Rivista Anarchica Online
Una libreria e i
suoi limiti
di Fausta Bizzozzero
Laura Lepetit,
Elena Modiano, Zulma Paggi, Luciana Percovich ed Elena Tunesi hanno
recentemente scritto una "lettera aperta dalla Libreria delle
donne di Milano", dal titolo "Una libreria ed i suoi doni". Mettono in
discussione la teoria e la pratica dell'affidamento. E tra le
femministe italiane si è subito accesa la discussione. Fausta
Bizzozzero ne parla con alcune delle autrici.
Correva l'anno
1982, il nostro collettivo "Le scimmie" si era da poco
costituito e avevamo da poco iniziato il nostro lavoro di ricerca
antropologica quando uscì un documento della storica Libreria delle
Donne (via Dogana 2, Milano). Il suo titolo era "Sottosopra",
sottotitolo "Più donne che uomini". Il suo contenuto, che
subito divenne oggetto di ampi dibattiti e trovò eco su tutti i
mass-media, ci fece allibire al punto da indurci a interrompere
momentaneamente il nostro appassionante lavoro per discutere tale
documento e preparare una risposta. Prima
ciclostilata e portata nei luoghi dove il documento veniva discusso
pubblicamente, poi pubblicata su "A" (Cfr. A 109),
la nostra risposta, intitolata significativamente "Più uomini
che donne" fu comunque la sola voce levatasi per controbattere
quel documento e le sue tesi. Con nostro grande rammarico. Al
contrario, esso fu accolto da tutti con estremo interesse e favore, e
non a caso salutato come l'inizio di un nuovo corso del femminismo
storico. Non poteva che essere così, visto che quella elaborazione
colmava il vuoto di progettualità del movimento femminista, lo
toglieva dalle secche in cui si dibatteva da anni indicando una
strada, un percorso, un obiettivo decisamente rassicuranti e
perfettamente funzionali all'esistente, anzi quasi una sua immagine
speculare. L'obiettivo era
la costruzione di un "mondo delle donne", il percorso era
la liberazione dei desideri femminili: voglia di vincere, voglia di
affermazione, voglia di vivere con agio, da signore nel mondo; la
strada da percorrere per arrivare a tanto era quella, allora solo
enunciata ma non approfondita, dell'affidamento, vale a dire la
costruzione di rapporti diseguali - e rivendicati come tali - tra
donne che "valgono di più" (affidanti) e donne che
"valgono di meno" (affidate). Questo in sintesi,
ovviamente, ma chi volesse approfondire può richiedere "Sottosopra"
alla Libreria delle donne e consultare la nostra risposta.
Recentemente, a distanza di anni, questa teoria dell'affidamento è
stata sviluppata in un libro (Non credere di avere dei diritti,
Edizioni Rosemberg & Sellier) che ripercorre parallelamente la
storia della libreria e si presenta come parto della libreria stessa.
È quindi con grande stupore - ma anche con grande piacere - che
abbiamo scoperto l'esistenza di un gruppo di donne "dissidenti":
donne che fanno parte della libreria sin dall'inizio e che, con
motivazioni e modalità diverse, hanno maturato una critica profonda
a questa impostazione e l'hanno espressa in un documento pubblico
firmato con nome e cognome (La libreria e i suoi doni). Abbiamo
voluto parlarne con loro per cercare di capire meglio il senso e il
segno di questa "dissidenza".
Arrivare a
questa vostra presa di posizione pubblica non deve essere stato
facile né indolore. Quali sono stati i motivi che vi hanno portato a
questa decisione?
L - Debbo
dire che sino all'uscita di "Sottosopra" a livello teorico
io mi riconoscevo nelle tesi elaborate e ritenevo anzi importante
questo documento che segnava un passaggio da una pratica di circolo
chiuso al riconoscimento del mondo esterno, della necessità di
esserci, e dei desideri che su di esso le donne proiettano. Mi
sembrava un passo avanti rispetto all'autocoscienza, al credere che
per quelle due ore in cui si stava insieme nessuna di noi dovesse
avere più altre ambizioni, uomini, amanti, ecc... Poi, nella
pratica, lo sviluppo di questo pensiero ha assunto una struttura
gerarchica, chiusa, dogmatica, e quello che poteva essere una
possibilità da esplorare cioè tentare la strada del desiderio
femminile attraverso figure di riferimento donne anziché uomini si è
trasformata nell'imposizione, nella forzata accettazione di un
rapporto gerarchico di potere con le donne che esprimevano con
maggior forza questi desideri e avevano quel "di più" che
veniva loro riconosciuto. Si è risolta, cioè, in una struttura
rigida che dovrebbe essere funzionale non si sa bene a che cosa.
