Rivista Anarchica Online
A proposito del "caso Sofri"
di Carlo Oliva
Può essere istruttivo, adesso
che le acque del caso Calabresi-Sofri si sono parzialmente placate
(almeno per il momento) con la "concessione" degli arresti
domiciliari agli arrestati, riesaminarne le varie fasi dal punto di
vista, diciamo così, ideologico pubblicistico. Istruttivo, ma
forse un po' penoso. La vicenda della morte di Pinelli e
dell'uccisione di Calabresi ha rappresentato, a suo tempo, un
episodio tragico di storia contemporanea. Sedici anni dopo, la
tragicità di quegli eventi non ha impedito che i vari
personaggi impegnati a rievocarli e a interpretarli, ciascuno a suo
modo, sfiorassero a volte il ridicolo. La prima fase, alla fine dello
scorso luglio, subito dopo l'arresto di Sofri, Pietrostefani e
Bompressi, è stata caratterizzata dalla ripresa unanime, da
parte di tutta la stampa, o quasi, del "modello Toni Negri".
Un altro cattivo maestro (o due? La posizione di Pietrostefani è
sempre stata difficile da definire...) era caduto nella rete. Era
un'occasione preziosa per gettare l'anatema sul post '68 nel suo
complesso, definendolo come una triste vicenda di violenti e di
assassini, operosi ancor prima che cominciasse la lotta armata, e per
fare i conti con l'immagine, tradizionale anche se "di
sinistra", di quegli anni.
Tutti, ma proprio tutti, scrissero di
Calabresi buon funzionario e cittadino esemplare. Tutti rimossero con
cura il ricordo e la consapevolezza di quanto la battaglia per la
verità sulla morte di Pinelli avesse significato allora per la
democrazia italiana, negando con disinvolto cinismo il fatto che di
questa battaglia, dalla spiccata valenza morale, prima ancora che
politica, il gruppo di Lotta Continua fosse stato, con pochi altri,
protagonisti. Tutti insomma, si affrettarono, ciascuno nel suo
piccolo, a riscrivere la storia, dimostrando che anche dopo il 1984
le profezie del vecchio Orwell conservano la loro validità.
Poi, man mano che passavano i giorni, e
che i vari commentatori si rendevano conto, desolati, di come le
uniche munizioni in mano ai magistrati fossero le solite chiamate di
correità del solito pentito, questo motivo è stato
lasciato cadere. La parola è passata agli arrestati e ai loro
difensori ed amici, che hanno potuto sbizzarrirsi per qualche tempo
sul tema "Ma dove sono le prove?". Un'argomentazione
assolutamente corretta, ma, nel caso, debolissima e di efficacia
praticamente nulla, non perché di prove ce ne fossero, e
neanche perché la data (ferragosto) non era esattamente la più
propizia alle battaglie civili, ma perché tutti sanno, anche
se non sempre lo ammettono, che da anni, da quando esiste la
legislazione di emergenza, in Italia si arresta e si condanna a pene
durissime (ergastolo compreso) senza prove o riscontri di nessun
tipo, sull'unica base dei sentito dire dei pentiti di turno.
Ora, si sapeva anche che l'imputato
principale (o comunque più noto), il suo avvocato di fiducia e
il suo principale sponsor parlamentare avevano posto mano, anni fa,
ai tempi del "caso Fioroni", alla definizione ideologica
del ruolo e della figura del pentito. Avevano, anzi, contribuito alla
diffusione del principio per cui, riscontri o no, il pentito ha
sempre ragione. Era abbastanza evidente, così, che il loro
sdegno perché i magistrati non si curavano di prove ma davano
acritico ascolto alle accuse di terzi, non fosse retoricamente così
convincente. Avevano ragione, certo, ma facevano lo stesso la figura
di quelli che cadono dal pero.
Il principio in questione, d'altronde,
non si può dichiarare e va utilizzato con qualche precauzione.
I lettori di giornali non sono poi così cinici: i più
s'aspettano che le prove, un momento o l'altro, siano esibite. I
colpevolisti dovevano, in qualche modo, cambiare registro.
Le rivalità dei galli
È
scattata, così, la terza fase, quella caratterizzata
dalla parola d'ordine "Ma com'è antipatico il senatore
Boato". I cronisti tacevano, se non altro per mancanza di
materiale da cronaca, e i notisti cominciavano a dire la loro, con la
sottile perfidia che in genere li caratterizza. Così,
l'autodifesa degli imputati e dei loro ex compagni (tra cui, appunto,
il senatore suddetto, che simpatico a tutti non è, ma che
c'entra) è stata volte a volte denunciata come querula,
logorroica, improvvida, offensiva per le vittime del terrorismo e
poco signorile nei confronti dell'accusatore. In effetti, su costui,
e su sua moglie, si sono dette cose pochissimo gradevoli, e se Sofri
non ha avuto torto nel notare come, di fronte a un'accusa da
ergastolo, si sentisse giustificato nel venir meno a un fair play
etoniano, vari principi del corsivo sono stati disgustati lo stesso.
