Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 18 nr. 157
estate 1988


Rivista Anarchica Online

Una legge anti-Cobas
di Claudia Santi / Stefano D'Errico

Mentre la crisi di rappresentanza delle confederazioni tocca il suo apice, sta per essere approvata - nel consenso più generale - la regolamentazione del diritto di sciopero. Due esponenti dei COBAS spiegano che cosa si nasconde dietro la "tutela dell'utenza". E invitano a battersi contro questo progetto di legge liberticida.

L'estate in Italia non è - purtroppo - solo tempo di vacanze. Infaticabili parlamentari, forze politiche di governo ed opposizione, secondo un uso ormai consolidato attendono che si allenti la pubblica attenzione per portare in aula i provvedimenti più discutibili.
Quest'anno dunque, accanto alla tradizionale "stangata d'agosto" che ormai non fa più notizia, avremo la "prima grande riforma istituzionale": la regolamentazione del diritto di sciopero.
L'intervento legislativo, in realtà, non si prefigge unicamente lo scopo di definire i limiti dell'esercizio di tale diritto, compito di entità non certo trascurabile ma comunque compreso entro confini ben determinati. Si coglie l'occasione per ridisegnare il complesso delle relazioni sindacali e più in generale i rapporti all'interno del mondo del lavoro.
Non meraviglia quindi che diversi articoli del disegno diano "semplici" correttivi di quanto già contenuto nella legge-quadro sul pubblico impiego, introducendo più restrittive modalità per l'accesso alle trattative e creando nuove invenzioni che dilatano i livelli di mediazione del confronto-scontro.
Così tra organizzazioni sindacali e controparti (pubbliche o private), "istituti" già di mediazione e che esprimono o dovrebbero esprimere interessi di altri, si prevede la frapposizione di un'inedita "commissione per le relazioni sindacali" (art. 11). Tale organismo dai compiti vastissimi e dai poteri indeterminati, per citare solo alcuni dei campi di esplicazione della sua attività, sarà tenuta a valutare l'adeguatezza dei codici, che a questo punto restano solo nominalmente "di autoregolamentazione"; a sovraintendere, su richiesta, allo svolgimento di consultazioni sulle clausole negoziali e sui servizi minimi garantiti; a riferire sull'andamento dei conflitti nazionali; a dare indicazioni per "attenuare i disagi dell'utenza" in caso di scioperi.
Inoltre la commissione può di sua iniziativa suggerire l'indicazione di referendum su materie oggetto di controversie. Il tutto naturalmente ai fini di raffreddare, o meglio congelare, la conflittualità stessa e di garantire ai cittadini il godimento dei beni costituzionalmente tutelati. Va da sé che tali beni nel testo di legge coincidono con tutti i settori pubblici o privati in cui si sono manifestati (o si teme si manifestino) movimenti di auto organizzazione dei lavoratori.

