Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 18 nr. 157
estate 1988


Rivista Anarchica Online

Dietro la maschera dell'europeismo
di Carlo Oliva

Confesso di non aver assolutamente idea di che cosa accadrà, da un punto di vista economico, giuridico e finanziario, quando, nel prossimo 1991, avrà luogo quel singolare fenomeno cui alludono, da qualche tempo, gli strumenti di comunicazione di massa, con tutta una serie di termini vagamente esoterici, del tipo di "unificazione del mercato europeo", "mercato europeo unificato", "apertura delle frontiere europee" e simili. Immagino che il problema sia quello dell'abolizione, o della decadenza, delle normative intese a limitare la circolazione dei capitali, delle merci e della forza lavoro tra i dodici paesi del Mercato Comune. Ma non ne sono affatto sicuro, e non intendo nascondere la mia ignoranza in materia.
In realtà, le allusioni e le argomentazioni in merito che si incontrano da un po' su quotidiani e riviste, mi fanno pensare che anche gli addetti professionali all'informazione non abbiano delle idee particolarmente precise. In pratica, si limitano ad esprimere esortazioni e speranze acciocché le industrie nazionali "siano preparate" all'evento (come a dire, suppongo, in grado di sostenere la concorrenza), il che non vuol dire proprio un gran che. Certo è un'argomentazione familiare. L'abbiamo incontrata nei contesti più vari. E appunto per questo non possiamo pretendere che abbia una gran capacità informativa. Per la nostra stampa, si sa, invitare le industrie ad "essere preparate" a qualcosa è un eufemismo d'uso ormai corrente. Sappiamo tutti che l'unico modo di essere preparati, per l'industria, è quello di far lavorare di più gli operai pagandoli meno, un concetto che non si può proprio esprimere senza qualche mediazione semantica e qualche giustificazione ideologica. E come giustificazione, quella dell'Europa non funziona peggio di tante altre, dal risanamento dell'economia alla lotta al terrorismo.

Non impegna troppo
Strano, però. In qualche modo, ero convinto, che l'apertura delle frontiere fosse già cosa fatta. Ricordo, che, più o meno, se ne parlava nel '57, quando fu firmato il trattato di Roma fra i sei paesi fondatori: io frequentavo la scuola media, e ci fecero fare un tema in classe sull'importanza dell'evento. Veramente, ci eravamo aspettati un giorno di vacanza, che poi non era stato concesso, e la delusione era stata notevole, ma avevamo capito lo stesso che l'Europa era una gran cosa e lo scrivemmo tutti debitamente.
L'unione doganale fra paesi membri del MEC divenne effettiva nel 1968, e non mi sembra che allora la scadenza abbia suscitato particolari emozioni (ma forse eravamo distratti).
In compenso, ricordiamo tutti la generale soddisfazione del '73, quando la Gran Bretagna (con Irlanda e Danimarca) aderì al sistema; i panegirici che si intonarono nel '79, quando fu eletto per la prima volta il parlamento europeo; il misurato entusiasmo che segnò, nell'81, l'ammissione della Grecia e, nell'86, quella di Spagna e Portogallo. Ogni volta si parlò di frontiere abolite, di mercato unito, di un futuro di prosperità e della necessità per le nostre industrie (e per la nostra agricoltura) di mostrarsi all'altezza.
Insomma, la costruzione dell'Europa unita è uno di quegli eventi che hanno accompagnato, in un modo o nell'altro, la nostra vita, come una specie di contrappunto ideologico. Il ricordo dei tempi in cui si considerava il problema europeo come un problema politico, sul quale era anche lecito schierarsi (qualcuno era addirittura contrario al Mercato Comune, figuriamoci) è remotissimo. Oggi, sull'Europa, sono d'accordo tutti. Dell'Europa, come della mamma, non è lecito pensare, né dire male.
Si capisce anche. L'Europa unita non è considerata propriamente la panacea di tutti i possibili mali politici, ma, certo, quando su un qualche problema non si sa che pesci pigliare è comodo dire che la soluzione va cercata a livello europeo: io ricordo di averlo sentito dire per la questione sudtirolese e per quella energetica, per l'inflazione e per la ricerca, e chissà per che altro. Quando un governo non vuole impegnarsi su qualche tema scottante, e deve in qualche modo farlo, può proporre che se ne occupi l'Europa, come succede regolarmente a proposito dei molti drammi del Medio Oriente. Suona bene, e non impegna troppo.
Non voglio dire, dio scampi, che i processi in corso dal '57 in poi sono di natura puramente ideologica. So che si tratta, al contrario, di una vera ristrutturazione economica e politica, che ha avuto ed avrà non poca influenza sulla vita di tutti noi, e che andrebbe adeguatamente analizzata e discussa. Propongo solo di considerare l'espressione "Europa unita" come un jolly ideologico comunemente utilizzato per non dichiarare la natura e la direzione di quei processi.
D'altronde, non è necessario essere espertissimi in storia per sapere che l'ideale dell'unità europea ha perso molto del suo significato da quando non sono più una realtà le rivalità egemoniche tra le potenze europee. L'idea stessa era nata per rifiutare quelle rivalità in nome della comune tradizione culturale: era stata elaborata in questo senso negli ambienti liberal-democratici tra le due guerre (in Italia nella cerchia di "Giustizia e Libertà"), e poi ripresa da quelli democristiani, con l'obiettivo di superare la tradizionale inimicizia franco-tedesca. Ma già negli anni '50 questa nobile prospettiva veniva comunemente impiegata dai vari governi occidentali per contrabbandare tutt'altri programmi: per esempio il riarmo della Germania, che fu proposto nell'ambito di una costituenda "Comunità europea di difesa", che la Francia allora respinse, e realizzato in quello di una apposita "Unione europea occidentale" strettamente coordinata alla NATO.

Provincia americana
Nonostante tutto, quello di Europa unita è un concetto perbene. È un buon sostituto, a livello borghese, del disdicevole internazionalismo che ha caratterizzato così a lungo l'ideologia del movimento operaio. Dà una dimensione progressista ad impostazioni che altrimenti rischierebbero di essere francamente razziste: ricordate quei tali che dicevano che l'Italia doveva scegliere tra Europa e Medio Oriente?
E poi, si sa che l'Europa occidentale è una provincia dell'impero americano, ma non ama ammetterlo. L'europeismo permette di mascherare questa realtà spiacevole con una specie di innocuo terzaforzismo. E poi fornisce un'accettabile identità culturale a partiti e a governi da sempre appiattiti sull'ossequio agli Stati Uniti, desiderosi di negare questa sudditanza e restii, per vari motivi, ad ostentare impostazioni nazionalistiche. In questo senso, piace anche a molte anime belle vagamente "di sinistra" che trovano tutto sommato piacevoli i valori e i comfort della società occidentale, ma hanno bisogno di un altro da sé (l'America, appunto) su cui scaricare quegli aspetti deprecabili e volgari di cui farebbero volentieri a meno.
Questa operazione, naturalmente, consiste nel ritagliare due livelli nello stesso sistema culturale, ed è davvero un pochino arbitraria. Ma è un discorso che ci porterebbe troppo lontano.
Sì, è probabile che sull'abolizione delle frontiere prevista per il 1992 non ci sia da fare un gran conto, ma tanto lo sapevamo già. Forse potrebbe essere un'occasione simpatica per rimeditare i valori dell'internazionalismo.
La contraddizione base, lo sappiamo, non passa tra l'Europa e resto del mondo, passa tra Nord e Sud , tra società industriali e paesi in via di sviluppo... E allora, perché far finta di niente?