Rivista Anarchica Online
Dietro la maschera dell'europeismo
di Carlo Oliva
Confesso di non aver assolutamente idea
di che cosa accadrà, da un punto di vista economico, giuridico
e finanziario, quando, nel prossimo 1991, avrà luogo quel
singolare fenomeno cui alludono, da qualche tempo, gli strumenti di
comunicazione di massa, con tutta una serie di termini vagamente
esoterici, del tipo di "unificazione del mercato europeo",
"mercato europeo unificato", "apertura delle frontiere
europee" e simili. Immagino che il problema sia quello
dell'abolizione, o della decadenza, delle normative intese a limitare
la circolazione dei capitali, delle merci e della forza lavoro tra i
dodici paesi del Mercato Comune. Ma non ne sono affatto sicuro, e non
intendo nascondere la mia ignoranza in materia.
In realtà, le allusioni e le
argomentazioni in merito che si incontrano da un po' su quotidiani e
riviste, mi fanno pensare che anche gli addetti professionali
all'informazione non abbiano delle idee particolarmente precise. In
pratica, si limitano ad esprimere esortazioni e speranze acciocché
le industrie nazionali "siano preparate" all'evento (come a
dire, suppongo, in grado di sostenere la concorrenza), il che non
vuol dire proprio un gran che. Certo è un'argomentazione
familiare. L'abbiamo incontrata nei contesti più vari. E
appunto per questo non possiamo pretendere che abbia una gran
capacità informativa. Per la nostra stampa, si sa, invitare le
industrie ad "essere preparate" a qualcosa è un
eufemismo d'uso ormai corrente. Sappiamo tutti che l'unico modo di
essere preparati, per l'industria, è quello di far lavorare di
più gli operai pagandoli meno, un concetto che non si può
proprio esprimere senza qualche mediazione semantica e qualche
giustificazione ideologica. E come giustificazione, quella
dell'Europa non funziona peggio di tante altre, dal risanamento
dell'economia alla lotta al terrorismo.
Non impegna troppo
Strano, però. In qualche modo,
ero convinto, che l'apertura delle frontiere fosse già cosa
fatta. Ricordo, che, più o meno, se ne parlava nel '57, quando
fu firmato il trattato di Roma fra i sei paesi fondatori: io
frequentavo la scuola media, e ci fecero fare un tema in classe
sull'importanza dell'evento. Veramente, ci eravamo aspettati un
giorno di vacanza, che poi non era stato concesso, e la delusione era
stata notevole, ma avevamo capito lo stesso che l'Europa era una gran
cosa e lo scrivemmo tutti debitamente.
L'unione doganale fra paesi membri del
MEC divenne effettiva nel 1968, e non mi sembra che allora la
scadenza abbia suscitato particolari emozioni (ma forse eravamo
distratti).
In compenso, ricordiamo tutti la
generale soddisfazione del '73, quando la Gran Bretagna (con Irlanda
e Danimarca) aderì al sistema; i panegirici che si intonarono
nel '79, quando fu eletto per la prima volta il parlamento europeo;
il misurato entusiasmo che segnò, nell'81, l'ammissione della
Grecia e, nell'86, quella di Spagna e Portogallo. Ogni volta si parlò
di frontiere abolite, di mercato unito, di un futuro di prosperità
e della necessità per le nostre industrie (e per la nostra
agricoltura) di mostrarsi all'altezza.
Insomma, la costruzione dell'Europa
unita è uno di quegli eventi che hanno accompagnato, in un
modo o nell'altro, la nostra vita, come una specie di contrappunto
ideologico. Il ricordo dei tempi in cui si considerava il problema
europeo come un problema politico, sul quale era anche lecito
schierarsi (qualcuno era addirittura contrario al Mercato Comune,
figuriamoci) è remotissimo. Oggi, sull'Europa, sono d'accordo
tutti. Dell'Europa, come della mamma, non è lecito pensare, né
dire male.
