Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 19 nr. 169
dicembre 1989 - gennaio 1990


Rivista Anarchica Online

Che cosa è un nome
di Carlo Oliva

Già, che cosa c'è, in fondo in un nome? Perché tutti sappiamo che quella che chiamiamo rosa by any other name would smell as sweet, se avesse qualsiasi altro nome avrebbe ugualmente lo stesso soave profumo, e in molti, nonostante l'asserito parere in contrario di Socrate, tendiamo a considerare abbastanza ragionevole quell'interlocutore del Cratilo cui sembra che quando uno dà nome a una cosa, codesto sia il nome giusto e se poi, ancora, sostituisce quel nome con un altro, e più non adopera il nome di prima, per nulla il secondo sia meno giusto del primo, perché da natura le singole cose non hanno nessun nome nessuna bensì solo per legge e per abitudine di coloro che si sono abituati a chiamarle in quel dato modo e in quel modo le chiamano. L'ipotesi opposta, pur cara a Platone e ad altri dopo di lui, è troppo in contrasto con i pochi risultati acquisiti della scienza linguistica.
Certo, come sa quella signora lombarda che in un albergo romano protestava con la sua cameriera perché non c'erano abbastanza ometti nel suo armadio, quando i nomi in questione si riferiscono a quelle che Platone chiama "le singole cose", una certa uniformità d'uso può essere consigliabile, a scanso d'equivoci. Ma quando ci riferiamo ad entità più complesse, identificabili e normalmente identificate in base a tutt'altra serie di parametri, beh, cambiarlo non dovrebbe poi essere tanto difficile. E tutta la bagarre che oggi si fa a proposito dell'un tempo invocato e finalmente ventilato cambiamento di nome del locale Partito Comunista, a rigore, dovrebbe sembrare a un osservatore distaccato un esempio di dibattito demenziale, al cui confronto quelli in uso a Costantinopoli sul numero degli angeli in grado di danzare sulla punta di uno spillo assurgono a modelli di concretezza teoretica assoluta.
Non fraintendetemi. So che non è vero, naturalmente. Non mi sfugge che i nomi sono importantissimi, tanto è vero che la povera Giulietta, con tutte quelle sue chiacchiere sul soave profumo della rosa, è finita, come è noto, malissimo (anche se il suo problema non riguardava tanto il nome quanto il cognome). Ma ammetterete, spero, che l'Italia è uno strano paese. È un paese, per lo meno, tanto concentrato sul proprio ombelico che di fronte a eventi che altrove sembrano di portata epocale non sa altro che rinfocolare le solite meschine polemiche. Un paese in cui i maitres à pénser che fanno opinione hanno avuto il coraggio di servirsi della tragedia di Tienanmen per incitare a non votare per questo o quello alle elezioni europee (!), in cui il giorno dopo l'elezione del primo sindaco afroamericano a New York si è scritto che l'evento ci esorta a riformare la legge elettorale municipale e in cui, appunto, la crisi drammatica (e, chissà, salutare) delle strutture politiche dell'est europeo è l'occasione per meditati e ispirati dibattiti sul nome del partito comunista italiano: come sarebbe giusto cambiarlo, ma no, non vedete che appena propongono di cambiarlo tutti si incazzano, ci vuol altro che cambiarlo, e chi si fida anche se lo cambiano, però, se lo cambiano mi dispiace un po'.
Il che, se ci pensate, è piuttosto contraddittorio, da parte di gente che ha interpretato la suddetta crisi dell'est, con relativo abbattimento del muro di Berlino, come la prova definitiva e inconfutabile del fallimento del comunismo come sistema, come ideologia e come ideale politico (il che a rigore non dovrebbe essere considerato una prova del successo assoluto e totale del sistema parlamentare e dell'economia di mercato, ma sapete come va il mondo dell'argomentazione). In politica, i nomi interessano finché si riferiscono a concetti su cui il dibattito è aperto: poi scompaiono (bisogna essere dotati d'una certa cultura storica per sapere cosa significhino espressioni come "montagnardo", "oligarchico" o "sanfedista", no?) o perdono rapidamente d'incisività. Ci si è scannati, nel secolo scorso, sul termine "democratico", che a molti sembrava pericolosamente eversivo, ma adesso democratici sono notoriamente tutti e nessuno si scandalizza se quell'etichetta è rivendicata da tutti, compresi gli eredi ideologici di coloro che a suo tempo denunciavano la democrazia come un gravissimo errore. La parola "socialista" ha designato un ideale che ha infiammato - e terrorizzato - alcune generazioni, ma oggi è talmente usurata che riferendola ai partiti di Craxi e Cariglia non si sente nemmeno il bisogno di sottintendere le virgolette. E chi si preoccupa tanto del termine "comunismo", in fondo, può far dubitare della sincerità della sua convinzione che il comunismo sia definitivamente uscito di scena.