Evidentemente
funzionale all'esistente, al mondo così com'è, ai suoi valori, alle
sue leggi! Ma concretamente, nella vostra esperienza nella libreria,
com'è stata vissuta questa pratica dell'affidamento?
EM - Io ho
sempre, sin dall'inizio, fatto i turni in libreria e si sa che quando
c'è di mezzo il lavoro è più facile ed immediato il riscontro, la
verifica nella pratica è inevitabile. Ebbene, all'uscita di
Sottosopra ho subito avvertito una sensazione di pericolo per cui mi
sono messa in una posizione di attesa e quando si è cominciato a
parlare di farne un libro non ho partecipato alle riunioni isolandomi
rispetto all'elaborazione della teoria dell'affidamento pur
continuando a lavorare in libreria. I rapporti si sono subito
deteriorati ma io ho preferito restare, anziché andarmene come tante
altre, perché avevo creduto e investito molto nel progetto politico
della libreria e perché, man mano che mi chiarivo le idee, mi
sembrava impossibile che tutte fossero d'accordo, che si fosse persa
la capacità di critica. La mia era quindi una posizione di attesa
sia all'interno che all'esterno, ed effettivamente per un po' di
tempo non si sono udite voci discordi, nessuna proposta o pensiero
alternativo, nulla, nessuna ha osato. Bisogna anche dire che quando
si cominciano a creare delle regole in un movimento che di regole non
ne aveva mai avute, quando si parla di "divinità", quando si
ricrea e si ridà forza al mito della "madre", tutto questo
risulta estremamente suggestivo e affascinante, e inoltre questa
teoria riconosceva e legittimava la disparità tra le donne, il loro
non essere tutte uguali e buone come sempre si era pensato e come in
realtà non è. Poi, piano piano, altre hanno espresso il loro
disaccordo e siamo arrivate alla decisione di prendere posizione. E - Io
debbo dire che ho sempre avuto l'impressione di essere in un ambiente
molto chiuso e asfissiante, non certo con rapporti allegri e sereni
tra donne. Purtroppo femministe si nasce, e quindi io sono sempre
rimasta dal lontano '75 per una sorta di deformazione mentale, forse
perché ho sempre avuto un privato molto ricco che quindi compensava
la freddezza e la chiusura della libreria. E così ho assistito
all'andarsene di tutte le donne migliori, donne di grande
intelligenza che però quando conoscevano "alcune"
salutavano e se ne andavano. E io sempre lì, forse per masochismo,
forse per vocazione femminista, per la diversità che ho sempre
sentito in me rispetto al classico destino della donna. Ed anche,
forse, perché c'era in me il desiderio del "Verbo" e pensavo
che restando prima o poi potesse nascere una teoria che mi avrebbe
illuminato la vita risolvendo tutti i miei problemi. Poi, invece,
quando questa teoria si è rivelata purtroppo io ho cominciato a
scalpitare, già da Sottosopra, e ho convocato una riunione in cui ho
detto che se si fosse andate avanti su quella strada facendo il libro
io me ne sarei andata spiegando ovviamente i motivi per cui ritenevo
tale strada estremamente pericolosa e inaccettabile. Infatti la mia
intenzione era quella di andarmene subito dopo, ma poi si è
coagulato anche il dissenso di altre e allora abbiamo cominciato a
pensare che forse si poteva fare qualcosa insieme; per me, a quel
punto, si trattava di salvare il mio buon nome perché io mi
vergognavo profondamente dell'affidamento ed anche in teoria, non
solo nella pratica, lo trovavo spaventevole e inaccettabile, mentre
L., ad esempio, ne era abbastanza affascinata a livello teorico. Io
ho sempre avuto un nome onorato - mi sono detta - e lo voglio portare
sino alla fine. In quella riunione
che è diventata storica, ho toccato con mano cosa significa
concretamente la pratica dell'affidamento, ho visto le dipendenze che
crea, l'interiorizzazione di questa dipendenza e della madre
simbolica per cui si resta figlie che non crescono mai. E ho visto
anche la stupidità delle affidate che non ha limiti, e contro cui
non si può nulla.