Un criterio perverso
Sarebbe ovviamente impresa titanica garantire il godimento "pieno" di tali beni: ciò implicherebbe infatti impegni non indifferenti da parte dello stato per sanare guasti macroscopici da anni in attesa di soluzione come la scarsità di acqua e fogne in svariati comuni del Sud, la mancata realizzazione del diritto allo studio, per non parlare di altro che, anche se non "costituzionalmente protetto", è nondimeno centrale, come il diritto alla casa o al lavoro.
Questi problemi restano ancora aperti e non meritano l'intervento del legislatore, che in relazione ad essi si ritiene pago delle mere affermazioni di principio contenute nella carta costituzionale.
Se quindi, il diritto alla salute, all'assistenza sociale, all'istruzione e gli altri enunciati nell'articolo 1 della legge possono attendere, quello che invece preme assicurare è il livello indispensabile di funzionamento del servizio, onde predisporre le "comandate" dei lavoratori in caso di sciopero. Viene in questo modo esteso al settore terziario, un criterio perverso già operante nell'industria. Insomma, scioperare si può, ma solo a patto di non colpire i punti nevralgici della "produzione".
Ma come individuare quali siano tali "livelli indispensabili di funzionamento"? Il senatore Giugni, padre dello Statuto dei Lavoratori e principale ispiratore del disegno di legge in discussione, ci tiene a sottolineare che non siamo in uno "stato sudamericano", e pertanto non sarà certo lui ad assumersi l'onere di definire gli ambiti irriducibili dei servizi.
Il compito viene demandato alla sede negoziale, con richiamo a quanto contenuto, oltre che nella stessa legge-quadro, nei contratti collettivi di lavoro e nei regolamenti di servizio. In mancanza di tali riferimenti, viene affidato direttamente alle imprese, con il vacuo obbligo di mantenersi entro i limiti posti dal disegno di legge in questione. Peccato che di "limiti" non vi sia la pur minima traccia nei 17 articoli di cui si compone il testo.
In tempi di "deregulation", anche il parlamento si adegua e passa la mano ad organismi più o meno strutturali, che vengono chiamati a legiferare di fatto, ruolo forse un po' scomodo, ma senz'altro gratificante.
Quando poi Antonio Lettieri (CGIL) dalle pagine del "Manifesto" (6-7-'88) ammonisce che "il sindacato non può farsi stato", si entra addirittura nel grottesco: resta oscuro allora il senso del documento sul diritto di sciopero elaborato da esponenti delle confederazioni ed inoltrato agli organi dello stato il 28 luglio scorso. Tale testo costituisce l'ossatura del disegno di legge sullo sciopero su cui ora è aperto il dibattito, ed anzi se fosse stato recepito integralmente avrebbe dato luogo ad un progetto ancora più repressivo e reazionario. La realtà supera l'immaginazione: la proposta confederale suggeriva di non corrispondere i benefici contrattuali ai lavoratori ribelli.
Nell'ambito del capitolo delle sanzioni si è dato veramente fondo alle riserve della fantasia. In caso di scioperi che non rispettino il preavviso di 5 giorni (già meno dei 15 previsti dalla legge-quadro) o blocchino i famosi livelli indispensabili del servizio, i lavoratori coinvolti dall'agitazione verranno colpiti da effetti disciplinari, sino alla sospensione dell'incarico per il tempo massimo stabilito dallo stato giuridico del personale dei vari settori, con relativa sottrazione dello stipendio per la vigenza del provvedimento.
Una nuova forma di precettazione modernizzata nelle modalità di recapito (diffusione a mezzo stampa, affissione, teletrasmissione), incombe poi qualora "si profili un fondato pericolo di pregiudizio grave ed imminente" ai soliti beni "costituzionalmente tutelati". Gli inadempienti non sono più sottoposti a procedimenti penali ma devono devolvere all'INPS un "contributo" involontario da un minimo di 50.000 ad un massimo di 300.000 lire per ogni giorno di rifiuto della precettazione.
Magra consolazione sarà sapere che tali somme saranno destinate ad una "assicurazione obbligatoria per la disoccupazione involontaria".

