Rivista Anarchica Online
Che cosa è un nome
di Carlo Oliva
Già, che cosa c'è, in
fondo in un nome? Perché tutti sappiamo che quella che
chiamiamo rosa by any other name would smell as sweet, se avesse
qualsiasi altro nome avrebbe ugualmente lo stesso soave profumo, e in
molti, nonostante l'asserito parere in contrario di Socrate, tendiamo
a considerare abbastanza ragionevole quell'interlocutore del Cratilo
cui sembra che quando uno dà nome a una cosa, codesto sia il
nome giusto e se poi, ancora, sostituisce quel nome con un altro, e
più non adopera il nome di prima, per nulla il secondo sia
meno giusto del primo, perché da natura le singole cose non
hanno nessun nome nessuna bensì solo per legge e per abitudine
di coloro che si sono abituati a chiamarle in quel dato modo e in
quel modo le chiamano. L'ipotesi opposta, pur cara a Platone e ad
altri dopo di lui, è troppo in contrasto con i pochi risultati
acquisiti della scienza linguistica.
Certo, come sa quella signora lombarda
che in un albergo romano protestava con la sua cameriera perché
non c'erano abbastanza ometti nel suo armadio, quando i nomi in
questione si riferiscono a quelle che Platone chiama "le singole
cose", una certa uniformità d'uso può essere
consigliabile, a scanso d'equivoci. Ma quando ci riferiamo ad entità
più complesse, identificabili e normalmente identificate in
base a tutt'altra serie di parametri, beh, cambiarlo non dovrebbe poi
essere tanto difficile. E tutta la bagarre che oggi si fa a proposito
dell'un tempo invocato e finalmente ventilato cambiamento di nome del
locale Partito Comunista, a rigore, dovrebbe sembrare a un
osservatore distaccato un esempio di dibattito demenziale, al cui
confronto quelli in uso a Costantinopoli sul numero degli angeli in
grado di danzare sulla punta di uno spillo assurgono a modelli di
concretezza teoretica assoluta.
Non fraintendetemi. So che non è
vero, naturalmente. Non mi sfugge che i nomi sono importantissimi,
tanto è vero che la povera Giulietta, con tutte quelle sue
chiacchiere sul soave profumo della rosa, è finita, come è
noto, malissimo (anche se il suo problema non riguardava tanto il
nome quanto il cognome). Ma ammetterete, spero, che l'Italia è
uno strano paese. È
un paese, per lo meno, tanto concentrato sul proprio ombelico che di
fronte a eventi che altrove sembrano di portata epocale non sa altro
che rinfocolare le solite meschine polemiche. Un paese in cui i
maitres à pénser che fanno opinione hanno avuto
il coraggio di servirsi della tragedia di Tienanmen per incitare a
non votare per questo o quello alle elezioni europee (!), in cui il
giorno dopo l'elezione del primo sindaco afroamericano a New York si
è scritto che l'evento ci esorta a riformare la legge
elettorale municipale e in cui, appunto, la crisi drammatica (e,
chissà, salutare) delle strutture politiche dell'est europeo è
l'occasione per meditati e ispirati dibattiti sul nome del partito
comunista italiano: come sarebbe giusto cambiarlo, ma no, non vedete
che appena propongono di cambiarlo tutti si incazzano, ci vuol altro
che cambiarlo, e chi si fida anche se lo cambiano, però, se lo
cambiano mi dispiace un po'.
Il che, se ci pensate, è
piuttosto contraddittorio, da parte di gente che ha interpretato la
suddetta crisi dell'est, con relativo abbattimento del muro di
Berlino, come la prova definitiva e inconfutabile del fallimento del
comunismo come sistema, come ideologia e come ideale politico (il che
a rigore non dovrebbe essere considerato una prova del successo
assoluto e totale del sistema parlamentare e dell'economia di
mercato, ma sapete come va il mondo dell'argomentazione). In
politica, i nomi interessano finché si riferiscono a concetti
su cui il dibattito è aperto: poi scompaiono (bisogna essere
dotati d'una certa cultura storica per sapere cosa significhino
espressioni come "montagnardo", "oligarchico" o
"sanfedista", no?) o perdono rapidamente d'incisività.