Il bello è che a dare, in un
certo senso, man forte a costoro è venuto un buon numero di
"compagni" o sedicenti tali. Nei tardi anni '80, a quanto
sembra, nel pollaio dell'ex "nuova sinistra", restano
vitali soltanto le rivalità dei galli. Qualcuno ha visto, se
non proprio con gioia, con un certo compiacimento l'arresto di un
rivoluzionario passato alla frequentazione di Claudio Martelli. Molti
sono stati tentati dal commentare con un "ben gli sta", e
due o tre non hanno resistito alla tentazione di dirlo, in forma più
o meno allusiva (certi vecchi irriducibili tromboni hanno sviluppato
il concetto in senso autoelogiativo, secondo lo schema del "lui
ha tradito la Causa, io no, dunque applauditemi", ma queste sono
solo miserie).
Immagino che, dopo gli arresti
domiciliari, costoro si sentiranno confortati nella loro opinione: in
effetti questa forma di detenzione va considerata un trattamento
privilegiato, e, che io sappia, ad accusati in questo tipo è
stata finora concessa di rado. Ma l'ordinanza relativa insiste molto
sulla dovuta applicazione di una legge entrata in vigore dopo
l'arresto, e possiamo anche crederci. Non entriamo inutilmente in
polemica. Personalmente, per quello che vale la mia opinione, non ho
neanch'io una gran simpatia per le figure pubbliche che gli arrestati
hanno finito con l'incarnare (e sul piano privato non li conosco).
Anzi, ritengo che abbiano, soprattutto Sofri, grosse responsabilità
politiche, non in quanto fondatori e dirigenti di Lotta Continua, ma
per il loro ruolo pubblico successivo, per avere, cioè,
contribuito a stravolgere la pratica giudiziaria nel nostro paese e
per avere dato una mano a un processo di ridefinizione dei valori
etici e dei giudizi storici che risponde soltanto a interessi di
parte (e di classe).
Ma queste, naturalmente, sono
responsabilità politiche, non penali, e infatti Sofri le
condivide con parecchi altri. Dell'innocenza degli imputati riguardo
allo specifico addebito, non vedo proprio ragione di dubitare, anche
e soprattutto perché il copione dell'accusa non riesce a
convincere. E naturalmente l'accusa deve convincere, al di là
di ogni ragionevole dubbio: a questo minimo precetto di civiltà
giuridica non è possibile rinunciare. Il fatto è che,
in tutto questo polverone, si corre il rischio di lasciarsi sfuggire
le cose importanti. Che sono poi due problemi, tutt'altro che
indipendenti tra loro, sui quali non bisognerebbe stancarsi, almeno
tra noi, di tenere il dibattito aperto.
Il primo è appunto il problema
giudiziario. Oggi, a denunciare i "guasti" prodotti dalla
legislazione d'emergenza c'è qualcuno in più di quanti
ce ne fossero ieri, anche se a volte si argomenta in modo maldestro,
come se ci si dimenticasse che abbastanza guasto il sistema lo era
anche prima. Ma la legge sui pentiti prima, quella sulla
dissociazione poi, e, soprattutto, una pratica inquirente e una
cultura fondate sui loro principi e sorrette dall'indifferenza verso
le garanzie formali della difesa, hanno creato una situazione davvero
spinosa. Il fatto che alcuni antesignani ideologici del pentitismo ne
subiscano oggi simili spiacevolissime conseguenze dovrebbe fare
riflettere: il serpente che si morde la coda segnala sempre una
crisi. Il secondo, naturalmente, è
quello di un giudizio storico e morale sugli anni '70 che non sia
costruito su misura sugli interessi dei vincitori. Non è
possibile riscrivere la vicenda Calabresi-Pinelli con i toni in cui
molti l'hanno riscritta tra luglio e agosto. Oh dio, non è
necessario abbarbicarsi come ostriche al frasario e ai giudizi di
allora, anche se non si trattava poi di termini e giudizi deplorevoli
quanto oggi si dice. Una cosa, però, è scrivere che nel
demonizzare il commissario Calabresi si commisero a suo tempo certi
errori e ci si assunsero delle responsabilità: è un
concetto opinabile, ma appunto per questo da discutere (anche se agli
imputati, oggi, viene ascritto a prova di colpevolezza proprio il
fatto di essersi assunte quelle responsabilità). Passare la
spugna su ogni possibile responsabilità degli uomini della
Questura e delle pubbliche autorità in generale è tutto
un altro discorso.
Infine, mi sembra sia ora di impostare
almeno il problema del giudizio sulle organizzazioni politiche
degli anni '70, e in particolare su Lotta Continua. Su Lotta
Continua, di questi tempi, se ne sono sentite di tutte: dalle
dichiarazioni di simpatia (rare) alle imputazioni di colpe
gravissime. Molti suoi ex dirigenti e militanti hanno fatto quadrato
in difesa del proprio passato. Personalmente, a me sembra che a volte
abbiano semplificato un po' troppo il quadro valori dei loro giudizi:
il sullodato senatore Boato, per esempio, ha parlato della sua
vecchia organizzazione come se fosse stata un incrocio tra un club
liberale e una formazione di boy scout. In realtà, in Lotta
Continua c'era un po' di tutto: c'erano intellettuali e operai,
estremisti e moderati (come Boato, appunto), avanguardie di fabbrica
ed esponenti del sottoproletariato: c'erano, come assicurava lo
stesso inno ufficioso dell'organizzazione, studenti, pastori sardi e
altri ancora. C'era, se interessa a qualcuno, anche qualche
insegnante, tra cui chi scrive, che non ha mai avuto occasione di
deplorare questa esperienza.
