Rivista Anarchica Online
Una legge anti-Cobas
di Claudia Santi / Stefano D'Errico
Mentre la crisi di rappresentanza
delle confederazioni tocca il suo apice, sta per essere approvata -
nel consenso più generale - la regolamentazione del diritto di
sciopero. Due esponenti dei COBAS spiegano che
cosa si nasconde dietro la "tutela dell'utenza". E invitano a battersi contro questo
progetto di legge liberticida.
L'estate in Italia non è -
purtroppo - solo tempo di vacanze. Infaticabili parlamentari, forze
politiche di governo ed opposizione, secondo un uso ormai consolidato
attendono che si allenti la pubblica attenzione per portare in aula i
provvedimenti più discutibili.
Quest'anno dunque, accanto alla
tradizionale "stangata d'agosto" che ormai non fa più
notizia, avremo la "prima grande riforma istituzionale": la
regolamentazione del diritto di sciopero.
L'intervento legislativo, in realtà,
non si prefigge unicamente lo scopo di definire i limiti
dell'esercizio di tale diritto, compito di entità non certo
trascurabile ma comunque compreso entro confini ben determinati. Si
coglie l'occasione per ridisegnare il complesso delle relazioni
sindacali e più in generale i rapporti all'interno del mondo
del lavoro.
Non meraviglia quindi che diversi
articoli del disegno diano "semplici" correttivi di quanto
già contenuto nella legge-quadro sul pubblico impiego,
introducendo più restrittive modalità per l'accesso
alle trattative e creando nuove invenzioni che dilatano i livelli di
mediazione del confronto-scontro.
Così tra organizzazioni
sindacali e controparti (pubbliche o private), "istituti"
già di mediazione e che esprimono o dovrebbero esprimere
interessi di altri, si prevede la frapposizione di un'inedita
"commissione per le relazioni sindacali" (art. 11). Tale
organismo dai compiti vastissimi e dai poteri indeterminati, per
citare solo alcuni dei campi di esplicazione della sua attività,
sarà tenuta a valutare l'adeguatezza dei codici, che a questo
punto restano solo nominalmente "di autoregolamentazione";
a sovraintendere, su richiesta, allo svolgimento di consultazioni
sulle clausole negoziali e sui servizi minimi garantiti; a riferire
sull'andamento dei conflitti nazionali; a dare indicazioni per
"attenuare i disagi dell'utenza" in caso di scioperi.
Inoltre la commissione può di
sua iniziativa suggerire l'indicazione di referendum su materie
oggetto di controversie. Il tutto naturalmente ai fini di
raffreddare, o meglio congelare, la conflittualità stessa e di
garantire ai cittadini il godimento dei beni costituzionalmente
tutelati. Va da sé che tali beni nel testo di legge coincidono
con tutti i settori pubblici o privati in cui si sono manifestati (o
si teme si manifestino) movimenti di auto organizzazione dei
lavoratori.
Un criterio perverso
Sarebbe ovviamente impresa titanica
garantire il godimento "pieno" di tali beni: ciò
implicherebbe infatti impegni non indifferenti da parte dello stato
per sanare guasti macroscopici da anni in attesa di soluzione come la
scarsità di acqua e fogne in svariati comuni del Sud, la
mancata realizzazione del diritto allo studio, per non parlare di
altro che, anche se non "costituzionalmente protetto", è
nondimeno centrale, come il diritto alla casa o al lavoro.
Questi problemi restano ancora aperti e
non meritano l'intervento del legislatore, che in relazione ad essi
si ritiene pago delle mere affermazioni di principio contenute nella
carta costituzionale.
Se quindi, il diritto alla salute,
all'assistenza sociale, all'istruzione e gli altri enunciati
nell'articolo 1 della legge possono attendere, quello che invece
preme assicurare è il livello indispensabile di funzionamento
del servizio, onde predisporre le "comandate" dei
lavoratori in caso di sciopero. Viene in questo modo esteso al
settore terziario, un criterio perverso già operante
nell'industria. Insomma, scioperare si può, ma solo a patto di
non colpire i punti nevralgici della "produzione".