All'interno del
movimento delle donne, a nostro avviso, è sempre mancata una
riflessione approfondita sul potere e proprio questa mancanza ha poi
potuto condurre a una elaborazione come quella dell'affidamento che
rivaluta e legittima il potere giocando però sull'ambiguità e
utilizzando i polivalenti significati di questo termine (poter fare,
poter essere, potenza, dominio, ecc.) proprio per confondere le acque
e spacciare questa teoria come qualcosa di nuovo mentre in realtà
non è che la riproposizione in chiave femminile di schemi e modelli
che da sempre governano il mondo. Ecco, ci sembra
che invece, quantomeno nell'ambito del vostro gruppo, sia iniziata
una riflessione in questo senso. Nel vostro documento a un certo
punto si legge: "Per cambiare il mondo non basta uno spostamento
di genere. Se le regole sono identiche, la differenza sessuale
sarà annullata dal peso preponderante del metodo. O forse "cambiare
il mondo" esprime il desiderio di conquistare una fetta di potere
in mano all'uomo per poi gestirla tra donne? Ma in questo caso
l'affidamento non è la sorgente di un cambiamento profondamente
sovvertitore; giustifica appena l'aggressività, la violenza, la
competitività femminili. E questo non ci consola. Forse è arrivato
il momento di modificare i meccanismi e i comportamenti che ci hanno
fin qui condizionate". Non è forse questo l'inizio di una nuova
consapevolezza e la riaffermazione del desiderio di cambiare il mondo
su altri parametri?
EM - Certo.
Ma paradossalmente è stata proprio la teoria dell'affidamento a
costringerci a riflettere su queste cose. Prima nel movimento il
problema del potere è sempre stato "rimosso" da un lato ed
esorcizzato dall'altro, poiché comunque si cercava sempre di non
creare centri di potere e di non istituzionalizzarli attraverso una
pratica che implica una costante attenzione al quotidiano e quindi
una complessità notevole, e l'attuazione continua di meccanismi che
equilibrino tutte le varie spinte individuali e collettive. La teoria
dell'affidamento pone fine a questa complessità ed immediatamente
costringe ad affrontare il problema del potere e ad entrare in un
logica che è quella della politica tradizionale. Ma la complessità,
nel pensiero e nell'agire quotidiano, certo più faticosa, e la
contropartita che si ha in cambio può sembrare insufficiente; io
dico sempre che si ha in cambio la vita, perché si mantiene il
contatto con se stesse e si mantiene la propria identità. Ma molte
donne dicono che a loro non importa più niente di tutto questo,
vogliono dei vantaggi concreti. Evidentemente si tratta di donne a
cui non interessa instaurare rapporti diversi - o meglio originali da
inventare, visto che non sono mai esistiti i rapporti che noi
vorremmo - malgrado il loro coinvolgimento nel movimento magari per
tanti anni; e quindi vanno diritte verso il raggiungimento di quei
vantaggi che non hanno mai avuto.
Ci sembra però
che tutto questo abbia delle radici e venga da lontano, che non sia
imputabile a una improvvisa stanchezza nel gestire la complessità né
all'improvvisa scoperta di desideri prima inesistenti. Ci sembra
piuttosto che ci sia stata una scarsa chiarezza di fondo originaria:
se davvero il desiderio di cambiare il mondo e il rifiuto del potere
fossero stati acquisiti ed elaborati a livello profondo, se fosse
esistita una progettualità, non si sarebbe arrivate a questo punto.
EM - Certo,
questo è verissimo, e per questo equivoco di fondo alcune donne
hanno scelto, appunto, la complessità e quindi la creatività, la
ricerca continua, mentre altre hanno scelto la realizzazione
immediata, la carriera e l'affermazione sul lavoro. Io non credo che
si possa pensare di fare il medico in modo diverso solo perché si è
donne: lo si potrà fare se si avrà una progettualità globale, se
si farà un lavoro di analisi e autoanalisi continuo.
L - La
cosa buffa è che non si tratta affatto di donne in carriera
realizzate! Si tratta, quindi in realtà, di un potere psicologico,
di chi ha più potere sulle altre. EM - Secondo
me ci sono stati anche alcuni elementi che hanno permesso che tutto
ciò accadesse: innanzitutto avere un luogo e dare a questo luogo
poco a poco un significato simbolico trasformandolo quasi in un luogo
sacro: il luogo dell'affidamento. Certo bisogna anche dire che in
tutti questi anni, se è vero che molte donne se ne sono andate, è
anche vero che se ne sono andate in silenzio, che il massimo del
dissenso espresso è stato il mugugno, e quindi una parte di
responsabilità per l'andamento delle cose è anche loro; io stessa,
mentre non ho nessun problema nell'esprimere il mio disaccordo con un
uomo, ho grosse difficoltà a farlo con una donna, ed è una
difficoltà di relazione su cui mi piacerebbe confrontarmi con
altre: io, noi stesse prima di arrivare a prendere posizione abbiamo
dovuto superare molte resistenze dentro di noi e questa è la
misura di quanto sia difficile porsi in un'ottica di critica
costruttiva. Sta di fatto, comunque, che questi dieci anni sono stati - o almeno lo sono stati per me - anni di formazione importanti e
il passaggio attraverso una fase di "tirannia" mi ha permesso di
capirne l'essenza, i meccanismi, per poi rifiutarla. Forse senza
questa esperienza non sarei arrivata alle mie posizioni attuali e
alla attuale consapevolezza. Ora abbiamo lanciato un messaggio e si
tratta di vedere se verrà raccolto e ripreso dalle altre donne che
come noi non vogliono l'affidamento ed esprimono altre idee, altri
desideri. Noi non vogliamo diventare un punto di riferimento
alternativo, non vogliamo coprire "vuoti di potere" che si sono
creati, non ci interessa. Quel che vogliamo è tentare di costruire
insieme ad altre qualcosa di diverso, non conosciuto, tutto da
inventare.