Ci si è scannati, nel secolo scorso, sul termine
"democratico", che a molti sembrava pericolosamente
eversivo, ma adesso democratici sono notoriamente tutti e nessuno si
scandalizza se quell'etichetta è rivendicata da tutti,
compresi gli eredi ideologici di coloro che a suo tempo denunciavano
la democrazia come un gravissimo errore. La parola "socialista"
ha designato un ideale che ha infiammato - e terrorizzato - alcune
generazioni, ma oggi è talmente usurata che riferendola ai
partiti di Craxi e Cariglia non si sente nemmeno il bisogno di
sottintendere le virgolette. E chi si preoccupa tanto del termine
"comunismo", in fondo, può far dubitare della
sincerità della sua convinzione che il comunismo sia
definitivamente uscito di scena.
Tante ragioni
Il fatto è che si può
cambiar nome per tante ragioni. Per esprimere una volontà di
cambiamento di sé, come quando si entra in convento o ci si fa
battezzare o si diventa sanyasi. Perché ci si è
costretti, come capita a volte a un paese conquistato (vi siete mai
interrogati sulla differenza tra altoatesini e sudtirolesi?) o al
contrario per affermare una volontà di indipendenza (che so,
lo Zimbabwe che non vuole più essere Rhodesia). Lo si fa per
sottrarsi alle ricerche altrui (specialmente da parte della polizia),
o per meglio imporsi all'attenzione di tutti ( i "nomi d'arte",
che in genere si scelgono perché più facilmente
pubblicizzati). O per motivi molto più sofisticati, come
quando lo si fa per affermare la prevalenza del proprio ruolo
carismatico acquisito sulla propria persona originaria, che è
il motivo per cui Iosif Visarionovic Djugashvili preferiva farsi
chiamare Stalin e Karol Wojtyla è disposto a firmare gli atti
del suo regno con lo strano pseudonimo di Giovanni Paolo II.
Nel caso specifico, i partiti
comunisti, nel senso di quelli che in un modo o nell'altro
condividono l'esperienza della Terza Internazionale, sono autentici
specialisti nel cambio del nome. Non sarà un caso se il
partito al potere (per ora) nella DDR si chiama Partito d'unità
socialista, in Polonia Partito operaio unificato, in Ungheria (fino a
un mese fa) Partito socialista operaio, in Mongolia Partito popolare
rivoluzionario, in Corea del Nord Partito dei lavoratori, eccetera.
Nell'Unione Sovietica il partito oggi diretto dal buon Gorby ha
assunto il nome di comunista dopo la rivoluzione d'ottobre (prima si
chiamava Partito socialdemocratico russo, pensate un po') e ha
lasciato cadere l'aggettivo "bolscevico" molto più
tardi. In Italia, l'attuale Partito comunista italiano ha già
tacitamente cambiato nome una volta, assumendo l'attuale in luogo del
precedente "Partito comunista d'Italia", alla ripresa
dell'attività legale dopo il fascismo. Il tutto non certamente
a caso, ma per esprimere volta in volta certi messaggi: per dar
ragione di avvenute unificazioni (magari forzate) con altre forze
della sinistra nei casi tedesco e polacco, per manifestare una
volontà politica unitaria e rispettosa delle peculiarità
locali in estremo oriente, per esprimere un auspicio di rinnovamento
in Ungheria, per significare l'adozione di una linea politica
asserita come decisamente nuova nell'URSS e in Italia.
E allora, naturalmente, varrebbe la
pena di chiedersi che cosa dovrebbe esprimere il tanto discusso
battesimo del PCI. Magari si scoprirebbe che ha diversi significati
per i diversi soggetti politici che ne parlano o ne fanno parlare.