Ma come individuare quali siano tali
"livelli indispensabili di funzionamento"? Il senatore
Giugni, padre dello Statuto dei Lavoratori e principale ispiratore
del disegno di legge in discussione, ci tiene a sottolineare che non
siamo in uno "stato sudamericano", e pertanto non sarà
certo lui ad assumersi l'onere di definire gli ambiti irriducibili
dei servizi.
Il compito viene demandato alla sede
negoziale, con richiamo a quanto contenuto, oltre che nella stessa
legge-quadro, nei contratti collettivi di lavoro e nei regolamenti di
servizio. In mancanza di tali riferimenti, viene affidato
direttamente alle imprese, con il vacuo obbligo di mantenersi entro i
limiti posti dal disegno di legge in questione. Peccato che di
"limiti" non vi sia la pur minima traccia nei 17 articoli
di cui si compone il testo.
In tempi di "deregulation",
anche il parlamento si adegua e passa la mano ad organismi più
o meno strutturali, che vengono chiamati a legiferare di fatto, ruolo
forse un po' scomodo, ma senz'altro gratificante.
Quando poi Antonio Lettieri (CGIL)
dalle pagine del "Manifesto" (6-7-'88) ammonisce che "il
sindacato non può farsi stato", si entra addirittura nel
grottesco: resta oscuro allora il senso del documento sul diritto di
sciopero elaborato da esponenti delle confederazioni ed inoltrato
agli organi dello stato il 28 luglio scorso. Tale testo costituisce
l'ossatura del disegno di legge sullo sciopero su cui ora è
aperto il dibattito, ed anzi se fosse stato recepito integralmente
avrebbe dato luogo ad un progetto ancora più repressivo e
reazionario. La realtà supera l'immaginazione: la proposta
confederale suggeriva di non corrispondere i benefici contrattuali ai
lavoratori ribelli.
Nell'ambito del capitolo delle sanzioni
si è dato veramente fondo alle riserve della fantasia. In caso
di scioperi che non rispettino il preavviso di 5 giorni (già
meno dei 15 previsti dalla legge-quadro) o blocchino i famosi livelli
indispensabili del servizio, i lavoratori coinvolti dall'agitazione
verranno colpiti da effetti disciplinari, sino alla sospensione
dell'incarico per il tempo massimo stabilito dallo stato giuridico
del personale dei vari settori, con relativa sottrazione dello
stipendio per la vigenza del provvedimento.
Una nuova forma di precettazione
modernizzata nelle modalità di recapito (diffusione a mezzo
stampa, affissione, teletrasmissione), incombe poi qualora "si
profili un fondato pericolo di pregiudizio grave ed imminente"
ai soliti beni "costituzionalmente tutelati". Gli
inadempienti non sono più sottoposti a procedimenti penali ma
devono devolvere all'INPS un "contributo" involontario da
un minimo di 50.000 ad un massimo di 300.000 lire per ogni giorno di
rifiuto della precettazione.
Magra consolazione sarà sapere
che tali somme saranno destinate ad una "assicurazione
obbligatoria per la disoccupazione involontaria".
L'istituzione sindacato
La regolamentazione del diritto di
sciopero arriva, non a caso, nel momento della massima crisi di
rappresentanza delle confederazioni, dato ormai cronico e
strutturale, visto che il sindacato, rinnegate le sue origini
antistataliste, viene a configurarsi come istituzione fra
istituzioni. Ecco la necessità di continui interventi
legislativi d'appoggio, atti a garantire a tali organizzazioni sempre
più senza base, l'esclusiva in materia di contrattazione.
Va poi sottolineata la profonda
illiberalità ed incongruenza di una norma che, nell'ambito di
un conflitto, garantisce la possibilità di sovradeterminare i
modi della rappresentanza degli organismi dei lavoratori alla
controparte, la quale pretenderebbe spogliarsi del suo ruolo
specifico di pubblico datore di lavoro. Non è, per il momento,
sottratta al singolo la titolarità del diritto di sciopero per
darne l'esclusiva ai sindacati "giuridicamente riconosciuti"
come invece chiedeva Benvenuto nella sua lettera del 12-10-'87 al
presidente del consiglio; ma a prezzo di una perpetua esclusione
dalle trattative per le strutture di base.