Dopo questa
vostra uscita pubblica, quali sono state le reazioni del movimento
delle donne?
L - Finora
abbiamo avuto, a livello personale, un buon riscontro. Ma c'è ancora
una grossa paura di parlare, di esprimersi contro la Libreria delle
donne che ha indubbiamente un grosso significato simbolico e un
grosso carisma. Ma i pareri personali dovranno poi tramutarsi in un
dibattito di movimento se si vorrà cambiare qualcosa. Staremo a
vedere. Comunque io vorrei
dire che per me, per la mia esperienza, il rapporto tra due donne che
giocano due ruoli diversi configurabili anche nel più e nel meno ma
perfettamente consapevoli, è molto importante. Il riconoscimento
della disparità, insomma, permette di rilanciare, di approfondire e
di arrivare dove non si sarebbe pensato di poter arrivare da sole.
Ecco, a questo rapporto era stato dato il nome di affidamento, ma poi
da questo sono scaturiti i mostri della ragione.
Non a caso. C'è
una enorme differenza tra diversità e disparità. Nessuno può
negare la prima, che è il sale del mondo, ma è possibile e
auspicabile rifiutare la seconda che trasforma la diversità positiva
in posizione di potere (inteso come dominio) attraverso giudizi di
valore. Nessuno può negare l'importanza, ai fini della crescita
individuale, del rapporto maestro-allievo o del rapporto
madre-figlia, ma si tratta sempre di rapporti che debbono terminare
una volta acquisita la sicurezza, la conoscenza, l'esperienza, se si
vuole passare a una nuova fase di crescita e di autonomia di
pensiero. E comunque si deve trattare sempre di rapporti circolari,
in cui si dà e si riceve, si impara e si insegna vicendevolmente.
Non esiste, di fatto, un rapporto a senso unico perché non esiste
persona che non abbia qualcosa da trasmettere. Esistono, invece, non
lo si può negare, persone dotate di maggiore "autorevolezza" per
particolari caratteristiche individuali (equilibrio interiore, forza
di carattere, coerenza, umanità, ecc.) ma l'importante è non
eleggerle a "madri" o "padri", non rinchiuderle in un
ruolo, non dargli potere. è
un discorso vecchio come il mondo: senza persone disposte ad
essere dominate non possono esistere dominatori.
L - Ma io,
pur volendo un rapporto circolare come dite voi, voglio anche giudizi
di valore, voglio dei valori, voglio un'etica che mi dica cos'è il
bene e il male, voglio che si possa riconoscere il più e il meno.
Non so quali parole usare per definire tutto questo.
E - Io ho
sempre pensato al lavoro tra donne come ad un incrocio di desideri ed
esperienze da cui poi potesse nascere un'elaborazione collettiva di
pensiero. Ma senza giudizi di valore. Semplicemente un rapporto in
cui ciascuna desse quello che aveva da dare e il tutto, messo
insieme, desse vita al famoso bambino di cui parlavo prima, cioè
desse la chiave per entrare in un mondo diverso.
Certo, questo è
il modo di lavorare che concepiamo anche noi, perché è quello in
cui ci riconosciamo e che, secondo noi, è anche più produttivo:
esso si nutre dell'apporto di ciascuna/o ma il risultato non è solo
la somma di questi apporti individuali, è molto, molto di più.
Questo presuppone che ciascuna per poter dare sia in grado di
produrre anche individualmente, che abbia una sua precisa identità e
dignità che le vengono riconosciute paritariamente da tutte le
altre. Ma è certo che questo modo di essere e di operare va contro
tutti gli schemi della nostra cultura e della nostra società e
quindi si presenta come infinitamente più difficile.
EM - Ma noi
siamo immerse in questa cultura. Per anni abbiamo pensato di essere
diverse, più buone degli uomini. Ora dobbiamo riconoscere che non è
vero, che il potere, il desiderio di dominare è anche dentro di noi.
E che ci sono donne che coscientemente o inconsciamente vogliono
esercitare questo dominio sulle altre. Per noi che intendiamo
metterlo in discussione, si tratta ora di ripartire da questa
consapevolezza e di ricostruire un modo di rapportarsi e di lavorare
tra donne cercando di contrastare l'insorgere e il cristallizzarsi di
situazioni di potere.
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