Tante ragioni
Il fatto è che si può cambiar nome per tante ragioni. Per esprimere una volontà di cambiamento di sé, come quando si entra in convento o ci si fa battezzare o si diventa sanyasi. Perché ci si è costretti, come capita a volte a un paese conquistato (vi siete mai interrogati sulla differenza tra altoatesini e sudtirolesi?) o al contrario per affermare una volontà di indipendenza (che so, lo Zimbabwe che non vuole più essere Rhodesia). Lo si fa per sottrarsi alle ricerche altrui (specialmente da parte della polizia), o per meglio imporsi all'attenzione di tutti ( i "nomi d'arte", che in genere si scelgono perché più facilmente pubblicizzati). O per motivi molto più sofisticati, come quando lo si fa per affermare la prevalenza del proprio ruolo carismatico acquisito sulla propria persona originaria, che è il motivo per cui Iosif Visarionovic Djugashvili preferiva farsi chiamare Stalin e Karol Wojtyla è disposto a firmare gli atti del suo regno con lo strano pseudonimo di Giovanni Paolo II.
Nel caso specifico, i partiti comunisti, nel senso di quelli che in un modo o nell'altro condividono l'esperienza della Terza Internazionale, sono autentici specialisti nel cambio del nome. Non sarà un caso se il partito al potere (per ora) nella DDR si chiama Partito d'unità socialista, in Polonia Partito operaio unificato, in Ungheria (fino a un mese fa) Partito socialista operaio, in Mongolia Partito popolare rivoluzionario, in Corea del Nord Partito dei lavoratori, eccetera. Nell'Unione Sovietica il partito oggi diretto dal buon Gorby ha assunto il nome di comunista dopo la rivoluzione d'ottobre (prima si chiamava Partito socialdemocratico russo, pensate un po') e ha lasciato cadere l'aggettivo "bolscevico" molto più tardi. In Italia, l'attuale Partito comunista italiano ha già tacitamente cambiato nome una volta, assumendo l'attuale in luogo del precedente "Partito comunista d'Italia", alla ripresa dell'attività legale dopo il fascismo. Il tutto non certamente a caso, ma per esprimere volta in volta certi messaggi: per dar ragione di avvenute unificazioni (magari forzate) con altre forze della sinistra nei casi tedesco e polacco, per manifestare una volontà politica unitaria e rispettosa delle peculiarità locali in estremo oriente, per esprimere un auspicio di rinnovamento in Ungheria, per significare l'adozione di una linea politica asserita come decisamente nuova nell'URSS e in Italia.
E allora, naturalmente, varrebbe la pena di chiedersi che cosa dovrebbe esprimere il tanto discusso battesimo del PCI. Magari si scoprirebbe che ha diversi significati per i diversi soggetti politici che ne parlano o ne fanno parlare. Che probabilmente per certuni significa il sanzionamento di una sconfitta (come nella pratica cavalleresca, quando al nemico abbattuto si poteva imporre di non farsi chiamare più con il suo nome) e per certi altri esprime una speranza di rinnovamento. E che queste due volontà politiche, entrambe legittime, ciascuna dal suo punto di vista, tendono a confondersi perché restano ai margini del discorso, in una dimensione di dibattito politico implicito. Il che è imbarazzante: il moderatismo italiano celebra i suoi trionfi, annettendosi, con disinvolta retorica, la caduta del muro di Berlino e la crisi nell'Europa dell'est, ma non può affermare di avere sconfitto il partito comunista e in fondo non desidera farlo, perché ne riconosce il ruolo di stabilizzatore della pace sociale. Desidera, piuttosto, che quel partito abbia la buona grazia di dichiararsi sconfitto da sé, chiedendo il battesimo purificatore, come la bella Clorinda dopo il duello con Tancredi. Il partito comunista, a sua volta, non è alieno, almeno in certe componenti, all'accondiscendere alla richiesta, ma non può eccedere in zelo auto-accusatorio: uno dei suoi presupposti teoretici è quello di aver avuto sempre ragione in generale, anche quando ha commesso questo o quello sbaglio particolare (anche se ha cancellato il marxismo dal suo statuto, o quasi, è sempre un'organizzazione che con la cultura marxista ha qualcosa a che fare, e attraverso di essa può risalire con una certa facilità alla dialettica hegeliana).
E naturalmente, perché in fondo tutti sanno che aveva ragione Ermogene, e non Socrate, e non ha senso dire che bisogna denominare così nel modo e col mezzo onde natura vuole che le cose si denominino e siano denominate e non già secondo l'arbitrio nostro (sì, l'italiano è terribile, ma è quello dell'edizione italiana corrente di Platone, della Laterza) c'è sempre il rischio che le definizioni nominali siano, rispetto agli standard correnti, in qualche modo ingannevoli. Un partito può sempre definirsi comunista pur perseguendo una politica che con l'ideale comunista, almeno com'è normalmente inteso, non ha nulla a che fare, o viceversa può restare cupamente fedele alla linea anche assumendo il più conservatore e il più moderato dei nomi. Poi, naturalmente, tutti sono liberi di fidarsi o di non fidarsi, di esigere prove, dichiarazioni di lealtà, ordalie o giudizi di Dio o anche di dire che di tutta la questione non gliene importa assolutamente niente e che ci sono cose più serie di cui occuparsi. Il che forse è vero, anche se non bisogna mai trascurare il valore ideologico dei messaggi che esprimono intenti, al cui novero l'autodenominazione di diritto appartiene.