Si capisce anche. L'Europa unita non è
considerata propriamente la panacea di tutti i possibili mali
politici, ma, certo, quando su un qualche problema non si sa che
pesci pigliare è comodo dire che la soluzione va cercata a
livello europeo: io ricordo di averlo sentito dire per la questione
sudtirolese e per quella energetica, per l'inflazione e per la
ricerca, e chissà per che altro. Quando un governo non vuole
impegnarsi su qualche tema scottante, e deve in qualche modo farlo,
può proporre che se ne occupi l'Europa, come succede
regolarmente a proposito dei molti drammi del Medio Oriente. Suona
bene, e non impegna troppo.
Non voglio dire, dio scampi, che i
processi in corso dal '57 in poi sono di natura puramente ideologica.
So che si tratta, al contrario, di una vera ristrutturazione
economica e politica, che ha avuto ed avrà non poca influenza
sulla vita di tutti noi, e che andrebbe adeguatamente analizzata e
discussa. Propongo solo di considerare l'espressione "Europa
unita" come un jolly ideologico comunemente utilizzato per non
dichiarare la natura e la direzione di quei processi. D'altronde, non è necessario
essere espertissimi in storia per sapere che l'ideale dell'unità
europea ha perso molto del suo significato da quando non sono più
una realtà le rivalità egemoniche tra le potenze
europee. L'idea stessa era nata per rifiutare quelle rivalità
in nome della comune tradizione culturale: era stata elaborata in
questo senso negli ambienti liberal-democratici tra le due guerre (in
Italia nella cerchia di "Giustizia e Libertà"), e
poi ripresa da quelli democristiani, con l'obiettivo di superare la
tradizionale inimicizia franco-tedesca. Ma già negli anni '50
questa nobile prospettiva veniva comunemente impiegata dai vari
governi occidentali per contrabbandare tutt'altri programmi: per
esempio il riarmo della Germania, che fu proposto nell'ambito di una
costituenda "Comunità europea di difesa", che la
Francia allora respinse, e realizzato in quello di una apposita
"Unione europea occidentale" strettamente coordinata alla
NATO.
Provincia americana
Nonostante tutto, quello di Europa
unita è un concetto perbene. È
un buon sostituto, a livello borghese, del disdicevole
internazionalismo che ha caratterizzato così a lungo
l'ideologia del movimento operaio. Dà una dimensione
progressista ad impostazioni che altrimenti rischierebbero di essere
francamente razziste: ricordate quei tali che dicevano che l'Italia
doveva scegliere tra Europa e Medio Oriente?
E poi, si sa che l'Europa occidentale è
una provincia dell'impero americano, ma non ama ammetterlo.
L'europeismo permette di mascherare questa realtà spiacevole
con una specie di innocuo terzaforzismo. E poi fornisce
un'accettabile identità culturale a partiti e a governi da
sempre appiattiti sull'ossequio agli Stati Uniti, desiderosi di
negare questa sudditanza e restii, per vari motivi, ad ostentare
impostazioni nazionalistiche. In questo senso, piace anche a molte
anime belle vagamente "di sinistra" che trovano tutto
sommato piacevoli i valori e i comfort della società
occidentale, ma hanno bisogno di un altro da sé (l'America,
appunto) su cui scaricare quegli aspetti deprecabili e volgari di cui
farebbero volentieri a meno.
Questa operazione, naturalmente,
consiste nel ritagliare due livelli nello stesso sistema culturale,
ed è davvero un pochino arbitraria. Ma è un discorso
che ci porterebbe troppo lontano.
Sì, è probabile che
sull'abolizione delle frontiere prevista per il 1992 non ci sia da
fare un gran conto, ma tanto lo sapevamo già. Forse potrebbe
essere un'occasione simpatica per rimeditare i valori
dell'internazionalismo. La contraddizione base, lo sappiamo,
non passa tra l'Europa e resto del mondo, passa tra Nord e Sud , tra
società industriali e paesi in via di sviluppo... E allora,
perché far finta di niente?
|