Una manovra così pesante, che di
fatto riporta lo sciopero ad una situazione pre-giolittiana di
"diritto tollerato" e sottoposto all'arbitrio del prefetto
o del presidente del consiglio dei ministri, necessita di un adeguato
supporto ideologico, da ricercarsi naturalmente all'interno della
massima legge dello stato.
Ed ecco che quelle che sinora erano
vuote parole si caricano di un significato sinistro. Del resto la
forzatura interpretativa dovrebbe risultare lampante ad ogni fautore
dello "stato di diritto".
Conquistato l'appoggio dei benpensanti
mediante una campagna stampa tesa ad enfatizzare i disagi dei
viaggiatori "privati della loro libertà" da
ferrovieri ed aeroportuali, dei pazienti "tenuti in ostaggio"
all'interno degli ospedali, di studenti e famiglie che non possono
usufruire del "bisogno primario della pagella" (la scuola
ridotta a mero esamificio), si cerca di tagliare le gambe ai
lavoratori auto-organizzati in lotta proprio per contrastare
progetti di ristrutturazione dannosi non solo per essi ma
principalmente per la collettività tutta.
La logica della ristrutturazione
comporta infatti la soppressione di linee ferroviarie periferiche, di
posti letto, di classi ed unità scolastiche, a tutto vantaggio
delle strutture private, trasformando i servizi dalla sfera del
diritto a quella del mercato.
La logica di mercato
Che il vero scopo sia quello di
imprimere una scelta autoritaria e non garantire i diritti
dell'utenza, come pretestuosamente si afferma, può essere
dimostrato dall'esame delle quote degli stanziamenti destinati ai
servizi: nel caso del Ministero della Pubblica Istruzione si è
passati dal 20% circa del 1970 al 9,3% del 1982, prima volta in cui
dopo il 1952 si è scesi al di sotto del 10%. Né tale
tendenza sembra conoscere battute di arresto.
Queste cifre dimostrano quali elementi
di solidarietà abbiano prodotto negli anni i detrattori dei
Cobas, in prima linea i sindacati che di tale situazione sono
"tradizionalmente" corresponsabili. Gli stessi che hanno
siglato un contratto fortemente regressivo per la Scuola, che hanno
accettato il principio della mancia estiva per i lavoratori della
FIAT e che, nel tentativo disperato di arginare la crisi del Partito
padre, rispolverano demagogicamente l'istituto del referendum che non
sanno più né manovrare né portare alle estreme
conseguenze dopo la bocciatura degli accordi da parte delle categorie
interessate.
Sull'altare di compatibilità
politiche (l'Ente Ferrovie, per non cedere agli scioperi ha
sopportato oneri molto maggiori di quelli richiesti dalla piattaforma
Cobas) ed economiche (iniqua redistribuzione delle risorse), si
consuma il funerale di una sinistra imbelle e correa di fronte al più
grave attacco portato alla democrazia dal dopoguerra ad oggi.
Mentre Pizzinato, Marino e Co. non
riusciranno a fermare la storia, i sostenitori della frammentazione
avranno buon gioco nel far trionfare la logica di mercato anche
all'interno delle relazioni sindacali: l'implosione della
conflittualità non può essere altro che il preludio a
una guerra per bande, al micro-corporativismo diffuso, alla lotta tra
lavoratori l'uno contro l'altro armati, il divide et impera del
Capitale.
Proprio grazie ai Sindacati-istituzione
ed alla legge anti-Cobas si sta per dare il via ad una rincorsa a
catena fra sindacati, strutture auto-regolamentate, ma
"all'americana", pronte a "rompere" anche
all'interno delle singole categorie, con la morte definitiva di ogni
legame solidaristico ed il trionfo del rampantismo, senza peraltro
che si rechi alcun giovamento alla crisi ormai strutturale della
Confederazione.
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