Molta pena
In questo pasticcio, vi dirò, tendo a provare un'istintiva solidarietà per quegli iscritti al PCI che riluttano di fronte al proposto cambiamento. Non credo che siano tutti esponenti della vecchia guardia stalinista, come qualcuno ha detto: la vecchia guardia stalinista è celebre per lo scarso sentimentalismo e la propensione ad accettare, in nome del fine, qualsivoglia mediazione sul breve periodo. Gli stalinisti sono riusciti ad accettare l'alleanza con Hitler e l'intero repertorio della doppiezza togliattiana: volete che si preoccupino di un nome o di un simbolo? No, io credo che ad esprimere contrarietà siano gli iscritti normali, quel milieu medio di democratici in buona fede che hanno creduto nel grande partito che, venendo da lontano, ancora più lontano li avrebbe portati. Mi fanno, oggi, molta pena. Non perché sia d'accordo con loro, tutt'altro: personalmente ritengo che l'aggettivo "comunista" esprima ancora qualche valenza positiva, ma penso che quel partito non abbia qualifica alcuna a farla propria, per cui qualsiasi ri-denominazione non potrebbe che essere salutata come un contributo alla chiarezza politica. Ma insomma, poveracci, nella situazione in cui si trova oggi la politica della sinistra italiana, quel nome era tutto quello che gli restava. I nomi servono anche a sognare, o a illudersi. Ma questo, naturalmente è tutto un altro discorso.