Che probabilmente per certuni significa il sanzionamento di una
sconfitta (come nella pratica cavalleresca, quando al nemico
abbattuto si poteva imporre di non farsi chiamare più con il
suo nome) e per certi altri esprime una speranza di rinnovamento. E
che queste due volontà politiche, entrambe legittime, ciascuna
dal suo punto di vista, tendono a confondersi perché restano
ai margini del discorso, in una dimensione di dibattito politico
implicito. Il che è imbarazzante: il moderatismo italiano
celebra i suoi trionfi, annettendosi, con disinvolta retorica, la
caduta del muro di Berlino e la crisi nell'Europa dell'est, ma non
può affermare di avere sconfitto il partito comunista e in
fondo non desidera farlo, perché ne riconosce il ruolo di
stabilizzatore della pace sociale. Desidera, piuttosto, che quel
partito abbia la buona grazia di dichiararsi sconfitto da sé,
chiedendo il battesimo purificatore, come la bella Clorinda dopo il
duello con Tancredi. Il partito comunista, a sua volta, non è
alieno, almeno in certe componenti, all'accondiscendere alla
richiesta, ma non può eccedere in zelo auto-accusatorio: uno
dei suoi presupposti teoretici è quello di aver avuto sempre
ragione in generale, anche quando ha commesso questo o quello sbaglio
particolare (anche se ha cancellato il marxismo dal suo statuto, o
quasi, è sempre un'organizzazione che con la cultura marxista
ha qualcosa a che fare, e attraverso di essa può risalire con
una certa facilità alla dialettica hegeliana).
E naturalmente, perché in fondo
tutti sanno che aveva ragione Ermogene, e non Socrate, e non ha senso
dire che bisogna denominare così nel modo e col mezzo onde
natura vuole che le cose si denominino e siano denominate e non già
secondo l'arbitrio nostro (sì, l'italiano è terribile,
ma è quello dell'edizione italiana corrente di Platone, della
Laterza) c'è sempre il rischio che le definizioni nominali
siano, rispetto agli standard correnti, in qualche modo ingannevoli.
Un partito può sempre definirsi comunista pur perseguendo una
politica che con l'ideale comunista, almeno com'è normalmente
inteso, non ha nulla a che fare, o viceversa può restare
cupamente fedele alla linea anche assumendo il più
conservatore e il più moderato dei nomi. Poi, naturalmente,
tutti sono liberi di fidarsi o di non fidarsi, di esigere prove,
dichiarazioni di lealtà, ordalie o giudizi di Dio o anche di
dire che di tutta la questione non gliene importa assolutamente
niente e che ci sono cose più serie di cui occuparsi. Il che
forse è vero, anche se non bisogna mai trascurare il valore
ideologico dei messaggi che esprimono intenti, al cui novero
l'autodenominazione di diritto appartiene.
Molta pena
In questo pasticcio, vi dirò,
tendo a provare un'istintiva solidarietà per quegli iscritti
al PCI che riluttano di fronte al proposto cambiamento. Non credo che
siano tutti esponenti della vecchia guardia stalinista, come qualcuno
ha detto: la vecchia guardia stalinista è celebre per lo
scarso sentimentalismo e la propensione ad accettare, in nome del
fine, qualsivoglia mediazione sul breve periodo. Gli stalinisti sono
riusciti ad accettare l'alleanza con Hitler e l'intero repertorio
della doppiezza togliattiana: volete che si preoccupino di un nome o
di un simbolo? No, io credo che ad esprimere contrarietà siano
gli iscritti normali, quel milieu medio di democratici in buona fede
che hanno creduto nel grande partito che, venendo da lontano, ancora
più lontano li avrebbe portati. Mi fanno, oggi, molta pena.
Non perché sia d'accordo con loro, tutt'altro: personalmente
ritengo che l'aggettivo "comunista" esprima ancora qualche
valenza positiva, ma penso che quel partito non abbia qualifica
alcuna a farla propria, per cui qualsiasi ri-denominazione non
potrebbe che essere salutata come un contributo alla chiarezza
politica. Ma insomma, poveracci, nella situazione in cui si trova
oggi la politica della sinistra italiana, quel nome era tutto quello
che gli restava. I nomi servono anche a sognare, o a illudersi. Ma
questo, naturalmente è tutto un altro discorso.
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