Il fatto è che tutte queste
variegate figure sociali e ideologiche non erano insieme per caso:
partecipavano a un tentativo di ricomposizione (diciamo una specie di
blocco sociale alternativo?), in base a un progetto politico
originale, il che è qualcosa di più di quanto si possa
dire della maggior parte degli altri gruppi. Ovviamente, sulla logica
del progetto e sulle modifiche che subì nella breve vita
dell'organizzazione si potrebbe discutere a lungo. Io credo che,
finché tenne, abbia comunque rappresentato un momento positivo
della vita democratica e della cultura italiana. Certo, tenne per
poco, e quando venne meno cominciarono i guai. Ma bisogna avere molta
fiducia nella provvidenza, nella giustizia divina o nel materialismo
dialettico per considerare una forza politica responsabile dei propri
insuccessi e perseguitarne i capi e gli adepti perché non sono
riusciti a realizzare ciò che si proponevano...
Suppongo che parecchi lettori di questa
rivista non siano affatto d'accordo con me, e naturalmente, non è
il caso di affrontare proprio qui questo dibattito complicato. Ma
vale la pena di cominciare a pensarci. Chissà perché,
siamo in molti ad avere l'impressione che di tutto ciò si
continuerà a parlare a lungo. E sarebbe carino non giocare
sempre di rimessa.
Forse,
come scrive il nostro collaboratore Carlo Oliva, parecchi lettori di
"A" non saranno affatto d'accordo con lui. Comunque, non lo
siamo noi della redazione: non affatto, beninteso. Se no,
francamente, non avremmo pubblicato questo suo scritto.
Concordiamo,
nella sostanza, con la sua analisi del significato del "caso
Sofri" (o meglio, del "caso
Bompressi/Pietrostefani/Sofri"). Abbiamo sempre denunciato il
ruolo aberrante attribuito ai cosiddetti "pentiti" da un
sistema giudiziario sempre più "emergenziale" ed
ingiusto.
Abbiamo
anche noi scarsissima simpatia per le figure pubbliche che gli
arrestati hanno finito con l'incarnare. Riteniamo - e l'abbiamo
scritto a chiare lettere sullo scorso numero - che la loro presunta
responsabilità debba essere dimostrata dall'accusa, rigettando
quell'inversione dell'onere della prova che è diventata
malcostume corrente nelle aule dei tribunali e sulle pagine dei
giornali. Per cui, indipendentemente dal giudizio sul fatto di cui
sono accusati, non possiamo che ritenerli innocenti, fino a prova
contraria.
Dove
non siamo affatto d'accordo con Carlo Oliva è nel suo giudizio
su Lotta continua. Per LC, come più o meno verso tutte le
organizzazioni extra-parlamentari marxiste, non abbiamo mai avuto
simpatia, non tanto e non solo per ragioni ideologiche. Il fatto è
che nel comportamento di quelle organizzazioni erano costantemente
presenti aspetti biecamente "politici" - rispetto ai quali
non mancammo certo di polemizzare "a caldo" (un esempio per
tutti, l'articolo "Pubblicità di piazza per il nuovo
partito", su "A" 6 luglio/agosto 1971).
Si
era in presenza del loro continuo tentativo di mistificare la realtà,
gonfiando le situazioni, presentando se stessi sempre e comunque come
"gli unici" o almeno "i primi". Si andava dal
sistematico "prender la testa del corteo" al falsificare
l'identità politica ed ideale altrui. A monte c'era quella
"cultura dell'esagerazione" di cui LC fu indubbiamente
generosa, ma non disinteressata, dispensatrice.
Dietro
l' immagine insistentemente "informale", quasi libertaria,
che LC offriva di sé, c'era in realtà un'organizzazione
gerarchicamente ben definita, con nettissima distinzione tra vertice
e base. E se quest'ultima era indubbiamente, come sostiene Oliva,
differenziata e disomogenea, il vertice no: quello era ben preciso,
immanente.
Fermiamoci
qui. Non era nostra intenzione utilizzare questa postilla per
richiamare tutte le ragioni del nostro profondo dissenso da LC e dai
suo metodi. Per ragioni di spazio, ci basta qui ricordare che ce ne
furono, non poche e non secondarie: senza per questo voler negare
sempre e comunque una positività - dal punto di vista nostro,
libertario - ad un'esperienza comunque complessa ed articolata come
quella di LC, con i cui militanti pure combattemmo insieme non poche
battaglie (il caso Pinelli è emblematico).
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