulla.

All'interno del movimento delle donne, a nostro avviso, è sempre mancata una riflessione approfondita sul potere e proprio questa mancanza ha poi potuto condurre a una elaborazione come quella dell'affidamento che rivaluta e legittima il potere giocando però sull'ambiguità e utilizzando i polivalenti significati di questo termine (poter fare, poter essere, potenza, dominio, ecc.) proprio per confondere le acque e spacciare questa teoria come qualcosa di nuovo mentre in realtà non è che la riproposizione in chiave femminile di schemi e modelli che da sempre governano il mondo.
Ecco, ci sembra che invece, quantomeno nell'ambito del vostro gruppo, sia iniziata una riflessione in questo senso. Nel vostro documento a un certo punto si legge: "Per cambiare il mondo non basta uno spostamento di genere. Se le regole sono identiche, la differenza sessuale sarà annullata dal peso preponderante del metodo. O forse "cambiare il mondo" esprime il desiderio di conquistare una fetta di potere in mano all'uomo per poi gestirla tra donne? Ma in questo caso l'affidamento non è la sorgente di un cambiamento profondamente sovvertitore; giustifica appena l'aggressività, la violenza, la competitività femminili. E questo non ci consola. Forse è arrivato il momento di modificare i meccanismi e i comportamenti che ci hanno fin qui condizionate". Non è forse questo l'inizio di una nuova consapevolezza e la riaffermazione del desiderio di cambiare il mondo su altri parametri?

EM - Certo. Ma paradossalmente è stata proprio la teoria dell'affidamento a costringerci a riflettere su queste cose. Prima nel movimento il problema del potere è sempre stato "rimosso" da un lato ed esorcizzato dall'altro, poiché comunque si cercava sempre di non creare centri di potere e di non istituzionalizzarli attraverso una pratica che implica una costante attenzione al quotidiano e quindi una complessità notevole, e l'attuazione continua di meccanismi che equilibrino tutte le varie spinte individuali e collettive. La teoria dell'affidamento pone fine a questa complessità ed immediatamente costringe ad affrontare il problema del potere e ad entrare in un logica che è quella della politica tradizionale. Ma la complessità, nel pensiero e nell'agire quotidiano, certo più faticosa, e la contropartita che si ha in cambio può sembrare insufficiente; io dico sempre che si ha in cambio la vita, perché si mantiene il contatto con se stesse e si mantiene la propria identità. Ma molte donne dicono che a loro non importa più niente di tutto questo, vogliono dei vantaggi concreti. Evidentemente si tratta di donne a cui non interessa instaurare rapporti diversi - o meglio originali da inventare, visto che non sono mai esistiti i rapporti che noi vorremmo - malgrado il loro coinvolgimento nel movimento magari per tanti anni; e quindi vanno diritte verso il raggiungimento di quei vantaggi che non hanno mai avuto.

Ci sembra però che tutto questo abbia delle radici e venga da lontano, che non sia imputabile a una improvvisa stanchezza nel gestire la complessità né all'improvvisa scoperta di desideri prima inesistenti. Ci sembra piuttosto che ci sia stata una scarsa chiarezza di fondo originaria: se davvero il desiderio di cambiare il mondo e il rifiuto del potere fossero stati acquisiti ed elaborati a livello profondo, se fosse esistita una progettualità, non si sarebbe arrivate a questo punto.

EM - Certo, questo è verissimo, e per questo equivoco di fondo alcune donne hanno scelto, appunto, la complessità e quindi la creatività, la ricerca continua, mentre altre hanno scelto la realizzazione immediata, la carriera e l'affermazione sul lavoro. Io non credo che si possa pensare di fare il medico in modo diverso solo perché si è donne: lo si potrà fare se si avrà una progettualità globale, se si farà un lavoro di analisi e autoanalisi continuo.
L - La cosa buffa è che non si tratta affatto di donne in carriera realizzate! Si tratta, quindi in realtà, di un potere psicologico, di chi ha più potere sulle altre.
EM - Secondo me ci sono stati anche alcuni elementi che hanno permesso che tutto ciò accadesse: innanzitutto avere un luogo e dare a questo luogo poco a poco un significato simbolico trasformandolo quasi in un luogo sacro: il luogo dell'affidamento. Certo bisogna anche dire che in tutti questi anni, se è vero che molte donne se ne sono andate, è anche vero che se ne sono andate in silenzio, che il massimo del dissenso espresso è stato il mugugno, e quindi una parte di responsabilità per l'andamento delle cose è anche loro; io stessa, mentre non ho nessun problema nell'esprimere il mio disaccordo con un uomo, ho grosse difficoltà a farlo con una donna, ed è una difficoltà di relazione su cui mi piacerebbe confrontarmi con altre: io, noi stesse prima di arrivare a prendere posizione abbiamo dovuto superare molte resistenze dentro di noi e questa è la misura di quanto sia difficile porsi in un'ottica di critica costruttiva. Sta di fatto, comunque, che questi dieci anni sono stati - o almeno lo sono stati per me - anni di formazione importanti e il passaggio attraverso una fase di "tirannia" mi ha permesso di capirne l'essenza, i meccanismi, per poi rifiutarla. Forse senza questa esperienza non sarei arrivata alle mie posizioni attuali e alla attuale consapevolezza. Ora abbiamo lanciato un messaggio e si tratta di vedere se verrà raccolto e ripreso dalle altre donne che come noi non vogliono l'affidamento ed esprimono altre idee, altri desideri. Noi non vogliamo diventare un punto di riferimento alternativo, non vogliamo coprire "vuoti di potere" che si sono creati, non ci interessa. Quel che vogliamo è tentare di costruire insieme ad altre qualcosa di diverso, non conosciuto, tutto da inventare.