L'istituzione sindacato
La regolamentazione del diritto di sciopero arriva, non a caso, nel momento della massima crisi di rappresentanza delle confederazioni, dato ormai cronico e strutturale, visto che il sindacato, rinnegate le sue origini antistataliste, viene a configurarsi come istituzione fra istituzioni. Ecco la necessità di continui interventi legislativi d'appoggio, atti a garantire a tali organizzazioni sempre più senza base, l'esclusiva in materia di contrattazione.
Va poi sottolineata la profonda illiberalità ed incongruenza di una norma che, nell'ambito di un conflitto, garantisce la possibilità di sovradeterminare i modi della rappresentanza degli organismi dei lavoratori alla controparte, la quale pretenderebbe spogliarsi del suo ruolo specifico di pubblico datore di lavoro. Non è, per il momento, sottratta al singolo la titolarità del diritto di sciopero per darne l'esclusiva ai sindacati "giuridicamente riconosciuti" come invece chiedeva Benvenuto nella sua lettera del 12-10-'87 al presidente del consiglio; ma a prezzo di una perpetua esclusione dalle trattative per le strutture di base.
Una manovra così pesante, che di fatto riporta lo sciopero ad una situazione pre-giolittiana di "diritto tollerato" e sottoposto all'arbitrio del prefetto o del presidente del consiglio dei ministri, necessita di un adeguato supporto ideologico, da ricercarsi naturalmente all'interno della massima legge dello stato.
Ed ecco che quelle che sinora erano vuote parole si caricano di un significato sinistro. Del resto la forzatura interpretativa dovrebbe risultare lampante ad ogni fautore dello "stato di diritto".
Conquistato l'appoggio dei benpensanti mediante una campagna stampa tesa ad enfatizzare i disagi dei viaggiatori "privati della loro libertà" da ferrovieri ed aeroportuali, dei pazienti "tenuti in ostaggio" all'interno degli ospedali, di studenti e famiglie che non possono usufruire del "bisogno primario della pagella" (la scuola ridotta a mero esamificio), si cerca di tagliare le gambe ai lavoratori auto-organizzati in lotta proprio per contrastare progetti di ristrutturazione dannosi non solo per essi ma principalmente per la collettività tutta.
La logica della ristrutturazione comporta infatti la soppressione di linee ferroviarie periferiche, di posti letto, di classi ed unità scolastiche, a tutto vantaggio delle strutture private, trasformando i servizi dalla sfera del diritto a quella del mercato.

La logica di mercato
Che il vero scopo sia quello di imprimere una scelta autoritaria e non garantire i diritti dell'utenza, come pretestuosamente si afferma, può essere dimostrato dall'esame delle quote degli stanziamenti destinati ai servizi: nel caso del Ministero della Pubblica Istruzione si è passati dal 20% circa del 1970 al 9,3% del 1982, prima volta in cui dopo il 1952 si è scesi al di sotto del 10%. Né tale tendenza sembra conoscere battute di arresto.
Queste cifre dimostrano quali elementi di solidarietà abbiano prodotto negli anni i detrattori dei Cobas, in prima linea i sindacati che di tale situazione sono "tradizionalmente" corresponsabili. Gli stessi che hanno siglato un contratto fortemente regressivo per la Scuola, che hanno accettato il principio della mancia estiva per i lavoratori della FIAT e che, nel tentativo disperato di arginare la crisi del Partito padre, rispolverano demagogicamente l'istituto del referendum che non sanno più né manovrare né portare alle estreme conseguenze dopo la bocciatura degli accordi da parte delle categorie interessate.
Sull'altare di compatibilità politiche (l'Ente Ferrovie, per non cedere agli scioperi ha sopportato oneri molto maggiori di quelli richiesti dalla piattaforma Cobas) ed economiche (iniqua redistribuzione delle risorse), si consuma il funerale di una sinistra imbelle e correa di fronte al più grave attacco portato alla democrazia dal dopoguerra ad oggi.
Mentre Pizzinato, Marino e Co. non riusciranno a fermare la storia, i sostenitori della frammentazione avranno buon gioco nel far trionfare la logica di mercato anche all'interno delle relazioni sindacali: l'implosione della conflittualità non può essere altro che il preludio a una guerra per bande, al micro-corporativismo diffuso, alla lotta tra lavoratori l'uno contro l'altro armati, il divide et impera del Capitale.
Proprio grazie ai Sindacati-istituzione ed alla legge anti-Cobas si sta per dare il via ad una rincorsa a catena fra sindacati, strutture auto-regolamentate, ma "all'americana", pronte a "rompere" anche all'interno delle singole categorie, con la morte definitiva di ogni legame solidaristico ed il trionfo del rampantismo, senza peraltro che si rechi alcun giovamento alla crisi ormai strutturale della Confederazione.