Dopo questa vostra uscita pubblica, quali sono state le reazioni del movimento delle donne?

L - Finora abbiamo avuto, a livello personale, un buon riscontro. Ma c'è ancora una grossa paura di parlare, di esprimersi contro la Libreria delle donne che ha indubbiamente un grosso significato simbolico e un grosso carisma. Ma i pareri personali dovranno poi tramutarsi in un dibattito di movimento se si vorrà cambiare qualcosa. Staremo a vedere.
Comunque io vorrei dire che per me, per la mia esperienza, il rapporto tra due donne che giocano due ruoli diversi configurabili anche nel più e nel meno ma perfettamente consapevoli, è molto importante. Il riconoscimento della disparità, insomma, permette di rilanciare, di approfondire e di arrivare dove non si sarebbe pensato di poter arrivare da sole. Ecco, a questo rapporto era stato dato il nome di affidamento, ma poi da questo sono scaturiti i mostri della ragione.

Non a caso. C'è una enorme differenza tra diversità e disparità. Nessuno può negare la prima, che è il sale del mondo, ma è possibile e auspicabile rifiutare la seconda che trasforma la diversità positiva in posizione di potere (inteso come dominio) attraverso giudizi di valore. Nessuno può negare l'importanza, ai fini della crescita individuale, del rapporto maestro-allievo o del rapporto madre-figlia, ma si tratta sempre di rapporti che debbono terminare una volta acquisita la sicurezza, la conoscenza, l'esperienza, se si vuole passare a una nuova fase di crescita e di autonomia di pensiero. E comunque si deve trattare sempre di rapporti circolari, in cui si dà e si riceve, si impara e si insegna vicendevolmente. Non esiste, di fatto, un rapporto a senso unico perché non esiste persona che non abbia qualcosa da trasmettere. Esistono, invece, non lo si può negare, persone dotate di maggiore "autorevolezza" per particolari caratteristiche individuali (equilibrio interiore, forza di carattere, coerenza, umanità, ecc.) ma l'importante è non eleggerle a "madri" o "padri", non rinchiuderle in un ruolo, non dargli potere. è un discorso vecchio come il mondo: senza persone disposte ad essere dominate non possono esistere dominatori.

L - Ma io, pur volendo un rapporto circolare come dite voi, voglio anche giudizi di valore, voglio dei valori, voglio un'etica che mi dica cos'è il bene e il male, voglio che si possa riconoscere il più e il meno. Non so quali parole usare per definire tutto questo.

E - Io ho sempre pensato al lavoro tra donne come ad un incrocio di desideri ed esperienze da cui poi potesse nascere un'elaborazione collettiva di pensiero. Ma senza giudizi di valore. Semplicemente un rapporto in cui ciascuna desse quello che aveva da dare e il tutto, messo insieme, desse vita al famoso bambino di cui parlavo prima, cioè desse la chiave per entrare in un mondo diverso.

Certo, questo è il modo di lavorare che concepiamo anche noi, perché è quello in cui ci riconosciamo e che, secondo noi, è anche più produttivo: esso si nutre dell'apporto di ciascuna/o ma il risultato non è solo la somma di questi apporti individuali, è molto, molto di più. Questo presuppone che ciascuna per poter dare sia in grado di produrre anche individualmente, che abbia una sua precisa identità e dignità che le vengono riconosciute paritariamente da tutte le altre. Ma è certo che questo modo di essere e di operare va contro tutti gli schemi della nostra cultura e della nostra società e quindi si presenta come infinitamente più difficile.

EM - Ma noi siamo immerse in questa cultura. Per anni abbiamo pensato di essere diverse, più buone degli uomini. Ora dobbiamo riconoscere che non è vero, che il potere, il desiderio di dominare è anche dentro di noi. E che ci sono donne che coscientemente o inconsciamente vogliono esercitare questo dominio sulle altre. Per noi che intendiamo metterlo in discussione, si tratta ora di ripartire da questa consapevolezza e di ricostruire un modo di rapportarsi e di lavorare tra donne cercando di contrastare l'insorgere e il cristallizzarsi di situazioni di potere.